“Sono e sarò per sempre vivo…” di Claudio Crastus


Il silenzio, in queste ore notturne, è meraviglioso, ti scava nell’anima senza tregua…Sono consapevole di essere uno dei pochi fortunati: ho la capacità di trascrivere ciò che mi detta il cuore, il dolore, la gioia di svegliarmi in un nuovo giorno che comunque mi trasmetterà qualcosa. Anche il solo fatto di essere sveglio, mentre tutti dormono, mi carica di una volontà fortissima. Scrivo ciò che all’istante provo, sento, di cui soffro o gioisco.

Ed ecco il vento che, in questo deserto, assume la veste di consigliere o comunque scuote l’uomo che dorme, lo sconfitto a lottare senza tregua.

Non me ne andrei da qua nemmeno se i cancelli fossero tutti aperti, ormai ho capito che essere liberi non significa esclusivamente avere la facoltà di muoversi a proprio piacimento. Se riflettessimo solo un attimo, capiremmo che tutto il mondo “civilizzato” è comunque prigioniero di una condizione. Nessuno, se non un selvaggio, può essere libero anche nell’animo. Ed è nell’animo che io sono ritornato selvaggio, libero dalla schiavitù degli schemi, scrivendo la mia sconfitta, la mia agonia e di conseguenza della mia rinascita in un mondo nuovo che è quello che mi costruisco secondo i miei desideri e le mie aspettative. Se comunque ho preso coscienza che essere liberi significa esserlo dentro di sé, questo non può bastare, ora voglio rinascere. Ed è così che rinasco: con la voglia prepotente di gridare al mondo che sono e sarò per sempre vivo, anche quando non sarò più fisicamente presente, anche quando questi uomini piccoli piccoli, che si accontentano delle loro piccole cose materiali o immediate, non ci saranno più. Non posso accettare come mia questa condizione da murato vivo, non permetterò a nessuno di farmi scomparire nel silenzio di queste mura insensibili. Lotterò fino all’ultimo mio sogno.

Mi chiedo se le mie figlie leggeranno mai ciò che scrivo nel mio esilio, col cuore colmo di rammarico per non averle potute amare come desideravo. Se mai accadesse, voglio che loro sappiano che il loro papà decide di rinascere nei suoi scritti proprio perché vuole lasciare qualcosa di speciale per loro. Qualcosa che vada oltre le banalità della vita quotidiana, che rimanga come scolpito nei cuori, il ricordo dell’immenso amore murato che avrei tanto voluto dar loro, ma che appunto non mi fu concesso per aver commesso un tempo errori irreparabili.

“Grida di dolore” – sempre dal diario, ancora inedito di Claudio Crastus


Se già da prima avevo l’intenzione d’interrompere qualsiasi terapia e di non sottopormi alle analisi, dopo questa legge medioevale il mio rapporto con l’infermeria è giunto a termine. Trovo vergognosa quest’agonia in cui, nostro malgrado, saremo costretti a “vivere”. Che cosa c’entriamo noi con chi è uscito e ha commesso un nuovo reato? Quante volte dovrò pagare? Quando si finirà di lapidarmi? Come si sentiranno quando morirà il primo malato tra queste mura, quando morirà il primo innocente?

Oggi è morta l’umanità, la giustizia, non c’è più proporzione tra reato e castigo. Ha forse senso la condanna a morte? Io non posso accettare di morire in questi recinti, non posso e non voglio sfiorire in cortili squallidi dove la vita è gettata con arroganza e le speranze vengono falciate con crudeltà.

Stanotte ho sognato l’inferno: era identico alla mia realtà. Lui, il demonio, ci ha messi in fila per tre e a drappelli ci destinava al patibolo. Due esseri orrendi mi hanno portato alla ghigliottina e mi hanno invitato ad appoggiare la testa sotto la lama. Pochi minuti, un ultimo sguardo al mio cuore ferito, poi più nulla: era scesa la lama.

Ho aperto gli occhi, e mi sono ritrovato nella mia cella, le lenzuola inzuppate di sudore, il cuore impazzito, sballottato da un incubo a un altro, tra il buio e il silenzio di un’interminabile notte.

Dal primo capitolo del diario, ancora inedito (speriamo per poco), di Claudio Crastu


Vi prego di dedicare un secondo della vostra attenzione a queste parole atrocemente dolorose del diario di questa persona che ha vissuto molti anni della sua vita da detenuto e che è morto molto giovane un anno fa lasciando molte raccolte poetiche e tanto altro materiale su cui riflettere…

…Ho atteso un’infinità di tempo prima di capire che è necessario che io, comunque, continui a vivere in questi fogli, perché la mia vita non resti un fiore appassito prima di dischiudersi.

Voglio gridare a tutti che vivrò i miei giorni senza nascondermi perché, sebbene io stia morendo aggredito da un male feroce, non posso fermarmi, non mi è concesso stare passivamente ad osservare i miei giorni svanire, senza aggredire a mia volta quella creatura orrenda che mi corrode dentro, spietata e senza controllo.

Desidero lasciare qualcosa che vada oltre lo stesso esistere, allo scopo che chiunque non mi abbia conosciuto sappia che sono esistito e che, nonostante tutto quello che ho commesso, sono un ragazzo di trent’anni che ha passato gli anni più belli a torturarsi, a ferirsi, ad ammalarsi, con una sporca mercanzia, in strade colme di gente indifferente, che si accorgeva di me solo quando gli rubavo qualcosa

“Io non morirò” di Claudio Crastus


Io non morirò

Gemendo parole

Mai pronunciate

Perché di fuoco

È

Intriso il mio cuore

Io non morirò

Senza risposte

Al mio cercare

Perché di stelle

Brilla

Il mio cuore

Io non morirò

Abbattuto

Dalle menzogne

Perché di verità

È vestito

Il mio cuore.

“Figlio del vento” di Claudio Crastus


tratta dalla raccolta “Attendere il sole”


Io sono figlio del vento.
Fui generato
Nell’insenatura
Della roccia secolare
Da un seme sconosciuto
Bagnato dalle onde del mare
In tempesta.
Io sono figlio del vento.
Fui scaraventato
Nel mondo,
Percosso dal sole,
Morso dalla luna e
Scacciato dall’umanità.

Io sono figlio del vento.
Travolsi esili steli,
Strappai delicate corolle
Sparpagliai innumerevoli petali
Sulla devastazione
Del mio passaggio.

Io sono figlio del vento.
Urlo il mio delirio
Nei labirinti ove mi hanno imprigionato,
Ove mi dibatto e rido solo,
Quando mi insinuo nei giardini in fiore
Devastandoli senza pietà.

Io sono figlio del vento.
Giaccio stanco e senza cuore
Nel silenzio eterno delle grotte,
Privo del coraggio di amare
Mi contorco su me stesso all’infinito
Fin quando esausto stramazzo al suolo.

Io sono figlio del vento.
Esco piano e sfioro il mondo
Osservando le sconfinate pianure
Con occhi spauriti e melanconici,
Poi con paura mi ritraggo
In solitudine struggente.

Io sono figlio del vento
Il mio destino è quello
di infrangermi sugli scogli,
Tra le onde furiose dei mari.
Il mio destino sarà sempre
Suicidarmi nei ricordi,
Infrangermi negli angoli del mondo
Ove mi dibatto privo d’amore

La metamorfosi, fiaba di Claudio Crastus


In un bosco fitto di vegetazione, in un paese sradicato dal mondo, tra le incavature e le radici degli alberi secolari, viveva il popolo delle formichine azzurre. Erano bellissime, potevano essere più di sette milioni ed erano una per una e tutte per tutte: praticamente tutte insieme erano invincibili.

La loro vita si svolgeva da sempre con ritmi e percorsi identici: erano abitudinarie e gran lavoratrici.

Passavano gran parte del loro tempo a riempire le immense dispense di viveri per assicurarsi la sopravvivenza nell’inverno freddo e crudele che sarebbe giunto da lì a poco.

All’interno di un’immensa quercia vi era il loro quartier generale, una città meravigliosa ricavata da una sorta di scala a chiocciola scavata e lavorata nel legno. Ad ogni gradino vi era l’abitazione di una famigliola; tra un gradino e l’altro, invece, vi erano le campanelline d’allarme, così che in caso di emergenza chiunque era in grado di avvisare le altre dell’imminente pericolo. Ogni mattina verso le 6.00 si incamminavano verso un torrente per rifornirsi d’acqua potabile; tutte insieme “armate” di secchielli e pale (quest’ultime per scavare il terreno alla ricerca di cibo) cantavano in coro le belle canzoni imparate da bimbi.

Tra queste formichine vi era un gruppo di giovani che non aveva tanta voglia di alzarsi presto e di lavorare, ma che comunque con gli occhi appena socchiusi seguiva in fila i più laboriosi. Spesso borbottavano tra loro che la vita delle formichine era grama e faticosa e che vi erano poche feste e divertimenti.

All’udire queste lamentele gli altri si giravano e, canzonandoli, li facevano passare avanti tra loro, in modo da incoraggiarli ad affrontare la giornata che li attendeva.

Un giorno, mentre erano intenti a lavorare, giunse un violento acquazzone che le sommerse d’acqua e fango; le immense gocce cadevano sulle loro testoline come grandi macigni, e di lì a poco buona parte di esse annegò nelle pozzanghere. I sopravvissuti erano riusciti ad aggrapparsi a dei rami: galleggiavano sull’acqua e osservavano i corpicini dei compagni esanimi e li piangevano.

Mentre erano in balia della corrente, disperati, ecco giungere una ranocchia, la quale sopra una grande foglia osservava la desolazione delle formichine. Appena si accorsero della sua presenza, tutte insieme gridarono: “Aiuto! Aiuto! Ranocchia bella, per favore, portaci sulla terraferma, altrimenti annegheremo”.

Udendo la loro supplica, la rana si commosse e aiutò le formichine scampate al diluvio.

“Tenetevi forte, si vola!” gridò tutta felice, mentre con tutte le formiche aggrappate alla sua schiena saltava tra le pozzanghere enormi.

Non appena furono sulla terraferma, le formichine ringraziarono la rana e si incamminarono verso la grande quercia per dare la notizia della tragedia avvenuta. Giunti a destinazione a tarda sera, quando furono davanti alla loro dimora, non trovavano il coraggio di entrare. Ciononostante, dopo qualche minuto si fecero coraggio l’un l’altra e pian piano salirono nell’incavatura principale della quercia.

Appena furono di fronte al primo campanellino d’allarme, incominciarono a tirare forte la corda e in tutta la quercia si diffuse l’eco del suono: “Din, din, din…”. Così nel giro di dieci minuti svegliarono tutte le altre formichine. A drappelli si affacciavano dalla infinita scala a chiocciola, tutte assonnate, con i pigiamini di lana, le pantofole, i cappucci per scaldare le teste, borse d’acqua calda, ecc., chiedendosi cosa fosse accaduto di così grave per essere svegliate in piena notte.

Osservavano in attesa di una spiegazione il nugolo di sopravvissuti che non riusciva ancora a proferire parola, sopraffatto dal pianto.

Di lì a breve tutte le formichine furono sull’entrata della quercia a domandare cosa fosse accaduto e dove fossero le altre formiche lavoratrici.

Dopo un interminabile minuto di silenzio assoluto, una voce si elevò nell’atrio: “Siamo state sommerse dalle acque: un violento acquazzone ci ha colte di sorpresa, inaspettato, devastante; noi siamo tutto ciò che rimane della spedizione”.

A queste parole seguì un lungo silenzio; tutti i parenti delle vittime della tragedia si incamminarono con il loro dolore verso le loro case. Gli scampati al pericolo furono accolti nei loro nuclei familiari con gioia e trepidazione.

Trascorsero molti anni e la vecchia quercia era sempre più bella, non solo esternamente, ma soprattutto al suo interno.

Quello che stava arrivando era un inverno gelido e tutte le formiche si erano assicurate che non mancasse proprio nulla dalla scorta, dal cibo all’acqua, alla lana e alla seta, ai vari tipi di tabacco da pipa, ai giochi per i più piccini, al materiale per l’istruzione e via via tutto l’occorrente.

I falegnami avevano scavato all’interno della quercia altre stanzette, una sorta di classi di scuola ove i più piccoli potessero trascorrere le giornate in modo sereno e costruttivo.

Quando incominciò l’anno scolastico, tutti i piccoli delle formiche , forniti di tutto punto di cartelle, astucci con matite, quaderni, penne e libri, si presentarono all’entrata della scuola, ove attaccate sul portone si potevano vedere dei bachi che in seguito sarebbero mutati in farfalle, ma questo ancora i piccoli lo ignoravano. Il primo giorno di scuola fu sereno; la vecchia professoressa fece l’appello per conoscere i nomi di tutti gli alunni. All’ultimo banco, in un silenzio impenetrabile, vi era una formichina orfana di padre e di madre; non sapeva più cosa fosse un momento di gioia, lo stare insieme con i compagni di gioco: a lei piaceva dipingere fiori bellissimi e viveva esclusivamente per i suoi colori.

Un giorno, ad anno iniziato, fuori dalla grande quercia giunse un piccolo ranocchietto che era stato abbandonato forse senza volere dai genitori, anzi: sicuramente non era stato abbandonato, ma si era semplicemente perso! Le formichine azzurre dalle loro torri di vedetta scorsero quel piccolo essere

smarrito e, vedendo che era incapace di provvedere a se stesso, lo fecero entrare nel loro regno.

Il capo delle formiche era un tipo barbuto con capelli arruffati; si diceva che fosse colto, intelligente, saggio e tutti i suoi sudditi si domandarono che cosa gli frullasse in testa quando intimò di inserire il ranocchio nella classe dei più piccini, ma nessuno azzardò chiedergli nulla.

Fu così che avvenne l’incontro tra le formiche azzurre e il ranocchietto.  osservandolo, le formichine si resero conto che era incapace di esprimersi, così incominciarono a deriderlo e a isolarlo: erano convinte che la malattia del ranocchietto contagiasse tutte. Avevano il terrore di non riuscire più a esprimersi e così lo lasciarono nell’ultima fila, accanto alla formichina orfana.

I due cominciarono ad osservarsi con cautela, appena appena con la coda dell’occhio, con timore, fino a quando un giorno la formichina chiese al ranocchietto: “Ti andrebbe di mangiare con me?”

Il piccolo ranocchietto, affamato, rispose: “Sì!”

Dentro di sé, però, si meravigliò di essersi fidato subito di quella formichina azzurra, tuttavia si incamminò verso la casetta dell’amico, seguendolo velocemente.

Non appena entrò, vide appesi alla parete tanti bellissimi quadri colmi di colori bui, scuri, ma con fiori mai visti prima; la cosa che li caratterizzava erano gli intrecci dei rami e delle foglie, davvero particolari, i quali immediatamente mettevano in risalto il mondo interiore, ricco e fantastico della formichina.

Il ranocchietto con il suo nuovo amico imparò tante cose, perché la formica era un tipo intelligente e colto; si divertì persino a dipingere con il suo aiuto, ma comprese che non era tagliato per la pittura.

La formica, essendo un tipo provocatorio e originale, incominciò a convincere la rana a scrivere poesie, perché a suo dire (dopo aver letto alcuni versi dell’amico) scriveva bene ed in quel modo si sarebbe fatto comprendere universalmente.

Quando il ranocchietto mostrò le sue prime poesie, raccolse molti consensi, ma questo non lo rassicurava affatto sulle sue capacità, anzi lo rattristava, perché in cuor suo pensava che quei complimenti fossero dettati dalla pena che suscitava la sua malattia; così era sempre solo e triste.

La formichina non perdeva occasione per provocarlo quando non si dedicava alla scrittura. Alle volte era veramente odioso agli occhi dell’amico, che tuttavia (seppure litigassero spesso) non smetteva di stimare e di volergli bene come a un fratello maggiore, a cui è necessario dare ascolto.

Dopo circa tre anni che viveva con il popolo delle formichine azzurre, il nostro ranocchio un bel giorno notò i bachi nei pressi della scuola, proprio mentre mutavano in farfalle multicolori, e così da allora iniziò a pensare al volo, alla libertà interiore, alla metamorfosi degli esseri viventi. Nel suo cuore era avvenuto qualcosa: non gli bastava più la compagnia dell’amico, era triste, infelice e

consapevole che, seppure l’amico l’avesse fatto crescere e guarire dal “mutismo” interiore e gli avesse mostrato i colori della libertà, era giunto il momento di andar via, di sperimentare l’esperienza acquisita fuori dal mondo delle formiche azzurre.

Dopo alcuni mesi di profonde riflessioni, il ranocchietto con immenso dolore salutò l’amico formichina, l’insegnante occhialuta e tutte le formichine. La formichina più dolce, che tanto lo aveva aiutato, non avrebbe voluto che partisse, ma rispettò il suo volere: era una damigella molto forte e saggia, perciò sapeva bene che le cose buone che aveva donato non sarebbero state vane e

sapeva che sarebbe rimasta per sempre nel cuore del ranocchio. Così, in un giorno di pioggia come quello in cui era arrivato, s’incamminò verso il suo destino, nel fitto bosco, abitato da animali sconosciuti che lo incuriosirono.

Salto dopo salto giunse in un laghetto bellissimo, fitto fitto di canne gialle. Il silenzio era interrotto dai grilli e dal gracidare delle rane; era giunto nel suo ambiente naturale, ma era molto timoroso, perché non ricordava nemmeno la lingua delle ranocchie. Comunque si spinse all’interno del canneto, saltando di foglia in foglia, finché improvvisamente si imbatté in due bellissime ranocchiette che, vedendolo, si spaventarono e dissero: “E tu chi sei? Ci hai spaventate sbucando

dalle canne all’improvviso!”

Il ranocchietto, più spaventato di loro, iniziò a raccontare le vicissitudini della sua vita e pianse tante lacrime dai suoi occhini tristi. Le due ranocchiette si commossero e dissero al ranocchietto che non doveva piangere più, perché da quel momento avrebbero pensato loro a stargli vicine e a farlo

sorridere. Infatti da quel giorno incominciarono ad incontrarsi tra le canne dorate e insegnarono al loro amico la lingua dei ranocchi.

Il nostro piccolo ranocchietto, avendo acquistato fiducia, ricominciò a scrivere poesie per farsi volere più bene, dato che credeva che con lo scritto riuscisse ad esprimersi meglio. Le due amiche erano molto contente di quella nuova amicizia, in particolare la più piccina che, non avendo il fidanzato, aveva iniziato ad osservare con occhi dolci dolci quel ranocchietto solo al mondo; di contro, era evidente che anche lui fosse cotto di lei. Vederli giocare era davvero meraviglioso:

formavano una coppia di ranocchi bellissima, tanto che nel canneto suscitavano l’invidia di tutti, ma questo per loro non aveva nessuna importanza.

Un brutto giorno una ranocchia cattiva, dato che era gelosa della bellezza e intelligenza della bella ranocchietta, la invitò nel laghetto delle streghe, determinata a farle del male. La dolce ranocchietta aveva molta paura, dato che non aveva fatto nulla di male a quella cattivissima rana brutta, tuttavia sperava che con il dialogo l’avrebbe fatta desistere dai suoi propositi malvagi.

Il giorno prima dell’incontro i due ranocchietti innamorati si incontrarono e lei ebbe modo di sfogarsi un po’; lui cercò di rasserenarla, così da infonderle coraggio e sicurezza per quell’incontro.

Quando la ranocchietta andò all’appuntamento al lago delle streghe, il ranocchietto si incontrò con l’amica ranocchia e insieme parlarono a lungo della loro amata amica. In quei momenti di ansia si rendevano conto ancor di più di quanto lei fosse importante per loro.

Tuttavia il ranocchietto fin dai primi giorni di vita aveva imparato a “percepire” i pericoli e così sentenziò alla cara amica ranocchia che la loro ranocchietta se la sarebbe cavata benissimo da sola.

Quanta felicità nel rivederla nuovamente, quanta gioia provarono mentre felici saltellavano tra le canne del laghetto, che emozione bella comprendere sempre più che erano fatti l’uno per l’altra! Si amavano tantissimo e avevano bisogno di stare insieme sotto il sole o la pioggia, sfiorati dal vento,

addormentati sotto la luna. Nonostante fossero tanto felici, erano consapevoli che la “vita” avrebbe potuto riservare loro amarezze e dolori e per questo gustavano e si godevano ogni attimo di felicità.

In quei canneti, infatti, volavano delle terribili api velenose, che a volte con i loro pungiglioni uccidevano altri animaletti.

Loro sapevano bene quanto fossero cattive quelle brutte api e così stavano molto attenti a non farsi individuare. Nonostante questo, un brutto giorno d’inverno il piccolo ranocchietto fu punto da un’ape velenosa e restò agonizzante su una foglia che galleggiava nel lago.

I ricordi incominciarono a farsi sbiaditi, confusi; i giorni trascorsi nella quercia riaffiorarono: il ranocchietto “vedeva” l’amico formichina, i fiori multicolori dei suoi quadri, la scala a chiocciola, quel giorno buio in cui fu raccolto sullo spiazzo della quercia, la damigella che nella quercia era la formichina più attenta ai bisogni degli altri, il capo formica, e poi il buio impenetrabile lo avvolse nel silenzio.

Le due ranocchiette piansero per lungo tempo il loro piccolo amico e di tanto in tanto si recavano sotto l’alberello dove lo avevano deposto per farlo riposare al riparo dalle intemperie del tempo.

Lì sul tronco incisero una poesia del piccolo ranocchio che diceva:

Fui raccolto

in un giorno

di pioggia,

bagnato,

sporco,

privo di parola.

Mi fu insegnato

ad esprimermi,

a vedere i colori,

ad amare il prossimo

e la vita;

avvenne così

il miracolo

della mia metamorfosi.

Voi che passate

senza “vedere”

né udire:

soffermatevi

un attimo

ad amare la vita.

Da www.claudiocrastus.it

“A mia figlia Serena” di Claudio Crastus


Appena ricevuta, copiata e pubblicata

Avrei voluto cullarti in eterno

e mi danno l’anima

con il rimorso d’aver rincorso

una polverina sporca

lasciandoti sola.

Quanti anni ho bruciato, figlia adorata!

Brandelli di carne

ho venduto ai mercanti.

Quindici anni

e il cervello bruciato

da quell’oscena mercanzia.

Ti chiedo perdono, giglio immacolato!

Tenero germoglio del tuo papà.

…………………………………………………

Mi sei apparsa in sogno:

un interminabile abbraccio

che ha spezzato la realtà.

Perché non mi parli

nemmeno ne sogni?

Mi appari in sogno,

lo sguardo triste,

l’aria smarrita.

Forse è questa

disperata angoscia

il conto

che ho in sospeso

con la vita.

“Sfiorami”


di Claudio Crastus

Se un giorno

ti lascerai dietro le spalle

tutti questi cancelli sbarrati

i visi severi, giocondi, tristi

dei ragazzi sepolti quaggiù

lascia di te un solo ricordo

ti prego!

Quando saprai di non dover tornare

guardami una volta sola

come si sprofonda nel cuore di un’amante,

cogli, amore, tutta la polvere

che sovrasta il mio cuore,

soffia e spazza via le mille spine

che inconsapevolmente mi hai piantato

una alla volta sul petto.

Sfiorami il viso,

le labbra,

i capelli

affinché le mie paure si smaterializzino.

Non ricordo più

la sensazione che trasmette una carezza,

un bacio,

un attimo di gioia;

non se solo tu mi parli e sfiori

riesco a immergermi nei tuoi occhi belli e neri

incastonandomi nel tempio del tuo cuore.


da http://urladalsilenzio.wordpress.com


Congedo di paternità: Italia verso l’allineamento Ue su quello obbligatorio


di Valentina Marsella

Dopo la sentenza di Firenze, che concede 5 mesi ai neo-papà con determinati requisiti, presentate due proposte di legge, ora in discussione alla Camera, che puntano a introdurre i 4 giorni di congedo obbligatorio presente in altre realtà europee.

Fonte: immagine dal web

Una sentenza del Tribunale di Firenze, mesi

fa, aveva rivoluzionato la vita di alcuni fortunati neo-papà, concedendo loro cinque mesi di congedo. Fino ad allora l’Inps riconosceva al padre la possibilità di restare a casa con l’80 per cento dello stipendio per i tre mesi successivi al parto della compagna. Ma il giudice fiorentino, giudicando quel tempo troppo stretto, perché la legge dota quel genitore di un diritto autonomo e speculare a quello della madre, aveva prolungato i termini. E allora se la lavoratrice può astenersi dal suo impiego per cinque mesi, avrà diritto a farlo anche il padre, solo quando sussistono determinate condizioni.

Da allora una valanga di richieste ha invaso gli uffici dell’Inps, e molti papà

desiderosi di stare a casa con il proprio bimbo hanno preso alla lettera la sentenza. Eppure quella pronuncia non è da considerarsi la panacea di tutti i mali, perchè ci vogliono dei requisiti per poter richiedere il beneficio. L’interessato può ottenere tutto il periodo stabilito, solo se la madre è casalinga, è in malattia oppure è una lavoratrice autonoma che non usufruisce del diritto all’astensione. Altrimenti potrà prendere un congedo che sommato a quello della compagna non può superare i cinque mesi. E infatti protagonisti della sentenza erano stati due coniugi, in cui la donna, lavoratrice autonoma e vicepresidente della Cna fiorentina, aveva avuto una malattia importante.

Un tempo il periodo di maternità era

pensato per salvaguardare la salute della madre. Adesso si intende anche come tutela di quella del bambino, e il ruolo del padre diventa fondamentale, anche per aiutare la compagna incinta nell’ultimo periodo della gravidanza. E dalla pronuncia di quella sentenza, la legislazione a favore dei ‘mammi’ ha cercato di fare un ulteriore balzo in avanti. Dopo mesi, in questi giorni si è tornato a parlare di congedo di paternità e stavolta è la parola ‘obbligatorio’ a metterci lo zampino e a rendere tutto più interessante per i papà che finalmente non saranno costretti a ferie e permessi per star vicino alla compagna in sala parto o durante le prime ore dopo la nascita.

Come avviene nella maggior parte dei Paesi europei, anche i papà italiani

potrebbero godere di un congedo di paternità obbligatorio, si legge sulla prima pagina dei disegni di legge che la Camera ha iniziato a discutere a metà giugno. Se arriveranno al traguardo finale i papà, subito dopo la nascita del bambino, dovrebbero prendere quattro giorni di congedo obbligatoriamente, come è obbligatorio il congedo che impone alla mamma (purtroppo non a tutte ma a chi ha determinati contratti di lavoro) di non lavorare per cinque mesi. Il tutto a carico delle aziende per i lavoratori dipendenti e del sistema previdenziale per gli autonomi.

Due le proposte di legge all’esame della commissione Lavoro di

Montecitorio, molto simili tra loro. Per prima è arrivata quella del Pd scritta da Alessia Mosca e firmata da 25 deputati, seguita da quella depositata dal Pdl, autore Barbara Saltamartini, sottoscritta da 36 colleghi. “L’Europa ci impone di portare a 65 anni l’età pensionabile per le donne – spiega Mosca, la firmataria della proposta Pd – ma è opportuno riequilibrare anche un altro pezzo della vita, e cioè la cura dei figli che non può essere a carico solo delle mamme”. Quei quattro giorni, dunque, avrebbero un valore simbolico. E sarebbero il primo passo di un lunghissimo percorso.

“Il vero obiettivo – spiega Saltamartini, autrice del testo Pdl – è passare

dalle pari opportunità alle pari responsabilità. E quindi pensare non alla tutela delle donne, ma ad un sistema che consenta alla famiglia di organizzarsi”. In attesa del congedo obbligatorio, in Italia esiste comunque quello facoltativo, ma è una rarità: lo chiede meno del 4 per cento dei padri. “Quattro giorni per lavoratore con un tasso di natalità dell’1,24 per cento – dice Saltamartini – sono davvero poca cosa. E poi vogliamo aiutare le famiglie a fare figli e le donne a rimanere nel mondo del lavoro. Anche questo è sviluppo”. Esistono esempi positivi in Europa: il Portogallo ha introdotto il congedo obbligatorio per i papà nel 2002. Prima aveva solo quello facoltativo, ma non lo chiedeva nessuno, meno del 2 per cento dei papà. Adesso sono arrivati al 22 per cento.

“Questo vuol dire che l’obbligo di restare a casa – spiega Mosca – può

insegnare che prendersi cura dei bambini è bello. Può rompere un tabù, avviare una rivoluzione”. L’iniziativa bipartisan, dunque, affronta una questione che in molti paesi europei è già da tempo acquisita e regolarizzata. Di fatto, un padre svedese deve trascorrere 30 giorni a casa col bebè, uno francese 12 giorni, e norme simili esistono in Spagna, Gran Bretagna, Germania, e appunto Portogallo.

Ma l’esempio di quello che viene considerato il paese modello in questo

campo, la Svezia, mostra che la diffusione del congedo tra i papà dipende sicuramente da fattori culturali, ma anche da un sistema di incentivi che lo rendano sostenibile per la famiglia: e questo può essere ottenuto solo con una piena retribuzione di parte del periodo e con l’obbligo di un’equa suddivisione tra i genitori. L’introduzione nel paese scandinavo del congedo per i padri nel 1995 ebbe un impatto immediato grazie ad una forma di coercizione indiretta: se il papà non ne fruiva, la famiglia perdeva un mese di indennità. Di lì a poco, otto uomini su dieci usufruivano del congedo. L’aggiunta di un ulteriore mese di congedo paterno non trasferibile nel 2002 ha aumentato solo marginalmente il numero di uomini che vanno in ‘paternità’, ma ha più che raddoppiato la durata.

La Germania, con quasi 82 milioni di abitanti, nel 2007 ha imitato il

modello svedese, destinando due dei 14 mesi di congedo retribuito ai papà. In due anni, il numero di padri che hanno richiesto il congedo è balzato da tre a oltre il 20 per cento. Le due proposte prevedono inoltre, per tutte le donne, l’innalzamento dell’indennità spettante durante l’astensione obbligatoria dall’80 per cento al 100 per cento della retribuzione, e una serie di altri miglioramenti alle tutele per maternità e paternità, che dovranno ora passare alla verifica di compatibilità con i conti dello stato.

PROPOSTE DI LEGGE ATTUALMENTE IN FASE DI STUDIO:

Proposta di legge di Alessia Mosca (Pd)
Proposta di legge di Barbara Saltamartini (Pdl)

da http://www.nannimagazine.it

A Campobasso la Giornata Nazionale Paralimpica


capoluogo molisano scelto anche grazie al lavoro del Cip regionale nella promozione dello sport per disabili su tutto il territorio. Il programma della giornata prevede, tra le altre cose, dimostrazioni sportive e un convegno su sport e disabilità Logo del Comitato italiano paralimpico

CAMPOBASSO – La città di Campobasso è stata inserita nelle 14 città italiane dove il 14 ottobre 2010 si svolgerà, in contemporanea, la Giornata Nazionale Paralimpica. Il risultato è di notevole prestigio se si considera che il capoluogo regionale è l’unico centro abitato di medie dimensioni che è stato inserito nell’elenco delle sedi italiane. Ad essere state coinvolte, infatti, le principali metropoli del nostro Paese o le città di maggior prestigio storico-architettonico come Venezia o Firenze. Il capoluogo molisano è stato scelto anche grazie al lavoro svolto dal Cip regionale nella promozione dello sport per disabili su tutto il territorio e al risultato ottenuto dai suoi atleti locali in campo nazionale ed internazionale.

Il programma è in via di definizione e la macchina organizzativa del Cip Molise si è già messa prontamente all’opera da circa un mese. Al momento si sa solo che l’area interessata dalla Giornata Paralimpica Nazionale sarà quella circoscritta tra il Corso, viale Elena (lato Tribunale), piazza Municipio, piazza dei Cannoni, il Distretto militare. Durante l’intera mattinata, dalle ore 8.30 alle 13.30, saranno presenti nel cuore di Campobasso dimostrazioni sportive di tutte le attività paralimpiche svolte in Molise. Diversi saranno anche i momenti di approfondimento e di premiazione che, però, debbono essere ancora definiti nei minimi dettagli. Molto attesa anche la cerimonia di apertura che coinvolgerà tutti gli atleti paralimpici del Molise e gli alunni delle scuole molisane che, in definitiva, saranno i veri protagonisti dell’intera giornata.

Nel pomeriggio, probabilmente nella sede del Distretto militare, si svolgerà un convegno di approfondimento sulla disabilità e sullo sport paralimpico che vedrà tra i relatori principali i campioni sportivi regionali e diversi esperti nei vari ambiti che a vario titolo sono a stretto contatto con la disabilità intesa a 360 gradi. L’intero staff direttivo e tecnico del Cip Molise si è detto orgoglioso e pronto ad affrontare questa ennesima sfida per portare ancor più in alto il nome del Molise e dei suoi atleti paralimpici. Nell’organizzazione sono stati coinvolti anche il Coni, la Regione Molise, il Comune di Campobsso e le due Provincie di Campobasso e Isernia.

da http://www.superabile.it