Siamo tutti pedagogisti


di Antonella Cristofani

Sulla mia posta elettronica arriva periodicamente il “Diario azzurro” di Silvano Agosti cui sono regolarmente iscritta.

Nell’ultimo numero, il 325 del 25/9/‘10, la mail della settimana è dedicata alla lagnanza di una madre la cui figlia in un tema sull’istituzione scolastica ha meritato un cinque e mezzo ‘arricchito’ dal commento di ‘banalità’.

Il tema, continua la madre, era ispirato ai concetti espressi da Silvano Agosti nel suo libro Il genocidio invisibile, un’utopia fiabesca operata dalla fantasia dell’autore su una scuola non/scuola.

Questa madre conclude scetticamente che gli alunni sono costretti a comportarsi come ripetitori di concetti graditi agli insegnanti, pena l’insufficienza.

L’Agosti in risposta si è affrettato a offrire ai lettori un estratto del Genocidio invisibile, un saggio “sull’immensa preziosità della persona umana e sull’evidente funzione della scuola di cancellare ogni traccia di tale preziosità e della connessa creatività”. Dalla fruizione di questo estratto emerge che la banalità potrebbe risiedere proprio in una favola troppo favola illustrata dall’autore che, se affidata ad un adulto che sa leggere al di là della metafora, acquista certamente una piacevole validità di fantasia, ma se poi tutta questa fantasia viene consegnata alla mente di una quindicenne che con le nuvole ci sguazza, si può forse se non proprio condividere, almeno capire “da quale parte del cervello” è venuta l’espressione ‘banalità’ usata dall’insegnante.

Il progetto dell’Agosti, così come è tratteggiato da questo breve estratto, appare completamente scollegato dalla realtà e questo non sorprende chi ha letto come me Lettere dalla Kirghisia dello stesso autore dove è vagheggiato uno stato/chimera splendido che consente almeno di pensare alla bellezza e alla poesia dell’utopia che può scaturire dalla voglia di libertà, di pace, di solidarietà che risiede nel desiderio profondo collettivo. Però dal sogno ci si risveglia nel mondo attuale e dopo essersi abbandonati alle considerazioni più tristi e vituperanti sulla lacunosa gestione del sistema scolastico, il ‘bravo pedagogista’ riflette sulle possibilità di intervenire per rimediare almeno ad alcune aberrazioni che si consumano quotidianamente.

Io sono una pedagogista e la disciplina cui mi sono dedicata tutta la vita mi ha insegnato che i problemi vanno affrontati come le cipolle spogliandoli via via dei vari aspetti e sovrastrutture che si sono andati stratificando, fino ad arrivare al cuore che è il corpo elementare, monolitico che può essere esaminato e affrontato con una soluzione semplice e forse, se si è fortunati, univoca.

Procedendo dunque con il metodo indicato io riesamino il sogno di Agosti.

Nello Stato della Kirghisia, in quell’Eden incantato, le scuole non esistono e, come è stato ai tempi di Basaglia ‘quaggiù da noi’ per i manicomi, che sono stati chiusi e trasformati in Centri d’Igiene Mentale, – l’esempio è di Agosti – in Kirghisia le scuole sono state chiuse e al loro posto sono stati istituiti i Centri di Salute Culturale.

L’autore li descrive come una sorta di ‘paese dei balocchi’ costituito da grandi parchi – ogni parco l’Agosti lo denomina “Parco della vita” – dove i bambini giocano a sazietà e nei momenti di pioggia si rifugiano in edifici chiamati laboratorio/spazio d’incontro che perimetrano il parco medesimo. C’è la Casa della filosofia, della letteratura, delle lingue, del corpo umano, della musica, delle scienze, dei sogni, del cinema, del teatro e così via. Ognuno può ripararsi dove crede secondo il proprio desiderio perché imparare “nasce dalla brezza del desiderio”.

Fin qui è una poesia e forse anche traducibile in una futuribile realtà. Ricordo che da bambina vagheggiavo una sorta di scuola così concepita e siccome credo di essere pressoché contemporanea dell’Agosti, posso testimoniare che siamo stati vittime di una scuola quanto mai vessatoria che puniva il creativo e stimolava fantasie simili negli animi di noi rivoltosi. Anzi credo di aver scelto questa disciplina proprio nell’intento di rimediare a tanta oppressione, ma poi, per il solito “Ci ho famiglia”, mi sono confusa nelle file pubbliche del ben pensare. Sì, ma adesso ho settant’anni e se non dico ora quello che ho dentro quando lo faccio? E la famiglia? Bene grazie.

Il Nostro va avanti e ci introduce in queste case dove ad accoglierci c’è un grandissimo salone attrezzato con centinaia di computer aggiornati su tutto lo scibile che riguarda quella casa dalle origini ai giorni nostri.

Io già vedo tutti i frequentatori di svariate età adoperare questi strumenti serenamente… serenamente? Ma c’è quello più piccolo che abusa della tastiera e con il mouse ci schiaccia un pinolo trovato nel parco. Il rumore disturba l’adolescente che strappa di mano al piccolo l’arnese. Il bimbo reagisce piangendo e prendendo a calci l’adolescente e… “quando poi hanno fame c’è qui una mensa che funziona ottimamente in tutte le Case…” la guida mi sta prontamente introducendo nella sala mensa da dove sprigiona un profumino delizioso. “Ma la retta a quanto ammonta?” “Qui è tutto gratuito. Con gli stipendi risparmiati per pagare gli insegnanti, ispettori scolastici, presidi, bidelli, testi scolastici ci possiamo permettere questo ed altro”

Alt! Intanto quanto guadagnavano qui gli insegnanti? Perché non posso immaginare che con gli stipendi correnti dei nostri insegnanti si possano pagare materiali didattici vari, pulizie, cibi, manutenzione e aggiornamento dei computer… ma un’altra riflessione urge e mi blocca ed è quell’allarmante rimpiazzo  dell’insegnante sostituito dalla macchina.

Ora però esco dal gioco perché il discorso si fa serio.

Che l’insegnante debba essere in grado di saper trasmettere i beni culturali della materia in cui è specializzato è di primaria importanza, che la metodologia tradizionale debba essere rivista e personalizzata su ogni singolo discente è fondamentale, ma che l’insegnante debba esserci non è nemmeno discutibile. Neanche se domani si riuscirà a costruire un computer con un’anima potrei prendere in considerazione l’idea di fargli sostituire l’insegnante perché se non mi fido dell’anima umana potrei fidarmi di un’anima meccanica costruita da un’anima umana?

“Un buon computer costa mille volte di meno di un insegnante e ‘sa’ mille volte di più.” Eh no! Caro Agosti, l’insegnante, per quanto poco valido possa essere, ha almeno la sensibilità di commuoversi, di consolare, di affiancare, di indignarsi, di entusiasmarsi, di aggiustare il tiro e se non ce l’ha non gli si deve consentire di fare l’insegnante. E le dirò di più, non mi interessa quanto sa l’insegnante. Posso accettare anche l’insegnante limitato nelle nozioni che deve trasmettere, ma se le sa trasmettere fatelo insegnare al posto del genio che è in possesso di ogni sfumatura che riguarda la sua materia, ma che proprio in virtù di tanto padroneggiare disprezzi chi non sa e maltratti chi non capisce.

Lo ‘spogliarello’ del problema è già arrivato ad isolare un punto fondamentale. La formazione dell’insegnante, l’ottimizzazione della professionalità docente. Insisto sul concetto che resta sempre preferibile l’insegnante mediocre alla macchina, ma dico alt al cattivo insegnante.

La selezione che si dovrà praticare al momento formativo del docente dovrà scongiurare tale possibilità e provvedere a rafforzare l’obbligo da parte dell’istituzione di vagliare l’idoneità all’insegnamento di certi individui. Nei piani di studio di chi andrà ad insegnare deve essere reso obbligatorio l’attestato di frequenza ad un master di pedagogia, psicologia e didattica che fornisca almeno gli strumenti base a chi insegnerà per poter affrontare un metodo didattico corretto nel trasmettere nozioni. Questo servirà almeno da richiamo all’attenzione alle problematiche psicologiche e didattiche che il futuro discente incontrerà, al di là delle nozioni che dovrà insegnare. Le maestre elementari, pur non essendo necessariamente laureate, hanno studiato psicologia, pedagogia e didattica, i professori di fisica no.

Ora voglio accogliere la distinzione che Agosti fa tra il piacere di imparare e la costrizione a studiare che trasforma la scuola in istituto di pena. Debbo ringraziare Agosti che con la sua provocazione mi porta a riflettere come pedagogista sulla rigidità dell’osservanza dei programmi ministeriali che può portare perfino all’estinzione del naturale desiderio di conoscere.

Ha ragione la guida delle scuole kirghisiane il quale ci dice che il bambino di cinque anni è “la miniatura di un universo perfetto” un capolavoro della natura che con i suoi perché manifesta la voglia di imparare. Il primo insegnamento che gli si deve impartire è proprio quello di relazionarsi a se stesso come ad un’opera d’arte perché tale la persona umana è e come tale va considerata, con la cautela e il rispetto che si ha verso “La Gioconda”. Quel bambino imparerà prima di tutto il rispetto verso se stesso e di conseguenza verso gli altri, anch’essi capolavori della natura.

Dare un taglio più sacrale a ciascun individuo e impedire che si compia questo ‘genocidio invisibile’ è sicuramente la strada giusta, ma provare a suggerire al bambino che le ciliegie non sono triangolari, con la dovuta maniera è insegnare. Mi riferisco alla ‘tragedia delle ciliegie triangolari’ citata dall’Agosti e cioè un bambino che a scuola disegna ciliegie triangolari, abbandonandosi alla gioia della sua creatività, e la maestra si permette di frustrarlo insegnandogli che le ciliegie sono rotonde e infierendo nel condurre la mano del bambino a disegnare un tondo. “la grande mano della maestra imprigiona la manina smarrita…” sembra che da questo momento abbia inizio lo sconvolgimento devastante dell’autostima nel povero bambino, il quale odierà “il cibo culturale” e si butterà nella “lettura dei giornali sportivi o scandalistici, la pornografia, le soap opere…… la cultura sciatta e triviale della tifoseria calcistica, la bassa qualità del diverbio politico tra i partiti.” Tutto perché abbiamo voluto insegnare al bambino che le ciliegie sono tonde?

Naturalmente non è questo che intendeva dire l’autore, ho solo voluto scherzare un po’. Questo è il pregio della pedagogista che invece di impermalirsi sa cogliere il buono di questo suggerimento come di ogni altro, perché il pedagogista, in quanto tale sa essere umile, lascia che tutti interferiscano nella sua professionalità, anzi è avido di ‘insegnamenti’. In questo caso il pedagogista sa che deve interpretare la comunicazione grafica di un bambino. Che le ciliegie sono tonde un bambino lo sa da sempre perché le ha viste e mangiate fin dal primo anno di vita, ma capire che cosa invece sta cercando di comunicare con quel triangolo è il suo compito.

Che l’azione educativa sia a volte frustrante è innegabile, ma le frustrazioni sono inevitabili nel corso della vita e se un bambino vi si imbatte durante un evento pedagogico non rappresenta sempre un momento negativo, un episodio che deve lasciare sfregi permanenti. O meglio se lascia il segnale di richiamo dell’attenzione alla cautela nell’uso del linguaggio, alla sensibilità dell’altro, al rispetto delle sue opinioni e stabilizza l’abitudine alla delicatezza, alla prudenza e al rispetto che sia benedetta la frustrazione pedagogica.

E qui torniamo al commento sul tema della ragazza ritenuto insufficiente e banale che ha aperto questo dibattito. Forse l’insegnante può anche essersi offesa se la ragazza ha voluto buttare addosso a lei le responsabilità di tutta l’istituzione. È pur sempre un essere umano. Ma la ragazza dovrebbe riflettere e ad aiutarla dovrebbe essere proprio la madre, che tutto si può dire, ma che la sacralità dell’essere umano appartiene a tutti gli esseri umani, grandi e piccoli, e che il tatto ci viene insegnato proprio dalla risposta che si riceve ad un nostro gesto.  Se la risposta è stata un’insufficienza e un ‘banale’ si chiedesse perché fino in fondo e prendesse atto che certi gesti si pagano. Poi valutasse lei se il prezzo è conveniente. Comunque sicuramente la sua professoressa non la boccerà per questo, un cinque e mezzo non è mai diventato una bocciatura lo definirei piuttosto una legittima difesa in risposta a una ferita subita all’improvviso.

Ringrazio dunque Silvano Agosti per i suggerimenti pedagogici, mi congratulo con lui per aver osato addentrarsi in maniera spericolata nella materia cavandosela brillantemente e lo accolgo con tutti gli onori tra i pedagogisti, per aver saputo intuire che tutti abbiamo un ruolo chiave nella funzione educativa e tutti veniamo a nostra volta educati dal feedback ambientale.

Insomma, siamo tutti pedagogisti.

Niente più carcere, quarto giorno: conferenza dei Radicali “Quando lo Stato sbaglia…”


Martedì 16 febbraio, alle 11, alla sala conferenze stampa del Senato della Repubblica, si terrà la conferenza stampa “Quando lo Stato sbaglia. Casi, storie e proposte al Senato”. “Alcune volte, gli errori dello Stato, ancorché pochi, forse fisiologici, forse comunque troppi, lasciano le vittime a invocare verità, giustizia, risposte. Da parte di chi, se non da parte dello Stato stesso?”. È quanto si legge in un comunicato stampa.

“Lo Stato possiede gli anticorpi per prevenire, riconoscere e intervenire qualora le persone che agiscono in suo nome incorrano in errori? O tali anticorpi possono essere migliorati, resi più efficienti, se non alcune volte addirittura creati? Sono domande che non possono non interrogare profondamente la politica, rivolte in questa occasione, insieme all’associazione radicale il Detenuto Ignoto, da parte delle famiglie coinvolte nelle tremende, sospette storie di detenuti deceduti in carcere. Partecipano: Emma Bonino, vicepresidente del Senato; Rita Bernardini, deputata e membro della commissione Giustizia alla Camera dei deputati; Ignazio Marino, senatore e presidente della commissione parlamentare di inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio sanitario nazionale che ha aperto una indagine sul caso Cucchi; Donatella Poretti, senatrice e segretaria della commissione Igiene e sanità al Senato; Ornella Favero, presidente di Ristretti Orizzonti; Laura Baccaro, criminologa. Moderano: Irene Testa, segretaria dell’associazione radicale Il Detenuto Ignoto, e l’avvocato Alessandro Gerardi”.

da www.ristretti.it

Malato di Sla, figlio vuole vendere rene: “Abbandonati dallo Stato”


Domenico Pancallo A vent’anni ha deciso di vendere un rene: il padre è malato di Sla e lui non può permettersi le cure di cui il genitore ha un disperato bisogno.

 Il dramma dei malati di Sla non colpisce solo nel fisico e negli affetti, anche la dignità ne esce ferita irrimediabilmente se, come è successo a Vercelli,  un figlio disperato intende vendere un suo organo sano pur di garantire un’assistenza minima  al padre bisognoso di cure specialistiche e continue.

 «Ho deciso di vendermi un rene perché ci sentiamo abbandonati dallo Stato italiano e non abbiamo le possibilità economiche per permetterci una badante che allevi le nostre sofferenze».

 E’ Andrea Pancallo a rilasciare una dichiarazione che interpella le coscienze di tutti: suo padre Domenico dal 2004 lotta contro la Sla, la sclerosi laterale amiotrofica.

 «Papà si è ammalato all’età di 44 anni – ha detto – ed in poco tempo la malattia lo ha reso incapace di essere autonomo in tutto e per tutto. Oggi è completamente immobile, non comunica più neanche con gli occhi, è attaccato ad un respiratore e nutrito per via artificiale. Ci siamo trovati da un giorno all’altro catapultati in una realtà di dolore e di sofferenza che non ci ha risparmiato nemmeno un minuto, e da allora siamo soli».

 L’odissea dei malati di Sla purtroppo rientra tra le normali emergenze del nostro paese: ogni tanto si accende qualche riflettore, episodiche iniziative benefiche riaccendono deboli speranze, popi tutto ritorna come prima, solitudine e abbandono delle istituzioni pubbliche.

 Già in novembre lo sciopero della fame di un gruppo di malati di Sla riuscì a sollecitare un recalcitrante  ministero della Salute chefino ad allora non aveva visto, ascoltato, parlato. Di fronte a un paese distratto lo scandalo di persone allo stremo delle forze costrette a non  alimentarsi per cercare un po’ di attenzione. L’hanno ottenuta: un incontro c’è stato, seguito da uno scambio di lettere con il viceministro Fazio. Poi è tornato il silenzio, più forte di prima, visto che Salvatore Usala, il malato che guidò quella protesta estrema, quasi ci lasciava la pelle

 da www.blitzquotidiano.it

A Rosarno i bianchi contro i neri, la prima guerra etnica d’Italia


A prima in Italia E’ la prima rivolta etnica in Italia, non sarà l’ultima. E’ scoppiata ovviamente nel luogo più “illegale” d’Italia, ma cova e fermenta in molti altri luoghi della penisola. Ecco il film della “Rivolta di ”, un film dove la parte dei “buoni” non la recita nessuno, è assente dal copione e dalla sceneggiatura.

 Prima scena: migliaia di “neri” vengono fatti lavorare nelle campagne. Venti euro al giorno, di cui cinque vanno agli . “Orario” di lavoro: dall’alba al tramonto. Di giorno i “neri” sono bestie da lavoro sopportati, di notte devono sparire. Rintanarsi in alloggi fatiscenti che le stesse autorità definiscono “gironi danteschi”. Gli agricoltori della zona dicono che lavoratori regolari non ne possono pagare e che quindi l’unico lavoro possibile è quello nero per i neri. Dicono che c’è “la crisi dell’agricoltura”. E’ una teorizzazione, forse inconsapevole ma di certo esplicita, del lavoro schiavile.

 Seconda scena: con i “neri” ci si guadagnano soldi. In qualunque attività dove si guadagnano soldi è controllata o “osservata” dalla criminalità organizzata. I “neri” sono sotto la doppia pressione dei “padroni” e dei boss. Sopportano gli uni e gli altri. Si aggiunge un endemico, spontaneo, quotidiano e “naturale”. Se e quando i “neri” escono dal circuito campo-tana, la gente del posto li evita e talvolta si diverte a ricordare loro che sono umanità di serie inferiore. Fino a che un giorno qualcuno prende un fucile ad aria compressa e spara al “nero”. Mica per ucciderlo, ma per tenerlo al “suo posto”.

 Terza scena: i “neri” si ribellano. Con rabbia violenta: sfasciano, minacciano, invadono. Quel che succede nelle banlieu parigine, quel che succedeva nei ghetti delle metropoli americane, quel che pensavamo, chissà perchè, da noi in Italia non potesse mai succedere. I “neri” fanno male e fanno paura. Commettono reati ma soprattutto “occupano” la terra, le strade, lo spazio dei bianchi.

 Quarta scena: i bianchi reagiscono, centinaia di giovani calabresi, parole loro, danno “la caccia all’africano per difendere le nostre case”. Negozi e scuole chiuse. Qualcuno spara stavolta non a salve. La polizia cerca a fatica di impedire lo scontro di piazza tra neri e bianchi.

 Quinta scena: il governo capisce cosa sta succedendo. Affida l’emergenza ad una “task force” che comprende uomini del Viminale, del ministero del Welfare , della Regione . Perchè, parole ufficiali, l’emergenza è insieme di “ordine pubblico, lavoro neo e assistenza sanitaria”. Capisce, ma lavora, come dice il commissario prefettizio , in una “situazione grave e pesante”. Quanto grave e pesante? Il corteo dei “neri” va sotto la sede del Comune, ma il Comune non c’è, è sciolto per infiltrazioni mafiose. Le ronde di autodifesa dei bianchi accerchiano il corteo dei neri, gridano: “Andatevene in Africa”. E un grido che ha più o meno lo stesso suono viene da Roma, dal ministro degli Interni che oggi si ricorda di essere prima leghista e poi ministro, per lui questi clandestini sono “troppo tollerati”. La polizia, che è insieme quella di ma anche della legge e dell’ordine pubblico, se si azzarda a fermare i bianchi violenti rischia insieme la sollevazione della gente e il biasimo del ministro. Se attacca i “neri” rischia la tragedia. Sta quindi più o meno ferma, in mezzo.

 La “Rivolta di ”, un film dove sono tutti cattivi e incattiviti: i “neri”, i bianchi, la gente, gli agricoltori ci dice quel che in fondo avremmo dovuto già sapere. Quel che è sempre accaduto, sempre e ovunque. Puoi usare ed estendere il lavoro nero fino a farne sistema, puoi far diventare il lavoro nero delle altre etnie, dei clandestini, lavoro e condizione schiavile. Lo puoi fare, nessuno ti ferma davvero e puoi perfino invocare le leggi dell’economia a sostegno di quello che fai. Puoi decretare per legge che i clandestini non devono esistere e che quindi, siccome ci sono e lavorano per te italiano, al calar del sole devono sparire nelle tane. Puoi, come si comincia a fare al Nord, ispezionare le loro case a caccia di documenti scaduti. Puoi comunicare loro per via di legge, di stampa e di tg, che non sono graditi. Puoi, d’accordo con il sentire popolare, additarli come fonte di guai e di contagio.

 Puoi fare tutto questo, per farlo ce ne sono in Italia sia le condizioni materiali che le leggi di Stato che il consenso d’opinione. Però non puoi farlo gratis. Ovunque nel mondo hai fatto o fai questo il prezzo è la rivolta. Rivolta bestiale di quelli che hai trattato come bestie

 da www.blitzquotidiano.it