L’amore e basta


di Daniela Domenici

Ieri sera abbiamo avuto il piacere di assistere, all’Arena Argentina a Catania, alla proiezione del film “L’amore e basta” di Stefano Consiglio che ne è anche il regista, la perfetta colonna sonora di Rocco De Rosa, le splendide animazioni di Ursula Ferrara e con un’introduzione di Luca Zingaretti che recita, in apertura, un testo di Aldo Nove.

Non è un film nel senso più classico del termine cioè la narrazione di una storia con un inizio e una fine ma è un racconto “corale”: il film narra le storie d’amore di nove coppie gay e lesbiche, italiane e non, che hanno accettato di raccontare il loro amore al regista.

Inizia da Alessandro e Marco, due studenti universitari di Catania (che ieri sera erano presenti, insieme al regista, all’arena Argentina), e continua con le quarantenni Nathalie e Valérie (e la loro figlioletta Sasha) che vivono a Versailles. Poco distanti, a Parigi, vivono Catherine e Christine, due sessantenni che stanno insieme da vent’anni. Poi ci sono Lillo e Claudio, che da diciassette anni vivono insieme a Sutri, un piccolo paese vicino a Roma. Ci si sposta quindi a Berlino dove, da diversi anni, vivono felicemente i quarantacinquenni Thomas e Johan. Da sette anni, altrettanto felicemente, stanno insieme Emiliana e Lorenza nella loro bella casetta, con tanto di giardino, nella Bassa Padana tra Parma e Mantova. Sono addirittura trenta gli anni del sodalizio amoroso e professionale di Gino e Massimo che incontriamo nel loro negozio/laboratorio di oggetti in pelle nel cuore di un quartiere popolare di Palermo. Un’altra coppia che vive e lavora insieme da tanti anni è quella formata da Gaël e William, filmati nel loro ristorante nel 14° arondissement di Parigi. E infine le “coniugi” spagnole Maria e Marisol (legalmente unite in matrimonio non appena è stato possibile) che vivono in campagna a Vic, vicino a Barcellona, con la loro prole formata da un maschietto di otto anni e due gemelline di sei.

“…Sorridono senza esitare, esprimono la dignità di chi ha raggiunto la pace di una famiglia non tradizionale ma ugualmente bilanciata e vitale. Riflettono su adozioni, tradimenti, sensi di colpa… L’universalità dell’amore schiaccia le diversità e gli emarginati – o quelli che vengono considerati tali – diventano protagonisti di un’elegante inchiesta sul fidanzamento ‘a lungo termine’. In mezzo ai sentiti ricordi dei primi batticuore si inseriscono i pianti, i tremori e la rabbia per la sofferenza di non vedere garantito il diritto al matrimonio (almeno in Italia, ma Consiglio porta l’esempio di una coppia spagnola sposata) o i dubbi sull’adozione di un bambino che crescerà senza figura paterna. Anche la religione diventa una questione di fede personale. E gli omosessuali rivelano una spiritualità privata che crede nell’esistenza di un dio ma senza aderire all’integralismo di un dogma particolare: Dio ama e accoglie tutti, gli uomini sbagliano e creano stereotipi e discriminazioni…Nicoletta Dose”.

Ci perdonerete se, per una volta, abbiamo preso in prestito le parole di una collega ma ci sono sembrate così “nostre” che non abbiamo voluto aggiungere altro, riescono a dire esattamente quello che avremmo voluto esprimere noi dopo esserci emozionati alla visione del film: la delicatezza dei toni usati dal regista nelle sue domande che non sono mai banali né scontate, i sorrisi e la tenerezza che affiorano in ogni risposta di tutte le coppie intervistate fanno concludere sempre con le parole di Nicoletta Dose: “…Ma Consiglio ci dice una cosa precisa: quello che conta è innamorarsi, tra etero e omosessuali, senza fare distinzioni. E basta”.

L’amore di Kyria


di Daniela Domenici

Si è da poco conclusa, nella stanza del sindaco di Priolo (SR), Antonello Rizza, la conferenza stampa per la presentazione del film, le cui riprese stanno per essere terminate, “L’amore di Kyria”.

Caratteristica principale di questa pellicola è l’essere quasi completamente siciliana eccetto che per la presenza di due “forestieri” come Philippe Leroy e Francesco Paolantoni.

L’autore della sceneggiatura è Antonio Zappalà, in arte Zeta, alla sua prima opera cinematografica, il regista è Carlo Simone Tranchida, anche per lui un’opera prima, lo scenografo e costumista è Riccardo Perricone, l’autore delle musiche è Giuseppe Furnari e il direttore della fotografia Dario Germani. Il produttore esecutivo è Luigi Augelli, anche lui, come tutto il cast tecnico, autoctono siciliano il quale ci ha dichiarato che il film ha avuto il sostegno economico di una serie di imprenditori priolesi, siracusani e catanesi.

A parte i succitati Leroy, nel ruolo di Cosmos, un personaggio un po’ misterioso, e Paolantoni, quest’ultimo protagonista maschile del film, brillano nel cast i nomi di Francesca Ferro, protagonista femminile, Guja Jelo che interpreta la moglie di Paolantoni e, tra gli altri (ma ci dispiace se non li citeremo tutti ma rimedieremo appena avremo il cast completo), Lorenzo Falletti, Mara Di Maura, Emanuele Gullotto, Angelo Russo.

Il film è stato interamente girato in provincia di Siracusa.

La trama in breve come l’ha raccontata il regista in conferenza stampa: è una commedia brillante ma non comica, nasconde dell’amaro, una profonda solitudine dei protagonisti, ognuno è racchiuso nel proprio mondo. Elemento che sconvolgerà la vita di tutti è uno spirito, Kyria appunto, interpretato dalla Ferro che, dopo essere stato condannato a rimanere chiusa in uno scrigno per 200 anni, torna sulla terra e, attraverso varie vicende, sconvolge gli equilibri delle vite dei protagonisti ma non vi diciamo come va a finire, come ha concluso Tranchida, altrimenti non andrete a vederlo nei cinema quando uscirà tra poco.

Panico al villaggio: la fantasia che batte il 3D


di Laura Croce

Semplice, folle e geniale l’animazione in stop-motion made in Belgio e firmata da Stéphane Aubier e Vincent Patar.

Una scena del film
Fonte: immagine dal web

Mentre nel mondo impazza la mania per

l’ultimo capitolo in 3D di ‘Toy Story’ – la saga animata che ha lanciato la Disney Pixar – nella vecchia Europa c’è chi continua a credere negli effetti speciali tipici della mente umana, ovvero la fantasia. È senz’altro questo il concetto più adatto a riassumere il senso di un film come ‘Panico al villaggio’, basato su una serie televisiva belga e così apprezzato a livello internazionale da aver partecipato al festival di Cannes (cosa che non succede spesso per i prodotti di animazione) ed essere stato nominato all’Oscar.

In Italia era già arrivato grazie all’ultimo

Future Film Festival di Bologna, che gli aveva riservato il primo premio. Ora, la nuovissima casa di distribuzione Nomad Film (nata soprattutto per portare nel nostro Paese il cinema francese, o francofono, esordiente e d’autore), azzarda un’uscita nel difficile periodo delle prime afe estive, che sicuramente non premieranno un’opera degna di ben altro pubblico e ben altra attenzione.

‘Panico al villaggio’ è una sorta  di cimelio,

un prodotto d’artigianato che piega al surreale e al non-sense la sempre meravigliosa tecnica della stop-motion, capace di dare vita a mondi immaginari davvero incredibili, forse più limitati ma anche più veri e palpabili di quelli ricreabili attraverso il disegno o la computer grafica. Per quanto le animazioni fatte con i pupazzetti di plastilina siano per forza di cose meno fluide e ‘libere’ di quelle tradizionali, questa pratica, consacrata al cinema da Tim Burton con l’idea di ‘Nightmare before Christmas’ (e più recentemente da ‘Fantastic Mr Fox’ di Wes Anderson) tende a suscitare di per sé  grande ammirazione per l’enorme pazienza, mole di lavoro e abilità richiesta da ogni singola scena sullo schermo.

La plastilina, inoltre, contribuisce a rendere più concreti i personaggi e le

ambientazioni: è come un microcosmo in cui l’immaginazione pura – tipica dei cartoni animati – si unisce a una fisicità che sembra avere un suo peso materiale. Tutti questi pregi innati della stop-motion, in ‘Panico al villaggio’ sono esaltati all’ennesima potenza attraverso un continuo gioco tra il possibile e l’impossibile, l’assurdo e il verosimile, che si intrecciano imprevedibilmente dando vita a momenti di ilarità incontrollabile, ancestrale e allo stato brado.

L’idea di partenza è già abbastanza folle: il villaggio del titolo è una

comunità formata da tanti tipi di giocattoli. A differenza di ciò che avviene usualmente, i personaggi in plastilina non tentano di riprodurre un contesto ‘reale’, ma mirano senza fronzoli all’artificialità più assoluta. Ogni protagonista del film ha le fattezze dei pupazzetti di plastica che tutti abbiamo avuto da piccoli, andando a solleticare da subito il lato bambino e regressivo anche dello spettatore adulto.

Questi giocattoli non si comportano però come tali (vedi ‘Toy Story’) ma

come normali esseri umani; un po’ svitati, ma pur sempre esseri umani. Tutti gli omini, come il contadino, l’indiano e il cow-boy, si muovono in piena libertà, ignorando spesso la caratteristica base di colore verdolino che hanno sotto i piedi in quanto pupazzetti, e perfino il protagonista assoluto, il cavallo, assume con tranquillità pose antropomorfe del tutto inconcepibili. Un’originalità a dir poco essenziale, che permette di creare un universo ancora più surreale di un racconto di Lewis Carroll, sospeso al confine tra diverse categorie mentali da sradicare, completamente proiettato verso l’infanzia e il suo potere creativo.

A questa intuizione di partenza si aggiunge una storia semplice e senza

senso, che vede i giocattoli impegnati in situazioni in equilibrio tra il demenziale e il dannatamente geniale. Assistiamo così a trovate fuori di testa, come un gigante pinguino meccanico guidato da tre scienziati pazzi per lanciare enormi palle di neve a lunghissima distanza, mostri sottomarini che emergono in superficie per rubare i muri delle case, battaglie a suon di mucche volanti e sferzate di pesce spada. Il tutto bilanciato da gag più tradizionali, come un telefonino che squilla ovunque – perfino al centro della terra – due comprimari tonti che fanno da spalla al più serio protagonista e altri elementi comici classici. Non mancano neanche piccole denuncie, come il personaggio del poliziotto pronto a sbattere chiunque in una prigione di massima sicurezza pur di chiudere in fretta un caso difficile.

È innegabile che il calderone sia complesso e spesso confusionario. Ma si

tratta di un caos creativo così fecondo che sarebbe davvero un crimine  ghettizzare il film nella categoria ‘per bambini’. Anzi, forse la visione di ‘Panico al Villaggio’ non è tanto essenziale per i più piccoli – che sono ancora capaci di inventare storie lontane da formule  narrative e soluzioni precostituite – quanto per i più grandi, che hanno perso per strada la facoltà di fantasticare e di evitare gli stereotipi.

SCHEDA:

Titolo originale:

Panique au village

Produzione:

Belgio, Lussemburgo, Francia 2009

Regia:

Stéphane Aubier, Vincent Patar

Cast (voci originali):

Stéphane Aubier, Jeanne Balibar, Nicolas Buysse, Véronique Dumont, Bruce Ellison.

Durata:

75′

Genere:

animazione

Distribuzione:

Nomad Film

da http://www.nannimagazine.it