Cari lettori, sul carcere siete un po’ colpevoli


di Roberto Puglisi

Cari lettori, molti di voi sono sulla strada del mare. Pochi restano di sentinella sulla trincea delle notizie, ecco perché l’estate è la stagione adatta per le ignominie, il tempo dell’assenza.
Non vi sfuggirà, perfino dalla spiaggia,  che in carcere si sta consumando una lunghissima epopea d’orrore. Ma non vi importa, in fondo. Livesicilia vi ha informato puntualmente. Ha intervistato. Ha scavato dietro le sbarre, per raccontarvi storie. E voi non avete risposto all’appello con l’indignazione attesa e plausibile. Eppure è una questione di civiltà.

Cari lettori, scusate la franchezza. Vi stimiamo, siete la ragione del grande successo editoriale di Livesicilia e forse è una cattiva operazione di marketing dirvi che in fondo, almeno in una occasione, non siete stati all’altezza. Ma vedete, noi abbiamo fatto Livesicilia perché volevamo un giornale migliore e lettori migliori. Non pecore da blandire o da accarezzare. Persone adulte con cui intraprendere una relazione sincera nell’asprezza e nell’accordo, nel dissenso e nel consenso. Pensiamo di esserci riusciti.

Ecco perché possiamo dirvelo,  guardandovi negli occhi. Il livello dei vostri commenti all’osceno incancrenimento del sistema penitenziario siciliano da noi denunciato è scarso di quantità e spesso non corretto nella forma. In altre occasioni – nella politica – ruggite e vi scornate con audacia e qualità. Il carcere non vi interessa.

Invece, anche quella è vita e va abbracciata con le sue stimmate. E’ vita di povera gente, è vita di innocenti (sì) e colpevoli, è vita di piccolissimi pesci e di grandi fetidi squali. Noi partiamo da una certezza: il carcere non può essere tortura per nessuno di loro, nemmeno per il più abbietto. Altrimenti, intendiamo che sia tortura, inferno, dissoluzione continua? Benissimo, però non basta la volontà. E’ necessario in aggiunta il coraggio di scriverlo sulla carta della legge: la galera è vendetta.

Fino quando quelle parole non saranno marchiate a fuoco, Livesicilia continuerà a indignarsi e a denunciare. E speriamo di avervi al nostro fianco, con noi, con la nostra stessa rabbia. Questa battaglia vale più di un rimpasto. E non possiamo perderla.

da http://www.livesicilia.it

Ciao Elvira, che libro sarai?


di Roberto Puglisi

Scrive il poeta Valerio Magrelli: “Essere matita è segreta ambizione. Bruciare sulla carta lentamente e nella carta restare”. Se c’è un Dio e ha una biblioteca infinita per diletto, il destino è compiuto. Elvira Sellerio – oggi i funerali a Sant’Espedito – sarà per sempre un libro. Un’associazione libera di carta bianca e parole nere nello scaffale o sul comodino accanto al letto di Dio.
La Signora dei capelli bianchi si è preparata tutta la vita per il salto. Si è agghindata a festa. Viveva con i piedi immersi nel guano di Palermo e con la testa in cielo. Non tra le nuvole dei distratti, nel cielo terso delle idee, nella rarefazione che permette di conservare pensieri di cristallo, per riportarli agli indegni nani che attendono al suolo una bricola di mangime superiore. Elvira Sellerio è stata il cibo migliore di una città disgraziata. E’ stata il sentiero di carta. Una mappa accessibile alle dita di tutti. Un tocco ed ecco Sciascia, l’intrico illuminista di Sciascia, il volto imberbe del capitano Bellodi, la smorfia di don Mariano, il cane che sbava e morde dentro “Parrineddu”. E ancora: l’acume inquieto dell’ispettore Rogas, l’impostura rivelatrice dell’abate Vella, il volto “da uomo grasso” del canonico Gregorio, il ghigno del poeta Meli, descritto come un mercante già morto e sepolto in vita…
Elvira Sellerio ci ha dato la vita eterna dei libri, ecco perchè le spetta un’esistenza senza fine come diritto acquisito. Il riflesso delle parole che non muoiono mai. Lei ha stampato per noi un altro mondo a portata di scaffale. Davide Faraone dice che sarebbe stato decoroso il lutto cittadino. Invece, questa Palermo cialtrona, sporca e violenta non esibisce più da tempo la dignità necessaria per ricevere la coccarda nera del dolore in occasione della dipartita dei suoi figli eccelsi. Le lacrime bisogna meritarsele.

Sarà resurrezione e non solo memoria? Noi lo speriamo. Resta solo da capire il titolo incastonato che accoglierà l’anima di una donna valorosa per custodirla e perpetuarla nel piacere della lettura, nella gioia di essere sfogliati. Non abbiamo suggerimenti da dare a Dio, a riguardo. Ma ci piace citare di nuovo Magrelli: “C’è chi tramonta solo col suo corpo: allora più doloroso ne è il distacco”. Non è la storia di Elvira.

da http://www.livesicilia.it

E’ morta Elvira Sellerio, la signora dei libri


di Roberto Puglisi

Elvira Sellerio è morta. Aveva un nome immenso da pietra angolare, non da semplice e fallibile essere umano, anche se era – dicono – una donna umanissima, scorbutica e dolcissima, capace di tenere in sè anime distinte e separate, come talvolta riesce a certi prodigiosi romanzieri che solo nell’ultima pagina azzeccano la sintesi del gran finale. Elvira – la chiamiamo così, col tu che si deve ai grandi,  pur senza averla conosciuta personalmente – ha già guadagnato la sua eternità, ricadendo come parola e corpo negli scaffali delle librerie, con la sua opera inimitabile e unica, da pioniera delle luce studiata dei volumi. Alla fine si è consunta, come tutti,  e ha lasciato il suo corpo di fragile carne. Ma non è un libro strappato, il resoconto della sua vita. E’ un libro che si chiude con un fruscio di pace.

Ogni cosa ebbe inizio con una scelta valorosa, riferiscono le cronache. Un percorso mantenuto stabile, attraverso marosi e scogli impervi. Elvira lasciò un impiego per investire la liquidazione da pensionata nella casa editrice che nacque quando il ‘69 stava già per diventare Settanta. Lo scoglio più duro, la crisi matrimoniale. Ripercorreva la Signora, intervistata da Chiara Dino di “Repubblica, nel 2001: “In quel periodo, sentivo che mio marito Enzo cominciava a essere insofferente, ad annoiarsi. Ho pensato che mollare col mio lavoro e investire le mie energie in un progetto come quello della casa editrice ci avrebbe in qualche modo riavvicinati”. Nel ‘79 la rottura del matrimonio e la scissione della casa editrice.

Elvira Sellerio ha lasciato che sbocciassero tra le sue mani i fiori pù rigogliosi dell’editoria siciliana, che sarebbero diventati i papaveri rossi della letteratura internazionale. Dai locali del buon ritiro in via Siracusa, sono passati gli insegnamenti tersi e crudeli di Leonardo Sciascia, i ricami barocchi e immortali di Gesualdo Bufalino, l’ironia siculo-europea di Andrea Camilleri. Erano, insieme, un infinito antidoto di bellezza e di intelligenza contro il ciarpame, contro i fiori del male della rassegnazione.  Eppure, coloro che hanno vissuto al fianco della Signora dei libri raccontano della sua passione per ogni pezzo di carta, per ogni nuovo autore, per ogni pietruzza insignificante della storia della parola. L’affetto di una levatrice per la nascita, la pazienza delle dita che prendono in consegna il respiro, il soffio vitale, e l’accompagnano nel corso della crescita. Ancora, la gioia di chi cerca nella meraviglia il riscatto della decadenza quotidiana, una strada colorata e diversa. E noi ringraziamo la Dama dai capelli candidi per averci offerto un altro sentiero, un’alternativa, una cima di robusti e solidali caratteri tipografici, un cammino pieno di portentose molliche di pane. Non è mai stata una fuga.

In quell’intervista a “Repubblica”, la Signora Elvira svelava di sè: “Lavorare con me non è facile. Sono una persona umorale e ho un brutto carattere”. Ogni durezza le è stata rimessa. Ogni asperità è stata levigata e riposta nello scaffale adatto a contenerla. Il lume della parola scritta è dono incommensurabile e resta tale, nell’atto della chiusura degli occhi che sfortunatamente non somigliano ai libri, perché non possiedono la loro impareggiabile virtù. Nessuno può riaprirli. Nessuno può ricominciare. Dopo l’ultima pagina non è concesso il ritorno alla prima. Nemmeno per disperato e instancabile amore.

I funerali di Elvira Sellerio si svolgeranno giovedì alle 11 nella chiesa di Santo Espedito, a Palermo. Lo hanno reso noto i familiari.

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I giorni della bestia


di Roberto Puglisi

Nel fantasmagorico avviso che precede una raccolta di poesie di Giorgio Caproni (Il conte di Kevenhuller) si legge: “In questo momento giunge alla notizia della conferenza governativa che la campagna di questo ducato trovasi infestata da una feroce Bestia di colore cenericcio moscato quasi in nero, della grandezza di un gosso cane e dalla quale furono già sbranati due fanciulli”.

Per fortuna la pantera di Palermo non è arrivata a tanto e speriamo che mai si riveli, banalmente, nel sangue, qualora decida di dare un segno concreto del suo cammino, al momento dissolto. E dunque, avendo fin qui poche e scarne prove della sua esistenza di cui comunque non dubitiamo – per tenace abitudine al sogno – possiamo trattarla diversamente, evitando di rinchiuderla in una gabbia o nel suo proprio significato. Diciamo che la pantera di Palermo, al momento, è un messaggero degli dei, una metafora, una nuvola felina. Magari un’occasione di autoanalisi collettiva.

Ognuno rimiri la chiazza scura sullo sfondo dello scatto famoso della Forestale, che è sfocata apposta, per destino. Ognuno pronunci la prima parola salita alle labbra. Ognuno la modelli, la riempia come vuole e abbia il coraggio di guardare nella pantera diventata specchio. Reagite secondo voi stessi e qualcosa riceverete, qualcosa saprete circa il rapporto intimo, di stomaco, tra voi e i vostri luoghi di nascita e di vita. Il messaggio sarà subliminale, ma forte. Illuminerà il legame che intercorre tra ogni singolo palermitano e lo straordinario, il prodigioso, la fantastica mutazione. Perché questo è la pantera: un annuncio, una minaccia o una promessa di insoliti cambiamenti.  C’è chi troverà la sua paura, altri, il valore o, semplicemente, nulla. Altri si sentiranno lievemente smarriti e sarà la perdita il senso della caccia.  E voi cosa vedete nel riflesso, volenterosi compagni di caccia, ricercatori di significato?

Va bene, comincio io con l’autoanalisi. Non ha una forma definita il difficilmente scrutabile, la mia pantera, la macchia delle mie sensazioni acquattata nella boscaglia, nascosta e visibile, cacciatrice e preda. Sappiamo per tradizione e leggenda che spesso apparizioni strane e miracolose annunciano un evento epocale, una svolta. Una pantera in giardino è la campanella di fine ricreazione della normalità. Cosa c’è di più strano e miracoloso di una Bestia esotica e nera a Bellolampo? Sì, è un prodigio. E’ Palermo senza la munnizza e senza il traffico (e senza la mafia e senza la fame, etc etc…).  Gli occhi che hanno visto la pantera rivelano a tutti lo spicchio di un accadimento superiore, di un contesto diverso. E poco importa se siano pupille militarmente vigili o suggestionabili. Anche la luce interiore dei veggenti è un segnale di riconoscimento della costa, è la bontà di un approdo. E cos’è la suggestione se non impellenza di rivoluzione?

Resta da capire, in questa nostra scivolosa digressione, di che si tratti. Se la pantera sia il nunzio di uno stravolgimento buono o cattivo, di una resurrezione o di una apocalisse. Colomba di fine diluvio col ramoscello in bocca o cane dell’inferno? Forse dipende da noi. Forse la pantera è apparsa e poi scomparsa per dirci che Palermo è qui apposta per essere cambiata con le nostre mani e col nostro sudore. In fondo abbiamo da perdere soltanto la rassegnata normalità dei cani alla catena.

Come e dove cominciare? Ci soccorre ancora Caproni: “Fermi! Tanto non farete mai centro. La Bestia che cercate voi, voi ci siete dentro”. (Saggia apostrofe a tutti i caccianti)

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Il piccolo disabile e il cucciolo rubato


di Roberto Puglisi

Per sentire questa storia, bisogna smazzarla e dividerla su due piani. Da una parte il comunicato ufficiale, il racconto. Dall’altra, tra parentesi,  il significato.

“I carabinieri di Bagheria hanno proceduto al fermo di indiziato di delitto nei confronti delle sottonotate persone, tra loro sorelle, ritenute responsabili del reato di “furto in concorso, aggravato” poichè posto in essere nei confronti di persona affetta da handicap: Corona Loredana, cl.1982 da Bagheria, operaia, pluri-pregiudicata;  Corona Maria, cl. 1979, da Bagheria, operaia, pluri-pregiudicata”. (E cosa si può rubare a un disabile che scopriremo minorenne? Non puoi rubargli quella che noi stupidi chiamiamo “normalità”, l’imperfetto metro di giudizio con cui misuriamo il mondo. Per rubare qualcosa a un ragazzino che sta così male ci vuole ingegno. E ci vuole anche un cuore cattivo assai).

“Le predette, in data 26.07.2010, alle ore 19.00 circa, per futili motivi connessi ad una lite con una vicina di casa, effettuavano il furto di un cucciolo di cane ai danni del figlio minorenne della stessa, affetto da grave handicap. Il cane veniva strappato dalle mani del ragazzino che lo conduceva al guinzaglio per la pubblica via. Le sorelle Corona, appena commesso il turpe gesto, facevano perdere le proprie tracce al fine di sottrarsi alle indagini dei militari dell’Arma, subito allertata dai genitori del minore nonché da alcuni passanti”. (Ah, ecco. Un cane. Che uno direbbe quasi: che ci importa di un cane. Dipende. Chi ha dimestichezza d’affetto con gli animali sa che sono persone. E che con loro si intrecciano relazioni amorose degne di una vita superiore. Le possibilità di comunicazione sono infinite. Gli animali hanno gesti e sguardi umanissimi. Precipitiamo la circostanza nella vita di un bambino che sta male. Ha solo un cucciolo. Il guinzaglio non gli serve per portarlo, ma per restare attaccato all’amore del mondo. Fanno bene i carabinieri di Bagheria ad indignarsi. Un turpe gesto).

“Solo dopo alcuni giorni – concludono i militari dell’Arma – le sorelle venivano rintracciate presso la propria abitazione: nelle concitate fasi di esecuzione del fermo, le predette profferivano frasi minacciose, all’indirizzo dei carabinieri, motivo per il quale venivano anche deferite per il reato di “minaccia a pubblico ufficiale”. L’ Autorità Giudiziaria (P.M. di turno presso la Procura della Repubblica di Palermo, dott.re Picchi) disponeva la traduzione delle arrestate presso la casa circondariale “Pagliarelli” di Palermo”. (Una sola domanda, perché non è scritto ed è l’elemento più importante della storia, che fine ha fatto il cucciolo di cane? Dalla sua sorte dipende il cammino del suo amico, il cucciolo d’uomo).

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Portate via i bambini da Palermo


di Roberto Puglisi

Palermo si è abituata al cassonetto stracolmo. Lo coccola, lo vezzeggia. Non sente nemmeno più la puzza. Tutto è compiuto.
Sperimentiamo un nuovo tipo di cittadinanza: la sottomissione dei vinti. Le rivolte sporadiche contro chi governa sono le scosse elettriche di un minuto. Questa non è più una città, è un agglomerato urbanistico. E’ una congregazione di case e persone che casualmente si scontrano. E’ un luogo senz’anima e non è neanche bello, secondo le promesse della canzone. Palermo è oscena. L’oscenità non risiede soltanto nella putrefazione delle cose, sta tutta nella nostra assuefazione. Lo spettacolo è visibile, le informazioni ci sono oltre ogni aspettativa. I cassonetti che scoppiano – per citare uno dei tanti esempi di decadimento – sono il sottofondo d’accompagnamento dei nostri spostamenti in macchina. Da Mondello al centro, il pattume si estende con apprezzabile coerenza. Dice: il sindaco, certo. Diego Cammarata dovrebbe dichiarare fallimento, dimettersi e non rilasciare interviste contro una fantomatica campagna di odio, orchestrata da ignoti cospiratori ai suoi danni. Il risentimento che lo circonda è il frutto di una gestione amministrativa scellerata. Questo non giustificherà mai alcuna reazione violenta, beninteso. Ma il minimo che si possa provare per il primo cittadino – sul piano squisitamente politico – è un feroce dissenso dalle azioni che compie e dall’immagine che offre. Siamo ben oltre lo sconsiderato ottimismo del capitano del Titanic che non si avvide dell’iceberg. Siamo alla colata a picco, condita da sorrisi incomprensibili. E mancano – la solita beffa – i soldi per l’orchestrina.
L’attrazione orrida della munnizza di Palermo è un fatto più forte di qualsiasi mistificazione o bugia di Palazzo delle Aquile. Tuttavia, accanto al sindaco non brillano Alcide De Gasperi in sedicesimo. Il prossimo disgraziato inquilino di Villa Niscemi avrà un compito immane. E in giro non scorgiamo nemmeno un quarto di ciò di cui Palermo avrebbe bisogno. La crisi del potere è la crisi della politica. La destra ha strangolato la speranza, presentando un candidato non all’altezza, nonostante una personale buonafede di fondo che riconosciamo a Diego Cammarata e che rappresenta addirittura un’aggravante, un indice puntato contro la sua incapacità gestionale. La sinistra ha strangolato la speranza, non avviando per tempo una riflessione sulla fine e sulla successione dell’esperienza orlandiana. Destra e sinistra, se non pari, sono almeno compartecipi del disastro annunciato.
Uomini, topi e munnizza, ammucchiati alla rinfusa. Questo offre Palermo felicissima che ha perso la sua dignità, intrappolata in una grotta da un malvagio pifferaio magico. Solo un’ultima grazia chiederemmo allora al commendator pifferaio. Torni indietro, suoni il piffero e – come nella favola – porti via tutti i bambini. Nessun bambino merita di crescere qui, nel cuore disperato di Hamelin-Palermo.

da http://www.livesicilia.it

Dire addio a Leoluca


di Roberto Puglisi

Il “SinnacOllanno” continua a dividere. E’ bastato il racconto di una storia – la favola triste del condannato Joe O’ Dell – per riattizzare la contrapposizione tra amanti e odiatori. Non c’è mediazione che tenga: i giudizi sono draconiani. Ottimo o pessimo, con qualche punta di moderazione. E’ che Palermo non ha mai risolto il rapporto con questo suo padre nobile e ingombrante. E’ rimasta traumatizzata dai cingolati del passaggio orlandiano. Dopo, boccheggiando, la città ha desiderato un sindaco di basso profilo e l’ha votato. Tardi si è accorta della clamorosa svalutazione.  Il prescelto non era nemmeno un sindaco.  L’errore è dipeso proprio dall’antico e ruvido sfregamento emozionale con la figura di Leoluca Orlando detto Luca. Ci siamo svegliati dopo una sbronza colossale di Europa, di antimafia, di sogni e di cultura. Era naturale andare a sbattere.
Il lato tragicomico è nella probabile ripetizione. Ci infrangeremo di nuovo contro qualche parete liscia,  senza prima aver risolto la natura del nostro legame psicologico con l’era orlandiana, col Leoluca padrone della nostra speranza, legittimo spacciatore di svolte e grandezza, fantasma che di tanto in tanto ritorna.

Il finale è evidente. Il “SinnacOllanno” non  ha cambiato Palermo. La sua rivoluzione si è arenata, per un errore capitale che è anche una caratteristica del’uomo: l’egocentrismo. Leoluca Orlando non ha preparato il ricambio, non ha permesso che una buona classe dirigente studiasse per la successione. Ferocemente, ha decapitato ogni possibile delfino. Un re senza erede prepara il suo reame a un futuro grigio. La rivolta orlandiana ha indicato la strada,  non ha saputo percorrerla fino in fondo. Ha meritoriamente ricusato la “natura per forza mafiosa” della capitale che ha amministrato, ha disegnato un avvenire senza padrini. Tuttavia, nonostante i magnifici orizzonti segnati a dito, i conti nel quotidiano, a un certo punto, non sono tornati più. La linea del sogno – specialmente nell’ultima parte del mandato complessivo – si è identificata con una pallida linea di galleggiamento, in un clima di crespuscolo da basso impero. Palermo è stata straziata da una realtà schizofrenica, contesa tra la scenografia di eventi mondiali e le quinte di un mondo putrefatto. Abbiamo capito – era il motto di una rassegnata fatalità -: non è mutazione, è maquillage, è cipria sul volto di un cadavere. Ecco perché non abbiamo creduto più alle promesse che alzavano la posta in proporzione inversa col precipitare di ogni cosa verso il suolo.

Eppure, nel bene o nel male, la stagione di Orlando è stata l’estate, non la primavera, il canto di cicala della nostra dignità. Per la prima volta, i palermitani hanno pensato al miglioramento, alla diversità possibile. Si sono smarriti nel vagheggiamento di una verità capovolta rispetto al passato. E ci sono stati fermenti che hanno corroborato la felicità pazzesca di una salvezza finalmente a portata di mano. La trama di Orlando si è limitata alla visione onirica di una Palermo celeste e irrealizzabile, dicono i suoi detrattori. In essa è annegata.  Non è già un titolo di merito?

Quella stagione, nel bene e nel male, fu migliore di questa, rassegnata, sporca e umiliata. Qualcuno può affermare serenamente il contrario? Migliore – con tutte le sue macroscopiche pecche – nei fatti, non solo nelle promesse. Ma è una stagione finita. Non tornerà, nelle sue forme e nei suoi riti.  Ricercarla, uguale,  con gli stessi protagonisti sarebbe un secondo errore, più deleterio della rielezione di  Cammarata. Se svolta sarà, un giorno, non avrà più il viso e le parole del “SinnacOllanno”.
E la città di Palermo, che odia sempre ciò che un tempo ha amato per inconsolabile e incongrua doglianza, riuscirà mai a farsene una ragione?

da http://www.livesicilia.it

Come eravamo diversi quando ancora c’era Joe


di Roberto Puglisi

Quest’uomo che fu sindaco nostro e della speranza – malinconico o perplesso nello scatto – può essere benedetto o inchiodato con diversi aggettivi, tutti forse legittimi. Ma a distanza di anni, vorrei dirgli grazie per un dono, uno soltanto. Per avere preso per mano e condotto a Palermo il corpo e l’anima di Joseph O’ Dell – condannato a morte e assassinato in Virginia – per averlo trapiantato qui, nel cuore di tutti. E il dono resta, anche se non ne siamo stati degni.
Joseph detto Joe fu ucciso con un’iniezione letale il 23 luglio del 1997, tra un po’ sarà compleanno.  Pochi giorni dopo, per volere di sua moglie, Lori Urs, e ostinazione di Leoluca Orlando, conobbe la pietosa sepoltura di Palermo, una delle città che più l’aveva amato e che più si era battuta contro un’esecuzione non suffragata dalla certezza. Ma c’era molto altro dietro la partecipazione che ci teneva svegli le notti. Gli occhi di quell’uomo avevano attraversato l’oceano e si erano impressi in una zona molle della nostra sensibilità. Vittorio Zucconi di “Repubblica” scriveva articoli che ci portavano Joe, un estraneo,  in casa. Si compì il miracolo della vicinanza con uno talmente lontano.  Lui, Joseph, diventò uno di noi. Colpevole o innocente, non saremmo rimasti indifferenti per la sua sorte. Non avremmo permesso la sua esecuzione senza battere ciglio, senza un grido. E, in quella età mezzana dell’estate, Palermo si vide finalmente cambiata, all’apice del suo rinascimento. Palermo, come una persona unica, sapeva amare e consolare, sapeva allargare le braccia e stringere per confortare, poteva essere un punto di riferimento: da capitale della mafia a roccaforte della dolcezza. Palermo amava e soffriva gratis per un milite ignoto della condanna capitale.

Sono tornato un paio di anni fa sulla tomba di Joe, che mi tenne sveglio per più di una notte, a Santa Maria di Gesù. Una lapide spoglia. Anche le ultime mani che portavano fiori si sono dileguate. Ho tentato di accarezzare la pietra tombale, come si accarezza un viso, per cercare un contatto, per ritrovare il me stesso di allora. Niente, nemmeno una stilla di pietà, neanche un battito. Forse siamo cambiati tutti e con noi è mutata Palermo. Ha smarrito la compassione, per diventare sporca, feroce e raminga. Magari è solo tempo che passa. Ieri la nostra bandiera era Joe ‘O Dell, oggi il nostro simbolo è una pantera che si aggira tra i boschi. Ed è già nobile, perché poi c’è la munnizza. Colpa di chi? Forse pure dell’uomo della foto e dei sogni che non seppe inverare, delle promesse che non riuscì a mantenere. Forse pure nostra, perché scambiammo il sindaco per un Mago di Oz. Intanto, il guaio è fatto. Abbiamo dato il cuore in pasto alla smemoratezza. Ecco perché fissare gli occhi dell’uomo della foto è un gesto che riflette di sponda malinconie assortite. Mette tristezza.
Riposa in pace Palermo. Addio Joe.

da http://www.livesiiclia.it

“Caro lettore, ascolta”


di Roberto Puglisi

Che cos’è la libera stampa? E’ un dovere, è la nobiltà di un servizio, è la qualità di privilegiati maggiordomi che portano piatti fragilissimi di porcellana col cibo della democrazia. C’è chi – all’interno della professione giornalistica – ha svilito il concetto basilare della medesima. C’è chi ha continuato per anni a ripetere le solite frasi ed è annegato nella sua stessa retorica. C’è chi ha coperto piccoli e squallidi commerci con la prosopopea. E che pena e che orrore gli organismi della categoria.
C’è chi ci crede ancora. Ci sono giornalisti che hanno smesso di sperare e calcolano i minuti mancanti alla pensione. Ci sono giornalisti che si alzano ogni mattina, pazzi di felicità perchè potranno raccontare la vita che li incontrerà per strada.

E come farai tu, Lettore, a orientarti non solo nella questione per cui oggi la stampa sciopera – il rovaio della norma sulle intercettazioni – ma più in generale sulla direzione e circa la rotta delle parole che noi scriviamo e che tu leggi? Come diamine si capisce se dietro una frase c’è il tentativo onesto di raccontare i fatti, o il secondo fine di un interesse personale di parrocchia? Questo è il nesso tra la faccenda delle intercettazioni e il resto. Non valgono i discorsi astratti sulla libertà. La domanda complessa a cui rispondere, dopo una giusta protesta, è un’altra: i giornalisti italiani sono degni, al cospetto dei loro lettori, dei diritti che reclamano? Quei diritti sono funzioni fondamentali da esercitare come un bisturi, con delicata sobrietà. Troppi li rivendicano per servirsene male, per disprezzarli, per distruggere la credibilità di una missione in crisi di sostenitori.
La stampa che vuole essere indipendente, e ha ragione sul punto, si è mai interrogata seriamente sulla disciplina della libertà e su certe compromissioni pericolose col potere che contesta talvolta per il gioco delle parti? Sa meritarsi, in ogni circostanza, la sacrosanta inviolabilità delle sue prerogative? Se ogni persona ha come vincolo e confine delle proprie azioni il rispetto degli altri, ciò non dovrebbe valere per un giornale che possiede centomila cannoni in  più dell’uomo comune? E quanto è difficile trovare la giusta misura: il sentiero di mezzo tra lo schiacciamento della dignità altrui e la compiacenza del silenzio. E’ faticosa la pozione del giornalismo perfetto, l’alchimia di chi intende raccontare e rispettare. Non si può tacere, però non è nemmeno lecito travolgere a torto, nella corrente delle informazioni, la vita degli altri.

Caro Lettore, chi scrive potrebbe raccontarti la storia di Livesicilia e sentirsi a posto con la coscienza. Senza retorica né prosopopea, il giornale che leggi si sforza di essere onesto, grazie a un direttore onesto. E non è inutile ripetere due volte la pulizia dello stesso aggettivo. Tentiamo di sbagliare il meno possibile. E ci alziamo, ogni mattina, pazzi di felicità per il nostro mestiere. E’ una regola che vale per chi scrive, con la sua minima esperienza, e per i giovani giornalisti che animano il nostro quotidiano e rappresentano per noi un motivo di orgoglio e di affetto. Tuttavia, non sarebbe giusto descrivere lo stoppino acceso senza la penombra.

Esiste la corruzione di un giornalismo asservito. Esiste l’ignavia. Esiste la mancanza di coraggio Esiste pure l’arroganza, l’ignoranza di chi non conosce il valore del materiale che maneggia. Che si può fare per esorcizzare il male, la sottrazione di credibilità che allontana gli occhi dalle pagine? Che si può fare per difendere il percorso dei cronisti onesti? Nel giorno in cui la stampa si ammanta di silenzio e di scioperi contro una legge iniqua Livesicilia sceglie la via di mezzo. Secondo noi lo sciopero è un controsenso. Come mettersi il bavaglio da soli. Ma non rinunciamo nemmeno alla solidarietà della categoria. Oggi pubblichiamo uno speciale sul tema. Terremo la nostra comunità di lettori sommariamente informata, con tre finestre di notizie: una mattutina, una pomeridiana, una serale.

Forse dovremmo pure chiederti scusa,  Lettore così simile a noi nelle speranze e nei sogni, per averti costretto ad ascoltare troppo le nostre lagnanze. Abbiamo comunque un alibi.  Sono anche problemi tuoi: la libertà è la ferita aperta di tutti. Perfino di coloro che si sentono già sani e salvi. E sono soltanto ciechi o indifferenti.

da http://www.livesicilia.it

La peste di Palermo


di Roberto Puglisi

I segni dell’evento terribile sono alle porte. Una pantera si aggira tra i boschi, come una divorante premonizione. Le meduse hanno invaso in massa lo scirocco e il mare di Mondello. Il Festino sarò fritto e mangiato come un cibo di poco conto. E non avrà nemmeno la povera dignità delle cotture di strada: cibo masticato, sputacchiato e rimasticato. Apocalisse Palermo. Le trombe già suonano e l’annunciano. Ma andiamo oltre con lo sguardo ironico e atterrito, perché a Palermo infelicissima ogni tragedia reca le stimmate del comico, del paradosso. E osserviamo, sorridendo con dolore, o dolendoci con un sorriso, la munnizza che non è mai sparita dalle strade, la povertà delle gente, la tristezza delle ragazze (Severgnini), lo sbando delle periferie, la decadenza del centro, la dissolvenza di ogni ipotesi di cittadinanza possibile. Forse dovremmo viaggiare più spesso. Partire e tornare, per aprire gli occhi davvero. Per scorgere la profondità delle cicatrici che noi stessi abbiamo inflitto ai nostri luoghi, ai nostri amori, alle nostre speranze. Un grido soccorrerebbe allora il nostro stupore, un gemito come una risacca. Un’esclamazione antica per scongiurare la peste, nemica eterna: Rusulia….

Si sta bene nel santuario di Nostra Signora Rosalia. E non è la fede cristiana soprattutto a condurti qui. I palermitani acchianano perché vogliono confidarsi con qualcuno. La fanciulla sul monte sa ascoltare. A valle, labbra serrate e padiglioni auricolari sigillati dalla ceralacca dell’indifferenza.

Acchiano pure io, ed è già luglio,  in cerca di una doppia frescura, del corpo e dell’anima. Ho smesso di credere in Dio da quando ero ragazzo. Col tempo, l’ateismo è sfumato in una sorta di perplessità piena di trasalimenti: attimi di commozione e preghiera, giornate di cieca rabbia. Acchiano lo stesso perché so che Rusulia è qui, si tratta di una certezza che ogni palermitano succhia col latte della madre. So che non è mai morta, si è appena trasformata. Che potrei riconoscerla in quella ragazza dai capelli corvini e dai jeans sdruciti che mi precede di qualche panca. O in uno schisto brillante della nuda roccia. O in un fiore dai petali bianchi. O nelle parole di una vecchia preghiera che mi sforzo di biascicare.

Intorno, sono sbocciati bigliettini. Richieste , qualche ringraziamento. Si supplica per la guarigione degli occhi, delle braccia, e non per la salvezza del cuore. I pizzini della Santuzza si accarezzano con discrezione. E’ come mettere le dita nell’anima sudata delle persone che affidarono a una tenera bottiglia di carta un fragile messaggio di aiuto. Qui, nella frescura del corpo e dello spirito, Apocalisse Palermo sembra lontana, con il suo caldo, i suoi furori e i suoi orrori. La peste si dilegua, lasciando trasparire fessure di gioia. E’ una notizia. Che ci importa del Festino una volta all’anno? Ogni giorno esiste la possibilità di rinascere nell’unico luogo in cui Palermo ritrova se stessa. Nessun altro ha un miracolo così a portata di passo. Basterebbero pochi minuti alla settimana, protetti nell’intercapedine del santuario di Rusulia, per ritrovare la speranza che a valle è una chimera, o una bestemmia. Da quassù la resurrezione, per vie straordinarie che non so spiegare, appare certa più che probabile. Scendi, prima o poi – meglio poi – col sentimento guizzante della rinascita e dell’appartenenza a qualcosa che merita di essere migliore.

A valle, ci sono le fauci di una pantera metaforica che dovrebbe farci più paura di quella in carne e ossa. Apocalisse Palermo, sì. I segni si vedono nettamente, perfino da quassù. Però si inala il sogno del riscatto che sempre accompagna la bellezza sbocciata dove non te l’aspettavi. Il problema è portarlo laggiù, quando la strada del monte sarà diventata la malinconia un quaggiù che occhieggi di sbieco.
Almeno si può scolpire un intaglio del passaggio e della voce che si ascolta, inaudibile altrove. Io l’ho fatto, perché non credo, con l’ardore dei pazzi. Ho preso un pizzino e l’ho lasciato sulla nuda roccia, accanto a un fiore. Se lo trovate, c’è scritto: “Rusulia, ti amo”

da http://www.livesicilia.it