Archeologia: studioso scopre gli ingredienti dei preziosi profumi greci


Incenso, mirra, nardo, rosa, zafferano, maggiorana, cardamomo, cinnamomo, cassia, alloro, radice di iris: furono questi gli ingredienti principali di fragranze preziose come l’Aegyption, il Megalleion, il Panathenaicum e il Kypros, create dall’arte dei profumieri dell’antica Grecia (e poi diffuse anche nel mondo latino) e impiegate, in funzione dei costi, soprattutto da famiglie benestanti.

A svelare i segreti delle sostanze aromatiche nella vita quotidiana ad Atene e Roma e’ il libro ”Il profumo nel mondo antico” (Olschki editore) di Giuseppe Squillace, ricercatore in storia greca del Dipartimento di storia dell’Universita’ della Calabria. Il volume contiene anche la prima traduzione italiana del trattato ”Sugli odori” del filosofo e botanico greco Teofrasto (IV-III secolo).

Il grecista Giuseppe Squillace ha raccolto sistematicamente brani significativi dalle opere di autori antichi che sulla tematica del profumo hanno riportato notizie curiose e aneddoti, vicende mitologiche poste all’origine di alcune sostanze aromatiche, informazioni di carattere geografico sulle rotte commerciali e sulla provenienza delle spezie, dati sulla preparazione artificiale delle fragranze e sulle loro proprieta’ cosmetiche e medicinali. Grazie agli straordinari risultati della ricerca, Squillace ha preparato per la prima volta l’elenco degli ingredienti-base di 21 fragranze antiche ed ha ricostruito i metodi di estrazione delle essenze e i segreti del mestiere del profumiere greco.

fonte Adnkronos

Giusy Versace: dalla moda all’atletica. Di corsa e su due protesi di carbonio


Amputata alle gambe dopo soli 3 mesi di allenamento è già una promessa dell’atletica leggera e gareggerà ai Campionati Italiani di Imola. Prima la sua vita era fatta di aeroporti, trolley in mano e macchine a noleggio; ora di podi paralimpici da scalare e ancora un volo da prendere: quello per Londra 2012 ROMA – Le origini sono a Reggio Calabria, come il cuore, ma il lavoro e la vita da grande sono a Milano, ormai da 10 anni. Lei è Giuseppina Versace, anzi Giusy, ha 33 anni e vanta almeno due record: essere la prima atleta donna con amputazione bilaterale alle gambe in gara a un campionato nazionale di atletica leggera e concorrere al titolo, a soli 3 mesi dal debutto in questa disciplina. L’appuntamento è vicino: Imola, dal 19 al 20 giugno. “Correrò per i colori della mia terra, la Calabria, per l’Asd con noi di Reggio Calabria. Mi sono detta: se devo iniziare questa avventura sportiva, voglio rappresentare la regione da cui provengo”, racconta Giusy, anche se Milano l’ha adottata diventando la sua casa. E le ha offerto un lavoro che farebbe gola a qualsiasi amante della moda: quello di retail supervisor per una nota griffe, in pieno centro. Non l’azienda di famiglia (e il nome che porta parla di un’azienda che fattura cifre da capogiro), ma quello di una casa concorrente, “Per correttezza – dice lei-per non mischiare il lavoro con la famiglia, e anche per curiosità”, una qualità che la caratterizza da sempre e che, insieme a un briciolo di incoscienza, l’ha portata sulle piste d’atletica, appena realizzate le sue protesi sportive da corsa. “Me le ha fatte la Roadrunnerfoot Engineering, azienda che ha fondato il mio amico Daniele Bonacini, ex atleta paralimpico e ingegnere, aprendo di fatto la via alle protesi in carbonio qui in Italia. Perché da noi non esistono altre aziende che lavorino questo materiale, bisogna rivolgersi in Germania, in Islanda o in Francia”. Dall’amicizia con Bonacini è nata la collaborazione con Roadrunnerfoot, di cui Giusy ora è testimonial, e per la preparazione atletica, visto che Bonacini la segue attualmente negli allenamenti. Ma come è cambiata la vita di questa splendida ragazza calabrese, solare, umile, ottimista e di una bellezza magnetica? “Sono invalida a causa del lavoro. Sai, prima due settimane al mese, 4 giorni su 7, ero lontana da casa per lavoro: in giro per il mondo a controllare le boutique che avevano il nostro marchio in franchising, su e giù dagli aerei, negli alberghi, affittavo automobili con la velocità con cui si beve una tazzina di caffè- racconta-. E’ successo durante una delle trasferte, nell’agosto del 2005. Un incidente in cui ho davvero rischiato di morire e a causa del quale ho subito l’amputazione di entrambe le gambe”. Dopo, come è prevedibile, le pedine del gioco non si incastrano più come prima. “Al rientro a lavoro qualcosa è cambiato, certo. Per esempio, ho trovato molte porte chiuse”. E ha cominciato a lavorare nel back office. “Pian piano, però, a gomitate mi sono ripresa la mia scrivania. Ho ricominciato a guidare, ma sono realista: non posso più tenere i ritmi di prima. Ora viaggio molto meno”. In compenso, dirige una Onlus, Disabili no limits, di cui prima si occupava a tempo perso, e che ora è diventato un impegno importante, il lavoro per una causa giusta, come dice lei. “Ci occupiamo di raccogliere fondi per amputati economicamente svantaggiati – dice Giusy-, perché il servizio sanitario non riesce a garantire ausili abbastanza evoluti, fornisce solo protesi base. In più, curiamo progetti come “Emergenza Haiti”, attraverso cui abbiamo spedito kit e protesi per gli adulti e i bambini rimasti feriti nel terribile terremoto”. Poi c’è l’impegno sportivo, cominciato per caso e soprattutto da solo pochi mesi. “Ho messo le mie prime protesi da corsa il 15 febbraio scorso, e ho provato a correre in pista. Risultato? Non sono caduta, e già questo è stato un grande risultato”. Poi ci ha preso velocemente gusto, Giusy, fino a correre in 24 secondi i 100 mt, tempo che le è valso la qualificazione, per la verità non cercata, ai prossimi Campionati italiani, appunto. “Ero anche infortunata, quel giorno: perché la sera prima ero caduta ed avevo il moncone pieno di lividi. Quindi ho pensato che in forma ottimale, e allenandomi, posso far bene”. Non solo ‘far bene’. Infatti, da qui in poi, per Giusy prende vita un sogno grandioso, cui si è messa in testa di dar corpo con tutta se stessa, cominciando allenamenti seri e mirati. “Vorrei essere in gara alle Paralimpiadi di Londra, nel 2012. Pensa, Pistorius al femminile, la prima italiana a correre senza due gambe!”. L’ha promesso a se stessa e al presidente del Cip Calabria Fortunato Vinci che è un caro amico, e a Daniele, ovviamente. Indirettamente, però, lo promette a tutti quelli come lei, ma con meno coraggio e ottimismo, di lei. Ancora un volo da prendere, dunque. Stavolta per Londra, ma non nella settimana della moda. E’ già prenotato.

da www.superabile.it

Cinema: migrazioni e culture locali al festival di Riace (RC)


Quattro giorni di proiezioni ed eventi sul tema delle migrazioni nel paese dell’Accoglienza che ha ispirato l’ultimo documentario di Wim Wenders – un concorso per filmakers con 100 opere pervenute da tutta Italia e dall’estero – un importante dibattito con esperti sul tema degli appalti pubblici in Calabria – un incontro con i responsabili dei progetti di Accoglienza di Riace e Caulonia – presentazioni di libri e proiezioni fuori concorso degli ultimi lavori di Wim Wenders ed Edoardo Winspeare. Il tutto alla seconda edizione di A-Accoglienza Riaceinfestival la cui inaugurazione avverra’ il prossimo 20 maggio con la proiezione di ”Sotto il Celio Azzurro” di Edoardo Winspeare, documentario recentemente uscito nelle sale sull’intercultura e sulla prevenzione del disagio sociale girato nella piccola scuola materna Celio Azzurro di Roma in cui, dai primi anni ’90, e’ stato sperimentato un intelligente modello di educazione multiculturale che abitua i piu’ piccoli al dialogo tra le culture. La scuola oggi ospita 45 bambini di eta’ prescolare appartenenti a 32 nazionalita’ diverse.

La sera del 21 maggio sara’ invece presentato in una delle sue prime proiezioni pubbliche (la prima nella provincia di Reggio Calabria) “Il volo” di Wim Wenders, primo filmato di produzione italiana in 3D girato quasi interamente a Riace che ha come tema centrale le esperienze di Accoglienza di alcuni paesi della Locride. A-Accoglienza Riaceinfestival, Festival delle migrazioni e delle culture locali di Riace, e’ una manifestazione nata proprio sull’onda della politica di accoglienza e reinsediamento dei rifugiati e richiedenti asilo politico che l’amministrazione comunale del paese dei Bronzi sta attuando da alcuni anni con risultati molto positivi insieme ai comuni di Caulonia e Stignano.

fonte Adnkronos

8 marzo: incontro con le candidate regionali disabili


Discriminazione multipla e bisogno di rappresentare in prima persona le proprie problematiche: queste le motivazioni alla base delle candidature di alcune donne disabili alle prossime elezioni regionali. Le testimonianze di Nunzia Coppedè, Anna Petrone e Carla Castagna: “il nostro impegno politico è una conquista importante. Non si possono fare parti uguali tra diseguali”

donna disabile su sedia a ruote

ROMA – Una “doppia emarginazione: in quanto donne e in quanto disabili”: è questa la sorgente dell’impegno politico delle candidate con disabilità che si presenteranno nelle liste delle prossime elezioni regionali.  Aumenta il numero delle donne disabili che decidono di giocare la carta della politica, candidandosi i prima persone a rappresentare le problematiche e i bisogni che incarnano.

Per indicare solo alcuni nomi, alle prossime elezioni regionali, in Calabria si potrà votare per Nunzia Coppedè, in Campania si troverà sulla scheda il nome di Anna Petrone, in Piemonte si potrà dare la preferenza a Carla Castagna: tre donne con disabilità, tre donne da sempre impegnata nel associazionismo. Un protagonismo nuovo, quelle donne disabili, che sembra affondare le proprie radici in quella che tecnicamente si chiama “discriminazione multipla”.

“Nel mondo della disabilità, la donna ha una problematica  multipla – ci spiega la Coppedè, che in passato ha legato il suo nome alla fondazione della comunità Progetto Sud, alla comunità di Capodarco e dal 1995 è presidente della Fish Calabria – E’ quindi estremamente positivo che queste donne inizino a farsi sentire, diventino protagoniste: il loro impegno politico è una conquista importante”.

Dello stesso parere Anna Petrone, presidente dalla Uildm di Salerno ma anche consigliera nazionale della stessa associazione, che spiega “questo nuovo protagonismo delle donne disabili” con “la doppia discriminazione che dobbiamo subire. D’altra parte – aggiunge – anche la legge elettorale delle quote favorisce un maggior coinvolgimento politico delle donne”.

“Siamo le più discriminate – ci dice anche Carla Castagna – ed è per questo che decidiamo di impegnarci in prima persone. Serve un’ottica di genere, che invece ancora manca completamente. L’associazionismo della disabilità ci sono gravi ritardi in questo senso. Al tempo stesso, anche il movimento delle donne inizia solo ora a interessarsi delle problematiche della disabilità. La sensazione è che dobbiamo deciderci a rappresentare noi stesse le nostre problematiche, altrimenti nessuno se ne fa carico. Ed è per questo che ci candidiamo”.

Ma c’è un altro aspetto che accomuna tutte le candidate disabili in corsa per le prossime regionali: l’impegno nell’associazionismo. Come accade che dall’associazione si passi alla lista di partito? Alla base, sembra esserci da un lato la fiducia nelle potenzialità della politica, dall’altra l’insoddisfazione per le risposte che, fino a questo momento, la politica stessa ha fornito ai bisogni delle persone. “Siamo stati sempre coinvolti, come federazione, dagli enti locali – racconta Anna Petrone – C’è sempre stata una forte collaborazione tra associazione e politica, soprattutto a livello territoriali. Ci siamo però accorti che i politici si limitavano ad ascoltare i nostri bisogni, per poi reinterpretarli a loro modo. In altre parole, i nostri bisogni non sono mai stati davvero soddisfatti. Per questo, credo che debba avvenire questo passaggio dall’associazionismo alla politica: perché dobbiamo essere noi, in prima persona, a portare avanti le nostre richieste e a trovare le risposte adeguate. E c’è molto da fare, soprattutto dal punto di vista socio-sanitario: manca quasi completamente l’assistenza personale, senza la quale è impossibile parlare di integrazione”.

Parole ed esperienze che trovano riscontro anche nei racconti di Nunzia Coppedè, entrata in politica “per la grane difficoltà di ottenere cambiamenti politici in Calabria: ho pensato che fosse ora di provare questa esperienza, per realizzare in prima persona questo cambiamento. Per quanto riguarda la nostra Regione, l’urgenza principale è la creazione di servizi territoriali in grado di lasciare le persone malate e disabili nelle loro case, con il sostegno di un’adeguata assistenza: al momento – spiega – la risposta più frequente ai nostri bisogni è la Residenza sanitaria assistenziale, che certo non favorisce l’inclusione”.

“Il passaggio dall’associazionismo alla politica è abbastanza naturale – ci spiega Carla Castagna – perchè è naturale, dopo tanti anni d’impegno al fianco degli enti locali, voler essere presenti laddove si prendono le decisioni. Abbiamo il compito di portare nella politica, e in particolare nella politica per la disabilità, quell’ottica di genere che ancora manca: perché non si possono far parti uguali tra diseguali”.

da www.superabile.it

A Torino nascono le “guide migranti”


Al via a Torino il primo corso di formazione per “guide migranti”, cittadini di origine straniera che condurranno i turisti a conoscere le proprie comunità di origine nei quartieri più multietnici della città.  20 i partecipanti da Marocco, Senegal, Perù, Romania, Albania, Cina, ma anche italiani provenienti dalla Sicilia e dalla Calabria

«I migranti sono attori chiave nello sviluppo del turismo responsabile  a partire dalla loro capacità di essere ponte tra due territori e due culture» spiega Enrico Marletto, dell’agenzia Viaggi Solidali, che per prima promuove “le passeggiate migrande a Torino” e che organizza il percorso formativo per guide migranti. Uno o più giorni alla scoperta dei luoghi più caratteristici del “meticciato” torinese.

Talvolta per fare il giro del mondo non occorrono ottanta giorni, ma solo qualche ora. E’ questa la grande opportunità che fornisce il grande mercato torinese di Porta Palazzo, dove i contadini delle campagne e delle valli piemontesi, vendono fianco a fianco con i coltivatori cinesi, le donne marocchine con le borse ricolme di pane e mssemen appena sfornato, i macellai e formaggiai romeni che affettano parizer e caçkaval, e i pescatori siciliani che urlano pesce, pesce fresco bella ragazza, in un intreccio unico di sapori e profumi. O San Salvario, il quartiere più multietnico della città che sperimenta una positiva forma di integrazione tra le seconde generazioni di immigrati e con la nascita di numerose associazioni culturali.

Le nuove guide migranti saranno, in qualche modo, dei “mediatori culturali” del turismo, affiancando le guide tradizionali alla città e introducendo i viaggiatori alla cultura, la gastronomia e le tradizioni delle proprie comunità di origine.  Il percorso prevede una serie di incontri teorici con esperti per approfondire le tematiche del turismo responsabile ed alcune uscite sul territorio alla ricerca delle tracce della propria cultura. Un programma variegato di attività che vanno dalla ricerca di prodotti alimentari nel mercato al lavoro di censimento dei luoghi di aggregazione culturale e religiosa della città.   

Nella parte relativa alla formazione dei viaggiatori, il percorso “guide migranti” è sostenuto anche da Fondazioni4Africa: i migranti senegalesi, fra cui alcuni dell’Associazione Culturale Trait d’Union, saranno formati per gestire gli incontri con i viaggiatori che partiranno per il Senegal: a giugno ci sarà il primo test di questi incontri. 

Fondazioni4Africa è un’iniziativa che vede impegnate per la prima volta  insieme quattro tra le principali  fondazioni italiane di origine bancaria: Compagnia di San Paolo, Fondazione Cariparma, Fondazione Cariplo e Fondazione Monte dei Paschi di Siena.  Il progetto Fondazioni4Africa prevede due interventi, nel Nord Uganda e nel Senegal, finanziati con le risorse messe a disposizione dalle quattro Fondazioni, alle quali ha già deciso di unirsi anche la Fondazione Umano Progresso per un impegno complessivo di 11,1 milioni di euro per i primi 3 anni.

da www.vita.it

 

Nata da genitori ebrei in campo sterminio in Calabria, torna dopo 66 anni


Quando varca i cancelli del campo Ferramonti di Tarsia è come se i suoi occhi iniziassero a guardare un vecchio film in bianco e nero. Le tragedie della , i campi di sterminio nazisti e gli orrori della Seconda guerra mondiale. All’interno di questo grande film c’è un pezzo della vita di Dina Friedman Semadar, nata 66 anni fa nel campo d’internamento calabrese, è tornata martedì 26 gennaio per la prima volta nella struttura.

Dina Friedman Semadar è figlia di Ditta Friedman, originaria di Berlino, e di Free Noeman. Il padre fu internato nel campo di Ferramonti dopo il naufragio al largo delle coste italiane della nave sulla quale era imbarcato. Era il 1942  Ditta Friedman e Free Noeman si conobbero nel campo d’internamento e dopo due anni diedero alla luce Dina. Alla fine della guerra la famiglia lasciò l’Italia per tornare in Israele.

Oggi Dina, commossa tanto da non riuscire a parlare, entrata nel campo di Ferramonti, gira  tra le baracche cercando di trovare qualche foto dei suoi genitori. Quello di Ferramonti di Tarsia, a una ventina di chilometri da Cosenza, è stato il più grande campo di internamento fascista in Italia. «Entrare a Ferramonti – ha detto – è stato come ritornare indietro nel tempo. E’ così forte l’emozione che sento come un nodo alla gola. Ho vissuto in questo campo da neonata e quindi non ho ricordi di quanto avveniva in questa struttura ma i colori che vedo e gli odori che sento ora mi ricordano i miei genitori ed i loro racconti dei momenti vissuti durante la guerra».

Dina, che è una pittrice, vive in una città a venti chilometri da Tel Aviv. «I miei genitori sono morti – ha aggiunto – ma custodisco ancora gelosamente i ricordi di mia madre che mi raccontava del periodo vissuto qui nel campo di Ferramonti. Mi raccontava delle atrocità della guerra ma allo stesso tempo aveva anche parole positive per tanti italiani che avevano aiutato lei e mio padre. Qui nel campo sto cercando trovare qualche traccia che mi possa aiutare a ricordarli durante la loro permanenza a Ferramonti».

Nel campo di Ferramonti nel periodo tra il 1940 ed il 1943 vi passarono circa 3.000 ebrei di nazionalità straniera. Da due anni una parte del campo è diventato un luogo del ricordo. Nella struttura, infatti, è stato realizzato un Museo Internazionale della Memoria dove sono raccolte oltre 100 fotografie che ricordano la vita di tutti i giorni e le attività del campo, pagine di giornali, testi e romanzi scritti da internati e una pagella scolastica di una bambina ebrea espulsa da una scuola italiana dell’epoca.

Stamani nel campo di Ferramonti sono state inaugurate tre baracche recentemente ristrutturate dal Comune di Tarsia che entreranno a far parte del Museo Internazionale della Memoria. Alla manifestazione ha partecipato il presidente della Fondazione Museo della Memoria Ferramonti di Tarsia, Francesco Panebianco, accompagnato da una delegazione della comunità ebraica.

da www.blitzquotidiano.it

i Modena City Ramblers e Francesco Guccini cantano “Auschwitz”

http://www.youtube.com/watch?v=Wrg8bLaDs04

Genova: morto Vincenzo Curia, cronista da Guinness dei primati


Se esistesse il Guinness del , un primato che consacrasse il cronista che ha lavorato di più e che è arrivato al record di anni  di servizio, lui lo avrebbe vinto di sicuro. E per distacco. E’ morto a , dopo una breve malattia, , cronista giudiziario nella redazione genovese di .

I prossimi sarebbero stati 89 anni, ma “Unghia” non ci è arrivato per un soffio. E’ morto sicuramente perché si è accorto che  non avrebbe più potuto andare a caccia di notizie come aveva fatto ininterrottamente per 66 anni, tutti i giorni, dalla mattina alla sera, pochissime ferie escluse. “Unghia”, al secolo , era un giornalista calabro-genovese, premiato dal presidente Napolitano nel 2008 per la sua eccezionale carriera di cronista.

E’ morto senza sapere del suo straordinario primato di longevità,  forse, solo nascondendosi il fatto che nessuno in un giornale aveva mai lavorato quanto lui. Alla redazione genovese di   aveva un computer un po’ particolare, più semplice di quello dei colleghi, l’unica differenza preferenziale, concessa alla sua veneranda età.

Ma le altre differenze erano tutte a suo vantaggio. Il primo a andare a lavorare, a caccia di notizie appunto, il primo a chiudere l’ultimo pezzo, il cronista che in qualsiasi statistica mondiale ne ha portate al giornale più di ogni altro. Sessantasei anni senza tregua, con la stessa forza e la stessa passione e la vita intera dentro a un lavoro rispetto al quale non aveva nessun cedimento iconografico, ma solo un’austerità quasi rigida. Avrebbe potuto essere uno dei protagonisti del celebre film “Front page” (“” nella versione italiana), con Jack Lemmon primo attore, ma non aveva alcun vezzo messo in vetrina dagli interpreti di quella stupenda pellicola, ambientata nella sala stampa di un palazzo di Giustizia.

Curia macinava notizie e la parte del giornalista non l’ha mai recitata. Semplicemente lo era e non aveva bisogno di mostrarlo.

Era un figlio del Sud, Calabria profonda, diventato un genovese perfetto dopo avere combattuto la guerra d’Africa, essere sbarcato nel 1943 a ed avere incominciato a fare, prima il fattorino, poi il cronista nello storico “” di . Il giornale che Pertini avrebbe diretto per venti anni tra il 1948 e il 1968 e che Granzotto aveva normalizzato nella sua breve parentesi fascista: l’ultimo quotidiano ad arrendersi al Duce e al suo Minculpop.

Curia di direttori ne ha visti decine, tutti dopo la Liberazione. Lui era già là. Paolo Vittorelli, Giuliano Zincone, , Ugo Intini,  Ferruccio Borio, Franco Recanatesi, Umberto Bassi. Passavano, lo conoscevano, lui regalava torrenti di notizie, loro se ne andavano, lui restava sempre lì.

Era piccolo e elegantissimo sempre, mai una cravatta allentata, mai senza il vestito appropriato, d’estate e d’inverno con il caldo asfissiante e in certe giornate di gelo, con il suo blocco degli appunti in mano e occhi piccoli e attenti che ti perforavano. Era lo stile Curia. Si era specializzato nella cronaca nera, ma poi era diventato il re di Palazzo di Giustizia (“Il Palazzaccio”, diceva lui, con un mix di amore e di aggressività cronistica). Per cinquanta anni con il suo passo breve ma deciso entrava a un’ora impensabile per qualsiasi giornalista, largamente  primo, nel palazzo dei processi, delle inchieste degli scandali e si metteva a scavare, appunto, con la sua Unghia.

Nel frattempo il , i giornali sono cambiati mille volte, dal piombo, all’offset, ai primi computer. Sono cambiati tanto anche i giornalisti, che ai tempi dell’esordio di Curia erano come lupi affamati fuori dai giornali a caccia di notizie e poi piano piano sono diventati prevalentemente impiegati attaccati alla sedia, poi al computer, fatte le doverose eccezioni.

Curia è rimasto sempre lo stesso. La professione per lui era consumare veramente le sue scarpe e la sua unghia. Continuava a salire le scale del Palazzaccio a bussare ogni giorno a centinaia di porte, a fare domande a sedersi nelle aule dei processi, mentre intorno tutto cambiava, non solo la società, ma anche i processi, il diritto penale. Rovesciava sul tavolo dei suoi capi un fiume di notizie. «E’ cambiata la procedura? – ironizzava se lo stuzzicavi chiedendogli come facesse a capire tutte quelle rivoluzioni – Storie! c’è sempre un’accusa e una difesa. O no?».

Il suo ritmo non è cambiato mai: a sessanta, a settanta, a ottanta anni, quando gli altri pensavano alla pensione, al resto della vita o a ruoli più comodi, “Unghia” era ancora lì a scavare. E guai se qualche direttore o caporedattore gli proponeva qualcosa di diverso. Sarebbe morto in un giorno a fare dell’altro.

E’ una storia senza precedenti la sua, che ha bruciato ogni regola umana, fisiologica e perfino sindacale. Ma che ci faceva quell’ottuagenario in redazione e tutto il giorno a caccia di news? Gli istituti previdenziali, le federazioni della Stampa, i capi azienda tremavano, ma poi alla fine anche il sindacato si era arreso già qualche decennio fa. Via libera. Curia aveva una tessera professionale per l’eternità.

Generazioni di avvocati, di giudici, di uscieri, di uomini della Polizia giudiziaria sono stati per decenni la sua altra famiglia, che quella vera se la dimenticava un po’. L’unico rimpianto confessato, ma poche volte e con quella faccia da duro che non può rinunciare. Aveva rapporti di confidenza estrema con di altissimo rango che non avrebbero salutato neppure con un cenno qualsiasi altro giornalista o che alla stampa non regalavano un briciolo di notizia.

A lui raccontavano tutto e di più, come se si confessassero in chiesa. Un magistrato come Nicola , primo presidente della Corte di Cassazione, che lui aveva conosciuto quando era il giovane Pm del caso , il famoso biondino della spider rossa, faceva fare anticamera a chiunque se don era con lui. E gli avvocati non cominciavano l’arringa se Curia non era appostato con il suo taccuino in aula. Sapevano che Unghia avrebbe lasciato il segno.

Confidenti? Fonti segrete? Informatori speciali? Curia usava un altro termine per far capire che aveva soffiate importanti, notizie esplosive che bollivano. «Ho una cosca che mi deve regalare qualcosa…», ti soffiava sottovoce, prendendo il cappotto e uscendo dalla redazione a caccia dell’ultimo colpo. Aveva nel sangue la nobiltà della notizia, anche la più piccola. Ogni notizia, doverosamente trattata, aveva il suo valore, il suo peso e non c’era affronto maggiore che non capirla. Aveva anche capito che non tutti avevano quella nobiltà di comprensione  e accettava anche il giudizio diverso, ma ti faceva capire il suo dissenso e insisteva. «Guarda che questo omicidio non è un banale regolamento di conti. Dietro c’è…» . Non si arrendeva avrebbe insistito a lungo, magari per giorni, fino a quando il pezzo non usciva.

Curia aveva un fiuto inesauribile e tali e tante fonti che era diventato una specie di monumento dentro alle aule di giustizia. Chi non gli avrebbe dato una notizia? Lui sapeva tutto e non tradiva mai,  la fonte o la cosca segreta, perché sapeva quando era il momento giusto per pubblicare e riusciva a stare nell’equilibrio giusto tra la sua fonte e le impellenze del giornale. Tanto le notizie, quelle vere, vincono sempre.

da www.blitzquotidiano.it

Gli Spartacus neri di Rosarno


Cosa ci fanno più di diecimila immigrati irregolari nelle campagne calabresi? E’ ovvio, portano benessere a chi li sfrutta. Per farlo vivono in condizioni igieniche da porcile, sono pagati poco e in nero, non hanno nessun tipo di assistenza. La risposta cieca pronta e assoluta del solito coglione terzomondista è sempre la stessa: “Sono qui da noi perché fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare!“. Tutto il contrario, pagate gli italiani il giusto e ci sarebbe la fila di calabresi disoccupati per prendere il loro posto.
Gli immigrati lavorano in condizioni disumane che gli italiani non possono più tollerare, per questo sono qui. E allora, ancora, chi ci guadagna? I nuovi latifondisti, la criminalità in cerca di mano d’opera a basso costo, chi affitta dei tuguri a peso d’oro? Questa è solo la prima fascia, quella più visibile. Gli immigrati sono un bacino elettorale, portano voti sia a destra che a sinistra. Sono uno strumento di distrazione di massa usato dai partiti. La Lega e il Pdl vivono dell’uomo nero, del babau. Il Pdmenoelle e dintorni del buonismo a spese delle fasce più deboli della popolazione che vivono a diretto contatto con gli emigrati e si disputano le risorse. Voti a destra, voti a sinistra. In uno Stato dove migliaia di irregolari sfilano esasperati in una cittadina, Rosarno, e la mettono a ferro e a fuoco è evidente che lo Stato non c’è più. Africani contro calabresi, in mezzo il nulla di chi non si è mai fatto carico dei flussi migratori, dell’accoglienza, dell’integrazione.
Voglio l’immigrato a chilometro zero o l’immigrato integrato. Non abbiamo bisogno di nuovi schiavi, ne abbiamo a sufficienza di autoctoni. E così, una rivolta di Spartacus neri, diventa SOLO un problema di ordine pubblico, di controllo del territorio. Maroni, dico a lei anche in rappresentanza dei ministri degli Interni precedenti: “Dove erano, dove sono, le Forze dell’Ordine in Calabria, le stesse che riescono a sequestrare con occhiuta precisione un cartello 30 x 50 cm contro Schifani a un cittadino, ieri a Reggio Emilia?“.
Gli africani irregolari sono sempre stati lì, splendenti nel sole dei campi del Sud e a marcire nelle topaie. E dov’erano, dove sono le varie istituzioni che fracassanno i coglioni all’ultima bancarella del mercato per l’igiene, lo scontrino, la licenza, la tassa di occupazione, dove sono? E soprattutto perché le paghiamo se vedono sempre e solo il fuscello e non la trave? L’Italia è un piccolo Paese, con poche risorse e un tasso di disoccupazione da far paura. Dobbiamo avere il coraggio di dirci che gli immigrati sono in prevalenza forza lavoro sfruttata, merce per imprenditori senza scrupoli e per politici e giornalisti con la erre moscia che cianciano di pozzi avvelenati. Una risorsa preziosa per i politici che li lasciano al loro destino. E’ in corso una guerra, che qualche volta esplode, tra poveri: immigrati e cittadini italiani, entrambi presi per i fondelli. Lo Stato si è fermato a Rosarno

da www.beppegrillo.it

A Rosarno i bianchi contro i neri, la prima guerra etnica d’Italia


A prima in Italia E’ la prima rivolta etnica in Italia, non sarà l’ultima. E’ scoppiata ovviamente nel luogo più “illegale” d’Italia, ma cova e fermenta in molti altri luoghi della penisola. Ecco il film della “Rivolta di ”, un film dove la parte dei “buoni” non la recita nessuno, è assente dal copione e dalla sceneggiatura.

 Prima scena: migliaia di “neri” vengono fatti lavorare nelle campagne. Venti euro al giorno, di cui cinque vanno agli . “Orario” di lavoro: dall’alba al tramonto. Di giorno i “neri” sono bestie da lavoro sopportati, di notte devono sparire. Rintanarsi in alloggi fatiscenti che le stesse autorità definiscono “gironi danteschi”. Gli agricoltori della zona dicono che lavoratori regolari non ne possono pagare e che quindi l’unico lavoro possibile è quello nero per i neri. Dicono che c’è “la crisi dell’agricoltura”. E’ una teorizzazione, forse inconsapevole ma di certo esplicita, del lavoro schiavile.

 Seconda scena: con i “neri” ci si guadagnano soldi. In qualunque attività dove si guadagnano soldi è controllata o “osservata” dalla criminalità organizzata. I “neri” sono sotto la doppia pressione dei “padroni” e dei boss. Sopportano gli uni e gli altri. Si aggiunge un endemico, spontaneo, quotidiano e “naturale”. Se e quando i “neri” escono dal circuito campo-tana, la gente del posto li evita e talvolta si diverte a ricordare loro che sono umanità di serie inferiore. Fino a che un giorno qualcuno prende un fucile ad aria compressa e spara al “nero”. Mica per ucciderlo, ma per tenerlo al “suo posto”.

 Terza scena: i “neri” si ribellano. Con rabbia violenta: sfasciano, minacciano, invadono. Quel che succede nelle banlieu parigine, quel che succedeva nei ghetti delle metropoli americane, quel che pensavamo, chissà perchè, da noi in Italia non potesse mai succedere. I “neri” fanno male e fanno paura. Commettono reati ma soprattutto “occupano” la terra, le strade, lo spazio dei bianchi.

 Quarta scena: i bianchi reagiscono, centinaia di giovani calabresi, parole loro, danno “la caccia all’africano per difendere le nostre case”. Negozi e scuole chiuse. Qualcuno spara stavolta non a salve. La polizia cerca a fatica di impedire lo scontro di piazza tra neri e bianchi.

 Quinta scena: il governo capisce cosa sta succedendo. Affida l’emergenza ad una “task force” che comprende uomini del Viminale, del ministero del Welfare , della Regione . Perchè, parole ufficiali, l’emergenza è insieme di “ordine pubblico, lavoro neo e assistenza sanitaria”. Capisce, ma lavora, come dice il commissario prefettizio , in una “situazione grave e pesante”. Quanto grave e pesante? Il corteo dei “neri” va sotto la sede del Comune, ma il Comune non c’è, è sciolto per infiltrazioni mafiose. Le ronde di autodifesa dei bianchi accerchiano il corteo dei neri, gridano: “Andatevene in Africa”. E un grido che ha più o meno lo stesso suono viene da Roma, dal ministro degli Interni che oggi si ricorda di essere prima leghista e poi ministro, per lui questi clandestini sono “troppo tollerati”. La polizia, che è insieme quella di ma anche della legge e dell’ordine pubblico, se si azzarda a fermare i bianchi violenti rischia insieme la sollevazione della gente e il biasimo del ministro. Se attacca i “neri” rischia la tragedia. Sta quindi più o meno ferma, in mezzo.

 La “Rivolta di ”, un film dove sono tutti cattivi e incattiviti: i “neri”, i bianchi, la gente, gli agricoltori ci dice quel che in fondo avremmo dovuto già sapere. Quel che è sempre accaduto, sempre e ovunque. Puoi usare ed estendere il lavoro nero fino a farne sistema, puoi far diventare il lavoro nero delle altre etnie, dei clandestini, lavoro e condizione schiavile. Lo puoi fare, nessuno ti ferma davvero e puoi perfino invocare le leggi dell’economia a sostegno di quello che fai. Puoi decretare per legge che i clandestini non devono esistere e che quindi, siccome ci sono e lavorano per te italiano, al calar del sole devono sparire nelle tane. Puoi, come si comincia a fare al Nord, ispezionare le loro case a caccia di documenti scaduti. Puoi comunicare loro per via di legge, di stampa e di tg, che non sono graditi. Puoi, d’accordo con il sentire popolare, additarli come fonte di guai e di contagio.

 Puoi fare tutto questo, per farlo ce ne sono in Italia sia le condizioni materiali che le leggi di Stato che il consenso d’opinione. Però non puoi farlo gratis. Ovunque nel mondo hai fatto o fai questo il prezzo è la rivolta. Rivolta bestiale di quelli che hai trattato come bestie

 da www.blitzquotidiano.it

Suicida prima della scarcerazione, si erano dimenticati di avvisarlo


Era stato formalmente scarcerato, ma nessuno glielo aveva comunicato, e nelle sue ultime ore di prigionia un detenuto di 41 anni si è tolto la vita. E’ accaduto martedì nel carcere di Palmi, in provincia di Reggio Calabria. Ora i suoi parenti suicida chiedono chiarezza e giustizia. “Perché quel provvedimento di scarcerazione non è gli stato notificato?”, si domanda la famiglia che ha sporto denuncia.

L’uomo, originario di Bari, era stato condannato a Rimini nell’agosto 2008 per il furto di uno zaino in spiaggia. Gli erano stati inflitti 4 anni e 5 mesi di pena per una serie di aggravanti fra cui la recidiva specifica, la dichiarazione di delinquente abituale e il fatto che si trovasse in Romagna in violazione delle misure di sorveglianza alle quali era sottoposto. Andati a vuoto i tentativi di ottenere gli arresti domiciliari in una comunità di recupero, il barese era disperato e si è tolto la vita in cella con il fornellino del gas. Ma il provvedimento di scarcerazione era già arrivato da più di 24 ore negli uffici del penitenziario.

fonte tgcom