Dal carcere di Spoleto una riflessione di Sebastiano Milazzo (ricevuta, copiata e pubblicata


 Miriam Mafai su un articolo su Repubblica del 15 giugno si chiede scandalizzata se era necessario portare l’imputato Fabio De Santis ammanettato in tribunale visto che non è mafioso. Come a dire che un imputato di essere mafioso, non condannato ma solo imputato, può essere massacrato quando si vuole, come si vuole, quanto si vuole, mentre un galantuomo come De Santis no. La signora Mafai con la sua indignazione tradisce un razzismo sociale molto diffuso con un pensiero che non differisce dal pensiero dell’on. Buonanno della Lega Nord che si augura il suicidio di tutti i mafiosi. Cambia la forma ma la sostanza è la stessa. Questa è l’incultura di questo paese, l’incultura di chi pretende una GIUSTIZIA a due piani, una per i galantuomini per definizione che si fanno regalare le cose in tutto o in parte e per quelli che si fanno portare le escort per soddisfare le proprie voglie. E un’altra GIUSTIZIA per i soliti utili idioti usati come icone del male assoluto per deviare l’attenzione dagli scambi di favori che si fanno gli uomini del sistema, di destra e di sinistra, e i loro sodali che non pagano mai per le loro colpe. A differenza degli Stati Uniti dove non c’è il reato di associazione mafiosa ma leggi che inducono i tribunali a giudicare in base ad elementi oggettivi: il banchiere che ha truffato miliardi di dollari in cinque mesi è stato giudicato e condannato con la stessa severità riservata all’ultimo reietto della società a 150 anni di carcere. De Santis e i suoi sodali faranno al massimo tre mesi di carcerazione preventiva  il loro processo verrà prescritto.

Questa incultura ha portato all’ERGASTOLO OSTATIVO.

L’incultura che individua preventivamente “le categorie” da rinchiudere in carcere privandole del diritto di avere diritti non per quello che in realtà sono ma per come sono fatti apparire e per quello che servono al potere.

Diceva Giuseppe Prezzolini: “Di una cosa sono certo: gli Italiani mi sembrano negati per la democrazia; islandesi, svizzeri, inglese, americani sono nati democratici, noi autoritari e faziosi. Forse non sono stato fascista perché ero troppo poco italiano

Genova: morto Vincenzo Curia, cronista da Guinness dei primati


Se esistesse il Guinness del , un primato che consacrasse il cronista che ha lavorato di più e che è arrivato al record di anni  di servizio, lui lo avrebbe vinto di sicuro. E per distacco. E’ morto a , dopo una breve malattia, , cronista giudiziario nella redazione genovese di .

I prossimi sarebbero stati 89 anni, ma “Unghia” non ci è arrivato per un soffio. E’ morto sicuramente perché si è accorto che  non avrebbe più potuto andare a caccia di notizie come aveva fatto ininterrottamente per 66 anni, tutti i giorni, dalla mattina alla sera, pochissime ferie escluse. “Unghia”, al secolo , era un giornalista calabro-genovese, premiato dal presidente Napolitano nel 2008 per la sua eccezionale carriera di cronista.

E’ morto senza sapere del suo straordinario primato di longevità,  forse, solo nascondendosi il fatto che nessuno in un giornale aveva mai lavorato quanto lui. Alla redazione genovese di   aveva un computer un po’ particolare, più semplice di quello dei colleghi, l’unica differenza preferenziale, concessa alla sua veneranda età.

Ma le altre differenze erano tutte a suo vantaggio. Il primo a andare a lavorare, a caccia di notizie appunto, il primo a chiudere l’ultimo pezzo, il cronista che in qualsiasi statistica mondiale ne ha portate al giornale più di ogni altro. Sessantasei anni senza tregua, con la stessa forza e la stessa passione e la vita intera dentro a un lavoro rispetto al quale non aveva nessun cedimento iconografico, ma solo un’austerità quasi rigida. Avrebbe potuto essere uno dei protagonisti del celebre film “Front page” (“” nella versione italiana), con Jack Lemmon primo attore, ma non aveva alcun vezzo messo in vetrina dagli interpreti di quella stupenda pellicola, ambientata nella sala stampa di un palazzo di Giustizia.

Curia macinava notizie e la parte del giornalista non l’ha mai recitata. Semplicemente lo era e non aveva bisogno di mostrarlo.

Era un figlio del Sud, Calabria profonda, diventato un genovese perfetto dopo avere combattuto la guerra d’Africa, essere sbarcato nel 1943 a ed avere incominciato a fare, prima il fattorino, poi il cronista nello storico “” di . Il giornale che Pertini avrebbe diretto per venti anni tra il 1948 e il 1968 e che Granzotto aveva normalizzato nella sua breve parentesi fascista: l’ultimo quotidiano ad arrendersi al Duce e al suo Minculpop.

Curia di direttori ne ha visti decine, tutti dopo la Liberazione. Lui era già là. Paolo Vittorelli, Giuliano Zincone, , Ugo Intini,  Ferruccio Borio, Franco Recanatesi, Umberto Bassi. Passavano, lo conoscevano, lui regalava torrenti di notizie, loro se ne andavano, lui restava sempre lì.

Era piccolo e elegantissimo sempre, mai una cravatta allentata, mai senza il vestito appropriato, d’estate e d’inverno con il caldo asfissiante e in certe giornate di gelo, con il suo blocco degli appunti in mano e occhi piccoli e attenti che ti perforavano. Era lo stile Curia. Si era specializzato nella cronaca nera, ma poi era diventato il re di Palazzo di Giustizia (“Il Palazzaccio”, diceva lui, con un mix di amore e di aggressività cronistica). Per cinquanta anni con il suo passo breve ma deciso entrava a un’ora impensabile per qualsiasi giornalista, largamente  primo, nel palazzo dei processi, delle inchieste degli scandali e si metteva a scavare, appunto, con la sua Unghia.

Nel frattempo il , i giornali sono cambiati mille volte, dal piombo, all’offset, ai primi computer. Sono cambiati tanto anche i giornalisti, che ai tempi dell’esordio di Curia erano come lupi affamati fuori dai giornali a caccia di notizie e poi piano piano sono diventati prevalentemente impiegati attaccati alla sedia, poi al computer, fatte le doverose eccezioni.

Curia è rimasto sempre lo stesso. La professione per lui era consumare veramente le sue scarpe e la sua unghia. Continuava a salire le scale del Palazzaccio a bussare ogni giorno a centinaia di porte, a fare domande a sedersi nelle aule dei processi, mentre intorno tutto cambiava, non solo la società, ma anche i processi, il diritto penale. Rovesciava sul tavolo dei suoi capi un fiume di notizie. «E’ cambiata la procedura? – ironizzava se lo stuzzicavi chiedendogli come facesse a capire tutte quelle rivoluzioni – Storie! c’è sempre un’accusa e una difesa. O no?».

Il suo ritmo non è cambiato mai: a sessanta, a settanta, a ottanta anni, quando gli altri pensavano alla pensione, al resto della vita o a ruoli più comodi, “Unghia” era ancora lì a scavare. E guai se qualche direttore o caporedattore gli proponeva qualcosa di diverso. Sarebbe morto in un giorno a fare dell’altro.

E’ una storia senza precedenti la sua, che ha bruciato ogni regola umana, fisiologica e perfino sindacale. Ma che ci faceva quell’ottuagenario in redazione e tutto il giorno a caccia di news? Gli istituti previdenziali, le federazioni della Stampa, i capi azienda tremavano, ma poi alla fine anche il sindacato si era arreso già qualche decennio fa. Via libera. Curia aveva una tessera professionale per l’eternità.

Generazioni di avvocati, di giudici, di uscieri, di uomini della Polizia giudiziaria sono stati per decenni la sua altra famiglia, che quella vera se la dimenticava un po’. L’unico rimpianto confessato, ma poche volte e con quella faccia da duro che non può rinunciare. Aveva rapporti di confidenza estrema con di altissimo rango che non avrebbero salutato neppure con un cenno qualsiasi altro giornalista o che alla stampa non regalavano un briciolo di notizia.

A lui raccontavano tutto e di più, come se si confessassero in chiesa. Un magistrato come Nicola , primo presidente della Corte di Cassazione, che lui aveva conosciuto quando era il giovane Pm del caso , il famoso biondino della spider rossa, faceva fare anticamera a chiunque se don era con lui. E gli avvocati non cominciavano l’arringa se Curia non era appostato con il suo taccuino in aula. Sapevano che Unghia avrebbe lasciato il segno.

Confidenti? Fonti segrete? Informatori speciali? Curia usava un altro termine per far capire che aveva soffiate importanti, notizie esplosive che bollivano. «Ho una cosca che mi deve regalare qualcosa…», ti soffiava sottovoce, prendendo il cappotto e uscendo dalla redazione a caccia dell’ultimo colpo. Aveva nel sangue la nobiltà della notizia, anche la più piccola. Ogni notizia, doverosamente trattata, aveva il suo valore, il suo peso e non c’era affronto maggiore che non capirla. Aveva anche capito che non tutti avevano quella nobiltà di comprensione  e accettava anche il giudizio diverso, ma ti faceva capire il suo dissenso e insisteva. «Guarda che questo omicidio non è un banale regolamento di conti. Dietro c’è…» . Non si arrendeva avrebbe insistito a lungo, magari per giorni, fino a quando il pezzo non usciva.

Curia aveva un fiuto inesauribile e tali e tante fonti che era diventato una specie di monumento dentro alle aule di giustizia. Chi non gli avrebbe dato una notizia? Lui sapeva tutto e non tradiva mai,  la fonte o la cosca segreta, perché sapeva quando era il momento giusto per pubblicare e riusciva a stare nell’equilibrio giusto tra la sua fonte e le impellenze del giornale. Tanto le notizie, quelle vere, vincono sempre.

da www.blitzquotidiano.it

Quel ragazzo senza braccia sul treno dell’indifferenza


Quel ragazzo senza braccia sul treno dell'indifferenza

CARO direttore, è domenica 27 dicembre. Eurostar Bari-Roma. Intorno a me famiglie soddisfatte e stanche dopo i festeggiamenti natalizi, studenti di ritorno alle proprie università, lavoratori un po’ tristi di dover abbandonare le proprie città per riprendere il lavoro al nord. Insieme a loro un ragazzo senza braccia.

Sì, senza braccia, con due moncherini fatti di tre dita che spuntano dalle spalle. È salito sul treno con le sue forze. Posa la borsa a tracolla per terra con enorme sforzo del collo e la spinge con i piedi sotto al sedile. Crolla sulla poltrona. Dietro agli spessi occhiali da miope tutta la sua sofferenza fisica e psichica per un gesto così semplice per gli altri: salire sul treno. Profondi respiri per calmare i battiti del cuore. Avrà massimo trent’anni.

Si parte. Poco prima della stazione di (…) passa il controllore. Una ragazza di venticinque anni truccata con molta cura e una divisa inappuntabile. Raggiunto il ragazzo senza braccia gli chiede il biglietto. Questi, articolando le parole con grande difficoltà, riesce a mormorare una frase sconnessa: “No biglietto, no fatto in tempo, handicap, handicap”. Con la bocca (il collo si piega innaturalmente, le vene si gonfiano, il volto gli diventa paonazzo) tira fuori dal taschino un mazzetto di soldi. Sono la cifra esatta per fare il biglietto. Il controllore li conta e con tono burocratico dice al ragazzo che non bastano perché fare il biglietto in treno costa, in questo caso, cinquanta euro di più. Il ragazzo farfugliando le dice di non avere altri soldi, di non poter pagare nessun sovrapprezzo, e con la voce incrinata dal pianto per l’umiliazione ripete “Handicap, handicap”.

I passeggeri del vagone, me compreso, seguono la scena trattenendo il respiro, molti con lo sguardo piantato a terra, senza nemmeno il coraggio di guardare. A questo punto, la ragazza diventa più dura e si rivolge al ragazzo con un tono sprezzante, come se si trattasse di un criminale; negli occhi ha uno sguardo accusatorio che sbatte in faccia a quel povero disgraziato. Per difendersi il giovane cerca di scrivere qualcosa per comunicare ciò che non riesce a dire; con la bocca prende la penna dal taschino e cerca di scrivere sul tavolino qualcosa. La ragazza gli prende la penna e lo rimprovera severamente dicendogli che non si scrive sui tavolini del treno. Nel vagone è calato un silenzio gelato. Vorrei intervenire, eppure sono bloccato.

La ragazza decide di risolvere la questione in altro modo e in ossequio alla procedura appresa al corso per controllori provetti si dirige a passi decisi in cerca del capotreno. Con la sua uscita di scena i viaggiatori riprendono a respirare, e tutti speriamo che la storia finisca lì: una riprovevole parentesi, una vergogna senza coda, che il controllore lasci perdere e si dedichi a controllare i biglietti al resto del treno. Invece no.
Tornano in due. Questa volta però, prima che raggiungano il giovane disabile, dal mio posto blocco controllore e capotreno e sottovoce faccio presente che data la situazione particolare forse è il caso di affrontare la cosa con un po’ più di compassione.

Al che la ragazza, apparentemente punta nel vivo, con aria acida mi spiega che sta compiendo il suo dovere, che ci sono delle regole da far rispettare, che la responsabilità è sua e io non c’entro niente. Il capotreno interviene e mi chiede qual è il mio problema. Gli riepilogo la situazione. Ascoltata la mia “deposizione”, il capotreno, anche lui sulla trentina, stabilisce che se il giovane non aveva fatto in tempo a fare il biglietto la colpa era sua e che comunque in stazione ci sono le macchinette self service. Sì, avete capito bene: a suo parere la soluzione giusta sarebbe stata la macchinetta self service. “Ma non ha braccia! Come faceva a usare la macchinetta self service?” chiedo al capotreno che con la sua logica burocratica mi risponde: “C’è l’assistenza”. “Certo, sempre pieno di assistenti delle Ferrovie dello Stato accanto alle macchinette self service” ribatto io, e aggiungo che le regole sono valide solo quando fa comodo perché durante l’andata l’Eurostar con prenotazione obbligatoria era pieno zeppo di gente in piedi senza biglietto e il controllore non è nemmeno passato a controllare il biglietti. “E lo sa perché?” ho concluso. “Perché quelle persone le braccia ce l’avevano…”.

Nel frattempo tutti i passeggeri che seguono l’evolversi della vicenda restano muti. Il capotreno procede oltre e raggiunto il ragazzo ripercorre tutta la procedura, con pari indifferenza, pari imperturbabilità. Con una differenza, probabilmente frutto del suo ruolo di capotreno: la sua decisione sarà esecutiva. Il ragazzo deve scendere dal treno, farsi un biglietto per il successivo treno diretto a Roma e salire su quello. Ma il giovane, saputa questa cosa, con lo sguardo disorientato, sudato per la paura, inizia a scuotere la testa e tutto il corpo nel tentativo disperato di spiegarsi; spiegazione espressa con la solita esplicita, evidente parola: handicap.

La risposta del capotreno è pronta: “Voi (voi chi?) pensate che siamo razzisti, ma noi qui non discriminiamo nessuno, noi facciamo soltanto il nostro lavoro, anzi, siamo il contrario del razzismo!”. E detto questo, su consiglio della ragazza controllore, si procede alla fase B: la polizia ferroviaria. Siamo arrivati alla stazione di (…). Sul treno salgono due agenti. Due signori tranquilli di mezza età. Nessuna aggressività nell’espressione del viso o nell’incedere. Devono essere abituati a casi di passeggeri senza biglietto che non vogliono pagare. Si dirigono verso il giovane disabile e come lo vedono uno di loro alza le mani al cielo e ad alta voce esclama: “Ah, questi, con questi non ci puoi fare nulla altrimenti succede un casino! Questi hanno sempre ragione, questi non li puoi toccare”. Dopodiché si consultano con il capotreno e la ragazza controllore e viene deciso che il ragazzo scenderà dal treno, un terzo controllore prenderà i soldi del disabile e gli farà il biglietto per il treno successivo, però senza posto assicurato: si dovrà sedere nel vagone ristorante.

Il giovane disabile, totalmente in balia degli eventi, ormai non tenta più di parlare, ma probabilmente capisce che gli sarà consentito proseguire il viaggio nel vagone ristorante e allora sollevato, con l’impeto di chi è scampato a un pericolo, di chi vede svanire la minaccia, si piega in avanti e bacia la mano del capotreno.

Epilogo della storia. Fatto scendere il disabile dal treno, prima che la polizia abbandoni il vagone, la ragazza controllore chiede ai poliziotti di annotarsi le mie generalità. Meravigliato, le chiedo per quale motivo. “Perché mi hai offesa”. “Ti ho forse detto parolacce? Ti ho impedito di fare il tuo lavoro?” le domando sempre più incredulo. Risposta: “Mi hai detto che sono maleducata”. Mi alzo e prendo la patente. Mentre un poliziotto si annota i miei dati su un foglio chiedo alla ragazza di dirmi il suo nome per sapere con chi ho avuto il piacere di interloquire. Lei, dopo un attimo di disorientamento, con tono soddisfatto, mi risponde che non è tenuta a dare i propri dati e mi dice che se voglio posso annotarmi il numero del treno.

Allora chiedo un riferimento ai poliziotti e anche loro si rifiutano e mi consigliano di segnarmi semplicemente: Polizia ferroviaria di (…). Avrei naturalmente voluto dire molte cose, ma la signora seduta accanto a me mi sussurra di non dire niente, e io decido di seguire il consiglio rimettendomi a sedere. Poliziotti e controllori abbandonano il vagone e il treno riparte. Le parole della mia vicina di posto sono state le uniche parole di solidarietà che ho sentito in tutta questa brutta storia. Per il resto, sono rimasti tutti fermi, in silenzio, a osservare.

di Shulim Vogelmann
L’autore è scrittore ed editore
 
da repubblica.it

Biblioteche: porte aperte agli stranieri di Chiara Righetti


bibliotecheDai gialli di Agatha Christie in romeno a Pippi Calzelunghe in polacco, dal Bhagavadgita con testo sanscrito a fronte a Giufà, che ha fatto sognare nella stessa lingua generazioni di siciliani, arabi e turchi. Ma anche mostre, corsi, dibattiti: le biblioteche di Roma e provincia aprono agli stranieri. Dice Gabriella Sanna, responsabile Servizio Intercultura delle biblioteche romane: «Oggi gli immigrati sono l´8% dei nostri utenti, e dei nuovi iscritti: un´incidenza superiore a quella degli stranieri sulla popolazione di Roma». Da qui la decisione di avviare la campagna “Benvenuti in biblioteca”. Che passa prima di tutto dal potenziamento degli scaffali in lingua, ormai presenti in quasi tutti i municipi. Qualche esempio? Se chi cerca testi in farsi deve rivolgersi al Caffè letterario sull´Ostiense, ci sono libri in cinese a San Lorenzo e al Pigneto. Mentre si trovano volumi in ucraino, spagnolo, albanese a Flaminio, Torre Spaccata, Trieste.

«Da un lato – dice Sanna – vogliamo valorizzare il plurilinguismo. Dall´altro vediamo la biblioteca come spazio laico, alternativo a chiesa e moschea, che può diventare luogo d´integrazione». Da qui i corsi d´italiano, anche questi presenti in vari municipi, dalla Borghesiana a Ostia al Prenestino, e anche questi calati nel territorio: se a Marconi, dove è forte la presenza egiziana, ce n´è uno per sole donne, quello al Pigneto è dedicato ai cinesi. Altri ingredienti della campagna di benvenuto sono ormai storici, come il portale Romamultietnica.it, che oltre alle news settimanali offre una guida della città in base alle nazionalità presenti a Roma; o “Storie del mondo”, progetto per le scuole che propone la lettura di classici da India, Africa, Sudamerica come punto di partenza per l´incontro fra culture.

In provincia invece s´intitola “Biblioteche dal mondo” il progetto per l´apertura di uno scaffale multiculturale in otto Comuni a forte presenza straniera. Il primo apre il 20 novembre a Ladispoli; poi Anzio, Bracciano, Fiumicino, Lanuvio, Mazzano Romano, Tivoli e Zagarolo. Ogni scaffale ospiterà circa 200 volumi, dai classici dei Paesi d´origine a manuali bilingue, riviste e giornali. Non solo: le Biblioteche del mondo proporranno una serie d´iniziative sull´intercultura. Con “Le nuove generazioni si raccontano” G2, rete di giovani di seconda generazione, farà tappa nei Comuni coinvolgendo i coetanei in laboratori di scrittura e di sceneggiatura. Un secondo progetto si intitola “Così vicine così lontane: tate, colf e badanti”; prevede una mostra, ma anche un´indagine sui consumi culturali delle colf, cineforum e circoli di lettura. «La nostra popolazione è cambiata – osserva Cecilia D´Elia, assessore alle Politiche culturali della Provincia – e anche le nostre politiche devono farlo. La sfida è far sì che le biblioteche diventino un luogo in cui i migranti, oltre che utenti, possano essere sempre più protagonisti».