Colpo di stato


Da questa notte l’Italia non è più, ufficialmente, una democrazia. Napolitano ha firmato il decreto della legge interpretativa del Governo che rende alcuni italiani più uguali degli altri. Le leggi d’ora in poi saranno interpretate, ogni volta che converrà a loro, da questi golpisti da barzelletta e, alla bisogna, interverrà un presidente della Repubblica che dovrebbe essere messo sotto impeachment per alto tradimento. Napolitano ha firmato di notte, di fretta, mentre gli italiani dormivano (forse per una volta si vergognava anche lui). Le liste elettorali senza firme, con firme non autenticate, liste neppure presentate, le liste porcata sono state interpretate, riverginate. Formigoni e Polverini sono stati riammessi. Una qualunque lista dell’opposizione con il più piccolo vizio di forma sarebbe stata respinta. Siamo in dittatura. Sembra strana questa parola detta all’inizio di una nuova primavera: “dittatura“. La magistratura è fuori gioco. Il Parlamento è fuori gioco. Le leggi, anzi i decreti legge del Governo, sottratti alla discussione parlamentare, sono la norma. La firma di Morfeo Napolitano è sempre scontata. E ora, persino l’interpretazione delle leggi è soggetta a Berlusconi, è compito del Governo. Io Berlusconi, io La Russa, io Cicchitto, io Maroni, io Gasparri, io Napolitano… io sono io e voi, cari italiani, miei sudditi, non siete un cazzo. Io emano le leggi, le interpreto e regno. I ragazzi del MoVimento 5 Stelle hanno raccolto firme per la strada, valide, autenticate per mesi durante questo gelido inverno. Senza un soldo di finanziamento, tutto di tasca loro. E sono stati ammessi in Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Campania. Formigoni e la Polverini se venissero eletti, non avrebbero nessuna legittimità e i primi a saperlo sono proprio loro. Nessuna legge regionale in Lombardia e nel Lazio sarà ritenuta valida dai cittadini. Il lombardo e il laziale a questo punto avranno il diritto sacrosanto di interpretare le leggi come cazzo gli pare. Da oggi inizia una nuova Resistenza, l’Italia non è proprietà privata di questi scalzacani. Questa legge porcata in un certo senso è un bene. Ora è chiaro che il Paese si divide in golpisti e democratici. Noi e loro. La Grecia è vicina e forse ci darà una mano. Tloc, tloc, tloc. Girano le pale. Tloc, tloc, tloc. Si scaldano gli elicotteri.
Loro non si arrenderanno mai (ma gli conviene?). Noi neppure.

da www.beppegrillo.it

Quando i bambini diventano deputati e scrivono le loro leggi


Ora i bambini possono entrare in aula, sedere al banco in emiciclo e proporre le leggi pensate per i cittadini dopo aver ascoltato le loro esigenze. È quanto accade on line, sul sito bambini.camera.it realizzato dal Parlamento Italiano, quello vero, per andare incontro ai più piccoli e attraverso il gioco, la fantasia e la curiosità, spiegare loro come funziona il nostro Paese. Un vocabolario speciale, il Parlawiki, spiega dalla A di Assemblea alla V di Voto, tutto il funzionamento del parlamento, del percorso che fanno le leggi, del sistema di voto e delle cariche istituzionali. Un vocabolario gradito anche agli adulti che vogliono tornare all’essenza della politica dentro Montecitorio per ritrovare il piacere di ripassare un po’ di educazione civica insieme ai loro bambini, ma perché no, anche da soli.

da www.intrage.it

Sofferenze utili, inutili e nocive


“Nessun essere umano sulla terra è al riparo dalla sofferenza.
Occorre soltanto sapere che ci sono sofferenze utili, benefiche,
e altre inutili e persino nocive. Le sofferenze inutili sono
quelle che ci si crea da sé trasgredendo le leggi dell’onestà,
della giustizia, della bontà, della saggezza, dell’amore, e non
meritano compassione.
Le sofferenze utili sono quelle dell’uomo che ama gli altri e
vuole sinceramente aiutarli: egli è obbligato a strappare ogni
giorno qualche cosa dal suo cuore, a spogliarsi del suo egoismo,
dei suoi pregiudizi. Per aiutare gli altri, non basta infatti
presentarsi con buone intenzioni e buoni sentimenti:
interiormente c’è tutto un lavoro di aggiustamento da fare.
Questo lavoro richiede dei sacrifici; è difficile, doloroso, ma
quanto è benefico!”

Omraam Mikhaël Aïvanhov

A Rosarno i bianchi contro i neri, la prima guerra etnica d’Italia


A prima in Italia E’ la prima rivolta etnica in Italia, non sarà l’ultima. E’ scoppiata ovviamente nel luogo più “illegale” d’Italia, ma cova e fermenta in molti altri luoghi della penisola. Ecco il film della “Rivolta di ”, un film dove la parte dei “buoni” non la recita nessuno, è assente dal copione e dalla sceneggiatura.

 Prima scena: migliaia di “neri” vengono fatti lavorare nelle campagne. Venti euro al giorno, di cui cinque vanno agli . “Orario” di lavoro: dall’alba al tramonto. Di giorno i “neri” sono bestie da lavoro sopportati, di notte devono sparire. Rintanarsi in alloggi fatiscenti che le stesse autorità definiscono “gironi danteschi”. Gli agricoltori della zona dicono che lavoratori regolari non ne possono pagare e che quindi l’unico lavoro possibile è quello nero per i neri. Dicono che c’è “la crisi dell’agricoltura”. E’ una teorizzazione, forse inconsapevole ma di certo esplicita, del lavoro schiavile.

 Seconda scena: con i “neri” ci si guadagnano soldi. In qualunque attività dove si guadagnano soldi è controllata o “osservata” dalla criminalità organizzata. I “neri” sono sotto la doppia pressione dei “padroni” e dei boss. Sopportano gli uni e gli altri. Si aggiunge un endemico, spontaneo, quotidiano e “naturale”. Se e quando i “neri” escono dal circuito campo-tana, la gente del posto li evita e talvolta si diverte a ricordare loro che sono umanità di serie inferiore. Fino a che un giorno qualcuno prende un fucile ad aria compressa e spara al “nero”. Mica per ucciderlo, ma per tenerlo al “suo posto”.

 Terza scena: i “neri” si ribellano. Con rabbia violenta: sfasciano, minacciano, invadono. Quel che succede nelle banlieu parigine, quel che succedeva nei ghetti delle metropoli americane, quel che pensavamo, chissà perchè, da noi in Italia non potesse mai succedere. I “neri” fanno male e fanno paura. Commettono reati ma soprattutto “occupano” la terra, le strade, lo spazio dei bianchi.

 Quarta scena: i bianchi reagiscono, centinaia di giovani calabresi, parole loro, danno “la caccia all’africano per difendere le nostre case”. Negozi e scuole chiuse. Qualcuno spara stavolta non a salve. La polizia cerca a fatica di impedire lo scontro di piazza tra neri e bianchi.

 Quinta scena: il governo capisce cosa sta succedendo. Affida l’emergenza ad una “task force” che comprende uomini del Viminale, del ministero del Welfare , della Regione . Perchè, parole ufficiali, l’emergenza è insieme di “ordine pubblico, lavoro neo e assistenza sanitaria”. Capisce, ma lavora, come dice il commissario prefettizio , in una “situazione grave e pesante”. Quanto grave e pesante? Il corteo dei “neri” va sotto la sede del Comune, ma il Comune non c’è, è sciolto per infiltrazioni mafiose. Le ronde di autodifesa dei bianchi accerchiano il corteo dei neri, gridano: “Andatevene in Africa”. E un grido che ha più o meno lo stesso suono viene da Roma, dal ministro degli Interni che oggi si ricorda di essere prima leghista e poi ministro, per lui questi clandestini sono “troppo tollerati”. La polizia, che è insieme quella di ma anche della legge e dell’ordine pubblico, se si azzarda a fermare i bianchi violenti rischia insieme la sollevazione della gente e il biasimo del ministro. Se attacca i “neri” rischia la tragedia. Sta quindi più o meno ferma, in mezzo.

 La “Rivolta di ”, un film dove sono tutti cattivi e incattiviti: i “neri”, i bianchi, la gente, gli agricoltori ci dice quel che in fondo avremmo dovuto già sapere. Quel che è sempre accaduto, sempre e ovunque. Puoi usare ed estendere il lavoro nero fino a farne sistema, puoi far diventare il lavoro nero delle altre etnie, dei clandestini, lavoro e condizione schiavile. Lo puoi fare, nessuno ti ferma davvero e puoi perfino invocare le leggi dell’economia a sostegno di quello che fai. Puoi decretare per legge che i clandestini non devono esistere e che quindi, siccome ci sono e lavorano per te italiano, al calar del sole devono sparire nelle tane. Puoi, come si comincia a fare al Nord, ispezionare le loro case a caccia di documenti scaduti. Puoi comunicare loro per via di legge, di stampa e di tg, che non sono graditi. Puoi, d’accordo con il sentire popolare, additarli come fonte di guai e di contagio.

 Puoi fare tutto questo, per farlo ce ne sono in Italia sia le condizioni materiali che le leggi di Stato che il consenso d’opinione. Però non puoi farlo gratis. Ovunque nel mondo hai fatto o fai questo il prezzo è la rivolta. Rivolta bestiale di quelli che hai trattato come bestie

 da www.blitzquotidiano.it

La saggezza e l’amore


“Sui sentieri della vita abbiamo due guide: la saggezza e l’amore.
Dobbiamo imparare a lavorare secondo le leggi della saggezza e i
metodi dell’amore.
La saggezza e l’amore possono essere paragonati alle lancette di
un orologio: la saggezza è la lancetta piccola che indica le ore,
e l’amore la grande che segna i minuti. Grazie alla saggezza noi
scegliamo un orientamento, un programma da realizzare, valido
per l’eternità. Per realizzarlo, però, dobbiamo adottare i
metodi dell’amore, vale a dire vivere ogni minuto con gioia ed
entusiasmo, senza mai perdere il nostro slancio. È così che
conciliamo il programma della giornata con quello dell’eternità.
La saggezza mostra in quale direzione camminare, e il cuore
sostiene il movimento.”

Omraam Mikhaël Aïvanhov

Progetto “Il lavoro in carcere”


di Francesco dal carcere di Augusta

Oggi vorrei parlare di una questione estremamente delicata del pianeta carcere: il lavoro in carcere.

Il lavoro appartiene semplicemente all’essere dell’uomo in quanto significa, in genere, un essere attivo nel mondo. Una delle condizioni più penose e meno comprensibili della vita in carcere è indubbiamente l’ozio: uno stato di noia mortale.

Il lavoro è occasione per evidenziare e testimoniare le proprie capacità e la valenza del proprio status: un’esperienza umana insostituibile che contribuisce alla crescita personale, favorisce il raggiungimento di equilibri personali, familiari e sociali.

Il lavoro diventa “perno centrale” nella vita e può condizionare mutamenti, decisioni, soluzioni esistenziali anche determinanti. La complessa problematica connessa con il lavoro penitenziario suppone un quadro di riferimento che include considerazioni sociologiche, giuridiche ed economiche. Nell’ambito della stratificazione sociale, la categoria dei detenuti è inserita, nella corrente sociologica, tra le categorie marginali o emarginate, i cosiddetti “luoghi poveri”.

L’attenzione verso le categorie marginali come i detenuti, a parte le lentezze abituali, non si è sempre espressa in un piano di interventi organicamente e moderatamente  collocato, ma le profonde trasformazioni della società contemporanea hanno esercitato un determinante influsso anche sulla realtà carceraria. Per cui a una notevole incidenza culturale politica non si è sottratta neppure la “questione lavoro” che ha vivamente segnato la conoscenza degli stessi detenuti ai quali occorre oggigiorno assicurare non belle parole e nobili intenzioni bensì concrete opportunità di una scelta diversa a quella criminale e quindi “qualificazione professionale” e “attività produttive”. A ciò aggiungasi che gli orientamenti comuni degli studiosi, coerentemente col dettato della Costituzione che postula la finalità rieducativa e perciò riabilitativa e risocializzante della pena, concordano nell’affermare che il lavoro costituisce uno strumento fondamentale di redenzione e riadattamento alla vita sociale. Esso acquista valenza liberatoria, è realtà unificante rispetto alla separatezza della detenzione, rompe le attuali divisioni tra carcere e società. Le carceri, un tempo separate dalla società civile per necessità, tradizione e cultura, si sono aperte in questi ultimi decenni al mondo esterno, al territorio facendo emergere una nuova visione della pena indicata come “cultura del dialogo”, capace di garantire, a quanti concretamente lo vogliono, un reinserimento, aiutando chi ha sbagliato.

Occorre quindi consolidare l’impegno attorno all’uomo in detenzione incrementando un umanesimo solidaristico capace di sfatare luoghi comuni. In sostanza si tratta di tradurre in termini di concretezza operativa il campo della solidarietà. In questo senso il lavoro intramurario non assume il significato di premio, non rappresenta una concessione, tanto meno una semplice terapia. Esso può configurarsi come “diritto”, come “diritto-dovere” la cui assenza risulta senz’altro “desocializzante”. E’ auspicabile, perciò, una più determinante e incisiva attuazione di piena solidarietà attorno all’uomo in detenzione che veda un coinvolgimento delle componenti politico-produttive sindacali e del volontariato in quanto si ritiene possano essere feconde premesse e sostegno delle iniziative fattibili nell’immediato. E’ la politica dei piccoli passi che condiziona e determina le grandi riforme spesso internazionali.

In conclusione sia consentito affermare che siffatta metodologia, se attuata e che già ha avuto sperimento pratico in varie regioni, consentirebbe, una volta emanati i decreti attuativi della legge 193/2000 “legge Smuraglia”, forme diverse di organizzazione del lavoro e quindi nuove e concrete possibilità occupazionali a quanti vivono nelle carceri. Quindi il lavoro quale strumento privilegiato per il recupero sociale. Esso, infatti, riveste un ruolo di primaria importanza nel processo di risocializzazione per un soggetto in esecuzione penale perché consente alla persona detenuta di intraprendere un cammino di “responsabilizzazione” e di conformità alle regole giuridico-sociali nonché di soddisfare esigenze personalistiche  di gratificazione emotiva e professionale. L’appagamento professionale, inteso quale effettiva possibilità per il detenuto di contribuire al sostegno economico del proprio nucleo familiare, favorisce il recupero dei valori di solidarietà e responsabilità e innalza la spinta motivazionale per la prosecuzione del percorso intrapreso prevenendo il rischio di nuove condotte criminose.

Il reinserimento sociale e lavorativo della persona detenuta in Sicilia è processo problematico date le oggettive difficoltà economiche e sociali del contesto territoriale siciliano. Il percorso riabilitativo e di reinserimento lavorativo, che si presenta già comunque con difficoltà nella maggior parte del territorio nazionale, risulta difatti assai più disagevole in Sicilia dove si aggiungono aspetti da sempre discriminatori per i soggetti che hanno pagato il loro debito con la giustizia i quali hanno già alle spalle, nella maggioranza dei casi, un vissuto di disagio e crescente marginalità senza protezioni sociali. In tale situazione estremamente problematica l’inserimento lavorativo per la persona con pregiudizi penali assume un valore ancora più forte poiché è solo attraverso l’attività lavorativa che la persona può concretamente cambiare lo stile di vita finalizzato alla “non reiterazione dei reati”.

Qui ad Augusta, casa di reclusione e, in particolare, per i detenuti del circuito “alta sorveglianza”, detenuti quindi con ergastolo e pene altissime, in atto il posto assegnato a ognuno che è chiamato a svolgere il “lavoro” non può essere modificato e perciò non possono svilupparsi ambizioni né in bene né in male oltre quella offerta dall’amministrazione: spazzino o spesino.

A ciò aggiungasi che in questi anni di vita della Casa di Reclusione di Augusta non è stato assunto, da chi istituzionalmente preposto, un comportamento coerente con quanto contenuto nella normativa . Infatti nulla si è fatto per reperire le risorse necessarie al fine di predisporre adeguarti piani di riconversione e riqualificazione delle esistenti manifatture penitenziarie né è stata prevista dall’amministrazione, nel suo budget, alcuna voce di spesa per formare almeno quei quadri che avrebbero dovuto assicurare le condizioni minime indispensabili per sviluppare il lavoro qui ad Augusta. C’è bisogno di una sinergia di tutti gli enti, pubblici e privati. C’è bisogno di una progettualità regionale del provveditorato finalizzata al rilancio e al rinnovamento dell’amministrazione penitenziaria avendo, tra le priorità, proprio quella di una progettazione di interventi tesa a incentivare le opportunità di lavoro sia all’interno degli istituti che all’esterno e capace, soprattutto, di creare continuità tra “dentro” e “fuori” per costruire così concrete occasioni di recupero sociale. Una nuova politica penitenziaria regionale che agisca contestualmente su più fronti per incrementare i posti di lavoro disponibili per i detenuti sia all’interno che all’esterno degli istituti penitenziari ponendo particolare attenzione all’instaurazione e al consolidamento di una stabile rete di rapporti e intese con gli enti istituzionali territoriali (regioni, province, comuni) e con le associazioni e il terzo settore per la qualificazione del lavoro penitenziario e la creazione di nuove opportunità d’impiego per i detenuti. E’ necessario, quindi, sperare per la definizione di un protocollo d’intesa con l’unione regionale delle camere di commercio e le associazioni di categoria regionali. La creazione di una rete stabile di rapporti e collaborazioni tra i diversi attori istituzionali e dell’imprenditoria darà impulso alle attività produttive che si concretizzeranno all’interno dell’istituto con obiettivi e finalità posti dal progetto “Lavoro in carcere”. Inoltre sarà fondamentale far acquisire ai detenuti una preparazione professionale adeguata alle condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale. L’amministrazione penitenziaria dovrà avere la capacità di progettare e predisporre una serie di esperienze formative e professionali realmente utili che devono essere in grado di far acquisire ai detenuti un bagaglio di conoscenze e di abilità tecniche spendibili nell’avviamento di un’attività autonoma oppure nell’offerta di manodopera sul libero mercato. E’ ovvio, pertanto, che il lavoro intramurario, nel suo complesso, appare in grado di raggiungere soltanto una parte degli obiettivi per i quali esso è previsto rimanendo relegata in secondo piano quella che dovrebbe essere la finalità di gran lunga assorbente: il reinserimento attraverso la qualificazione professionale.

In particolare tutte le parti chiamate in causa devono concordare sull’opportunità di ricercare e attuare misure volte al sostegno e al reinserimento sociale e lavorativo di detenuti, ex detenuti e sottoposti a esecuzione penale esterna affinché vengano applicati i benefici previsti dalla legislazione nazionale e regionale. Si impegnano a valorizzare le lavorazioni interne agli istituti penitenziari, a promuovere intese operative, anche a livello locale, per incentivare le ipotesi previste dalla vigente normativa per la gestione, da parte di terzi, delle lavorazioni penitenziarie come pure per favorire progetti di cooperative sociali, formate anche da detenuti, internati, ex detenuti o ex internati che abbiano lo scopo di creare posti di lavoro interni ed esterni agli istituti penitenziari  e che offrano garanzia di fattibilità e di continuità basate anche su commesse pubbliche.

E ancora, concordare sull’opportunità di promuovere congiuntamente, attività finalizzate alla produzione di beni e servizi per il mercato realizzati all’interno e all’esterno degli istituti di pena in base alle effettive possibilità occupazionali esistenti sul territorio nel confronto con gli organismi competenti a livello regionale. In tale ambito le parti si dovranno impegnare a promuovere e stimolare commesse di lavoro per i detenuti da parte di enti pubblici, cooperative sociali e imprese.

La presente idea non rappresenta, ed è ben chiaro per chi ha esperienza in merito, la “soluzione” della complessa tematica affrontata sia perché il sistema economico nazionale è in continua evoluzione sia perché, in ultima istanza, appare necessario il riscontro in un costante impegno politico e amministrativo a livello nazionale, regionale e locale, ma sicuramente tutte queste azioni eliminerebbero l’incertezza della posizione dei detenuti e attenuerebbero quella tensione palpabile oggigiorno nelle carceri.

Per quanto detto finora, amico/a lettore, concludo con un monito pr la direzione di questo carcere rivolgendo l’invito che se è vero che il nostro paese attribuisce al lavoro dei detenuti un alto valore per il loro riscatto sociale deve dimostrare, nelle sedi proprie, un comportamento coerente con quanto contenuto nelle stesse leggi. Deve cioè saper reperire le risorse necessarie per rendere economico questo tipo di lavoro. All’amministrazione penitenziaria spetterà il non facile compito e di formulare un piano di intervento realistico programmato nel tempo, e di mobilitare le forze capaci di indirizzarlo e sostenerlo e nell’affiancare la difficile azione del Ministero della Giustizia finalizzata al raggiungimento degli obiettivi complessi e delicati indicati dal legislatore.

La stessa Corte Costituzionale ha avuto modo di esprimersi sul lavoro carcerario evidenziando che “Ben lungi dall’essere in contrasto con la morale esigenza di tutela e rispetto della persona esso (il lavoro) è gloria umana, precetto per molti, dovere e diritto sociale per tutti”.

L’impegno ultimo di   questo progetto è mirato a creare le condizioni idonee per la realizzazione di una nuova mentalità e cultura nella prospettiva di un nuovo rapporto tra il cittadino e la società che ha origine nel riconoscimento del diritto morale e sociale dei detenuti di essere sostenuti e reinseriti nella società allontanando lo spettro della stigmatizzazione etichettante.

Il lavoro diventa quindi una sfida sia per la società che per il detenuto. In tal senso si è ipotizzato di vedere il lavoro come metodica di relazione del soggetto detenuto con la società. Un nuovo strumento di “co-municare”, di mettere insieme qualcosa, di condividere le regole della vita quotidiana per un identico fine. Un linguaggio comune è uno strumento molto forte di partecipazione e confronto. La responsabilità della società nei confronti dei soggetti detenuti è di tipo etico e l’obiettivo è un bene socialmente condivisibile. L’etica diventa uno strumento di comunicazione fra la società, il mondo del lavoro, le regole del lavoro e il soggetto detenuto che, non dimentichiamo, è parte integrante della società stessa.

A tal proposito Hegel diceva: “Il lavoro è il modo fondamentale con cui l’uomo produce la sua vita dando inoltre una forma al mondo”. Io aggiungerei :”diventando la fonte di ogni valentia terrena, di ogni virtù e di ogni gioia”.

Vi lascio riflettere…

vostro Francesco

Legge 104: Brunetta attacca ancora i disabili di Gabriella Meroni


legge 104«Metà di chi ricorre alla legge sui permessi nel settore pubblico si fa i cavoli propri»

 

La metà dei dipendenti pubblici che utilizzano la legge 104, che sono circa il 9% con punte fino al 16%, «abusa di questa legge». A denunciarlo è il ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta che, oggi in una conferenza stampa, ha reso noto i risultati di un monitoraggio sull’uso della norma che consente ai lavoratori pubblici e privati di usufruire di tre giorni al mese di permesso retribuito per chi ha un grave handicap oppure presta assistenza a parenti o affini in simili condizioni, fino al 3° grado di parentela.

«Il 30% dei dipendenti pubblici, in base a stime prudenziali, ma il 50% secondo le mie stime che sono più forzate, abusano della legge 104», ha affermato Brunetta. Il monitoraggio, effettuato dal Formez, su un campione rappresentativo di circa la metà dei dipendenti del pubblico impiego, oltre 1.700.000, in relazione a 9.400 amministrazioni ha evidenziato che nel 2008 sono state 2.439.985 le giornate di permesso fruite e il settore in cui maggiormente si concentrano i permessi è la scuola. Se la media nel pubblico è dell’uso della legge 104 è 9% con punte del 16% in alcune regioni e del 18% in Umbria, la media nel settore privato è dell’1,5%. A questo propiosto il ministro ha sottolineato: «Nel privato l’uso della legge è sottodimensionato rispetto alle richieste, probabilmente per la riluttanza dei datori di alvoro a concedderlo, ma nel pubblico è sovradimensionato rispetto ai bisogni, se ne fa un uso opportunistico», ha precisato.

Brunetta ha quindi affermato che, laddove ci sono abusi, «se eliminassimo tutti i comportamenti opportunistici, libereremmo centinaia di di millioni di euro, da 100 a 300 per l’assistenza a chi ne ha veramente bisogno con buona pace dei fannulloni». «Voglio fare chiarezza sugli usi e gli abusi della 104 non per risparmiare – ha precisato – ma per chi ne ha veramente bisogno, anche in altri modi, magari con i trasferimenti diretti alle famiglie e con l’uso di badanti». Il monitoraggio, ha poi detto il ministro, che «rappresenta la prima analisi dettagliata per tipologia e per amministrazioni», è stato consegnato alle commissioni competenti di Camera e Senato e potrà contribuire alla discussione parlamentare per le modifiche al ddl 1167. «Una legge benemerita, importante, che consente a persone con gravi handicap di essere assistite dai congiunti, ma che troppo spesso si è prestata a una serie di abusi, un atteggiamento insopportabile» ha aggiunto Brunetta. «Noi vogliamo colpire gli approfittatori che si nascondono dietro la legge 104 per fare i cavoli propri».

da www.vita.it