“L’attesa”


da “Il colore dei giorni di un ergastolano” di Sebastiano Milazzo

Nessuno più urla

nessuno più si ribella

tutti indugiano

tutti rimandano

tutti rinunciano.

Cosa ci ha condotto

tanto lontano?

ci deve essere

qualcosa di diverso

per andare oltre.

Prima di sprofondare

nel grande sonno

vorrei sentire

almeno il grido

di una farfalla.

“Sono e sarò per sempre vivo…” di Claudio Crastus


Il silenzio, in queste ore notturne, è meraviglioso, ti scava nell’anima senza tregua…Sono consapevole di essere uno dei pochi fortunati: ho la capacità di trascrivere ciò che mi detta il cuore, il dolore, la gioia di svegliarmi in un nuovo giorno che comunque mi trasmetterà qualcosa. Anche il solo fatto di essere sveglio, mentre tutti dormono, mi carica di una volontà fortissima. Scrivo ciò che all’istante provo, sento, di cui soffro o gioisco.

Ed ecco il vento che, in questo deserto, assume la veste di consigliere o comunque scuote l’uomo che dorme, lo sconfitto a lottare senza tregua.

Non me ne andrei da qua nemmeno se i cancelli fossero tutti aperti, ormai ho capito che essere liberi non significa esclusivamente avere la facoltà di muoversi a proprio piacimento. Se riflettessimo solo un attimo, capiremmo che tutto il mondo “civilizzato” è comunque prigioniero di una condizione. Nessuno, se non un selvaggio, può essere libero anche nell’animo. Ed è nell’animo che io sono ritornato selvaggio, libero dalla schiavitù degli schemi, scrivendo la mia sconfitta, la mia agonia e di conseguenza della mia rinascita in un mondo nuovo che è quello che mi costruisco secondo i miei desideri e le mie aspettative. Se comunque ho preso coscienza che essere liberi significa esserlo dentro di sé, questo non può bastare, ora voglio rinascere. Ed è così che rinasco: con la voglia prepotente di gridare al mondo che sono e sarò per sempre vivo, anche quando non sarò più fisicamente presente, anche quando questi uomini piccoli piccoli, che si accontentano delle loro piccole cose materiali o immediate, non ci saranno più. Non posso accettare come mia questa condizione da murato vivo, non permetterò a nessuno di farmi scomparire nel silenzio di queste mura insensibili. Lotterò fino all’ultimo mio sogno.

Mi chiedo se le mie figlie leggeranno mai ciò che scrivo nel mio esilio, col cuore colmo di rammarico per non averle potute amare come desideravo. Se mai accadesse, voglio che loro sappiano che il loro papà decide di rinascere nei suoi scritti proprio perché vuole lasciare qualcosa di speciale per loro. Qualcosa che vada oltre le banalità della vita quotidiana, che rimanga come scolpito nei cuori, il ricordo dell’immenso amore murato che avrei tanto voluto dar loro, ma che appunto non mi fu concesso per aver commesso un tempo errori irreparabili.

Dal primo capitolo del diario, ancora inedito (speriamo per poco), di Claudio Crastu


Vi prego di dedicare un secondo della vostra attenzione a queste parole atrocemente dolorose del diario di questa persona che ha vissuto molti anni della sua vita da detenuto e che è morto molto giovane un anno fa lasciando molte raccolte poetiche e tanto altro materiale su cui riflettere…

…Ho atteso un’infinità di tempo prima di capire che è necessario che io, comunque, continui a vivere in questi fogli, perché la mia vita non resti un fiore appassito prima di dischiudersi.

Voglio gridare a tutti che vivrò i miei giorni senza nascondermi perché, sebbene io stia morendo aggredito da un male feroce, non posso fermarmi, non mi è concesso stare passivamente ad osservare i miei giorni svanire, senza aggredire a mia volta quella creatura orrenda che mi corrode dentro, spietata e senza controllo.

Desidero lasciare qualcosa che vada oltre lo stesso esistere, allo scopo che chiunque non mi abbia conosciuto sappia che sono esistito e che, nonostante tutto quello che ho commesso, sono un ragazzo di trent’anni che ha passato gli anni più belli a torturarsi, a ferirsi, ad ammalarsi, con una sporca mercanzia, in strade colme di gente indifferente, che si accorgeva di me solo quando gli rubavo qualcosa

La metamorfosi, fiaba di Claudio Crastus


In un bosco fitto di vegetazione, in un paese sradicato dal mondo, tra le incavature e le radici degli alberi secolari, viveva il popolo delle formichine azzurre. Erano bellissime, potevano essere più di sette milioni ed erano una per una e tutte per tutte: praticamente tutte insieme erano invincibili.

La loro vita si svolgeva da sempre con ritmi e percorsi identici: erano abitudinarie e gran lavoratrici.

Passavano gran parte del loro tempo a riempire le immense dispense di viveri per assicurarsi la sopravvivenza nell’inverno freddo e crudele che sarebbe giunto da lì a poco.

All’interno di un’immensa quercia vi era il loro quartier generale, una città meravigliosa ricavata da una sorta di scala a chiocciola scavata e lavorata nel legno. Ad ogni gradino vi era l’abitazione di una famigliola; tra un gradino e l’altro, invece, vi erano le campanelline d’allarme, così che in caso di emergenza chiunque era in grado di avvisare le altre dell’imminente pericolo. Ogni mattina verso le 6.00 si incamminavano verso un torrente per rifornirsi d’acqua potabile; tutte insieme “armate” di secchielli e pale (quest’ultime per scavare il terreno alla ricerca di cibo) cantavano in coro le belle canzoni imparate da bimbi.

Tra queste formichine vi era un gruppo di giovani che non aveva tanta voglia di alzarsi presto e di lavorare, ma che comunque con gli occhi appena socchiusi seguiva in fila i più laboriosi. Spesso borbottavano tra loro che la vita delle formichine era grama e faticosa e che vi erano poche feste e divertimenti.

All’udire queste lamentele gli altri si giravano e, canzonandoli, li facevano passare avanti tra loro, in modo da incoraggiarli ad affrontare la giornata che li attendeva.

Un giorno, mentre erano intenti a lavorare, giunse un violento acquazzone che le sommerse d’acqua e fango; le immense gocce cadevano sulle loro testoline come grandi macigni, e di lì a poco buona parte di esse annegò nelle pozzanghere. I sopravvissuti erano riusciti ad aggrapparsi a dei rami: galleggiavano sull’acqua e osservavano i corpicini dei compagni esanimi e li piangevano.

Mentre erano in balia della corrente, disperati, ecco giungere una ranocchia, la quale sopra una grande foglia osservava la desolazione delle formichine. Appena si accorsero della sua presenza, tutte insieme gridarono: “Aiuto! Aiuto! Ranocchia bella, per favore, portaci sulla terraferma, altrimenti annegheremo”.

Udendo la loro supplica, la rana si commosse e aiutò le formichine scampate al diluvio.

“Tenetevi forte, si vola!” gridò tutta felice, mentre con tutte le formiche aggrappate alla sua schiena saltava tra le pozzanghere enormi.

Non appena furono sulla terraferma, le formichine ringraziarono la rana e si incamminarono verso la grande quercia per dare la notizia della tragedia avvenuta. Giunti a destinazione a tarda sera, quando furono davanti alla loro dimora, non trovavano il coraggio di entrare. Ciononostante, dopo qualche minuto si fecero coraggio l’un l’altra e pian piano salirono nell’incavatura principale della quercia.

Appena furono di fronte al primo campanellino d’allarme, incominciarono a tirare forte la corda e in tutta la quercia si diffuse l’eco del suono: “Din, din, din…”. Così nel giro di dieci minuti svegliarono tutte le altre formichine. A drappelli si affacciavano dalla infinita scala a chiocciola, tutte assonnate, con i pigiamini di lana, le pantofole, i cappucci per scaldare le teste, borse d’acqua calda, ecc., chiedendosi cosa fosse accaduto di così grave per essere svegliate in piena notte.

Osservavano in attesa di una spiegazione il nugolo di sopravvissuti che non riusciva ancora a proferire parola, sopraffatto dal pianto.

Di lì a breve tutte le formichine furono sull’entrata della quercia a domandare cosa fosse accaduto e dove fossero le altre formiche lavoratrici.

Dopo un interminabile minuto di silenzio assoluto, una voce si elevò nell’atrio: “Siamo state sommerse dalle acque: un violento acquazzone ci ha colte di sorpresa, inaspettato, devastante; noi siamo tutto ciò che rimane della spedizione”.

A queste parole seguì un lungo silenzio; tutti i parenti delle vittime della tragedia si incamminarono con il loro dolore verso le loro case. Gli scampati al pericolo furono accolti nei loro nuclei familiari con gioia e trepidazione.

Trascorsero molti anni e la vecchia quercia era sempre più bella, non solo esternamente, ma soprattutto al suo interno.

Quello che stava arrivando era un inverno gelido e tutte le formiche si erano assicurate che non mancasse proprio nulla dalla scorta, dal cibo all’acqua, alla lana e alla seta, ai vari tipi di tabacco da pipa, ai giochi per i più piccini, al materiale per l’istruzione e via via tutto l’occorrente.

I falegnami avevano scavato all’interno della quercia altre stanzette, una sorta di classi di scuola ove i più piccoli potessero trascorrere le giornate in modo sereno e costruttivo.

Quando incominciò l’anno scolastico, tutti i piccoli delle formiche , forniti di tutto punto di cartelle, astucci con matite, quaderni, penne e libri, si presentarono all’entrata della scuola, ove attaccate sul portone si potevano vedere dei bachi che in seguito sarebbero mutati in farfalle, ma questo ancora i piccoli lo ignoravano. Il primo giorno di scuola fu sereno; la vecchia professoressa fece l’appello per conoscere i nomi di tutti gli alunni. All’ultimo banco, in un silenzio impenetrabile, vi era una formichina orfana di padre e di madre; non sapeva più cosa fosse un momento di gioia, lo stare insieme con i compagni di gioco: a lei piaceva dipingere fiori bellissimi e viveva esclusivamente per i suoi colori.

Un giorno, ad anno iniziato, fuori dalla grande quercia giunse un piccolo ranocchietto che era stato abbandonato forse senza volere dai genitori, anzi: sicuramente non era stato abbandonato, ma si era semplicemente perso! Le formichine azzurre dalle loro torri di vedetta scorsero quel piccolo essere

smarrito e, vedendo che era incapace di provvedere a se stesso, lo fecero entrare nel loro regno.

Il capo delle formiche era un tipo barbuto con capelli arruffati; si diceva che fosse colto, intelligente, saggio e tutti i suoi sudditi si domandarono che cosa gli frullasse in testa quando intimò di inserire il ranocchio nella classe dei più piccini, ma nessuno azzardò chiedergli nulla.

Fu così che avvenne l’incontro tra le formiche azzurre e il ranocchietto.  osservandolo, le formichine si resero conto che era incapace di esprimersi, così incominciarono a deriderlo e a isolarlo: erano convinte che la malattia del ranocchietto contagiasse tutte. Avevano il terrore di non riuscire più a esprimersi e così lo lasciarono nell’ultima fila, accanto alla formichina orfana.

I due cominciarono ad osservarsi con cautela, appena appena con la coda dell’occhio, con timore, fino a quando un giorno la formichina chiese al ranocchietto: “Ti andrebbe di mangiare con me?”

Il piccolo ranocchietto, affamato, rispose: “Sì!”

Dentro di sé, però, si meravigliò di essersi fidato subito di quella formichina azzurra, tuttavia si incamminò verso la casetta dell’amico, seguendolo velocemente.

Non appena entrò, vide appesi alla parete tanti bellissimi quadri colmi di colori bui, scuri, ma con fiori mai visti prima; la cosa che li caratterizzava erano gli intrecci dei rami e delle foglie, davvero particolari, i quali immediatamente mettevano in risalto il mondo interiore, ricco e fantastico della formichina.

Il ranocchietto con il suo nuovo amico imparò tante cose, perché la formica era un tipo intelligente e colto; si divertì persino a dipingere con il suo aiuto, ma comprese che non era tagliato per la pittura.

La formica, essendo un tipo provocatorio e originale, incominciò a convincere la rana a scrivere poesie, perché a suo dire (dopo aver letto alcuni versi dell’amico) scriveva bene ed in quel modo si sarebbe fatto comprendere universalmente.

Quando il ranocchietto mostrò le sue prime poesie, raccolse molti consensi, ma questo non lo rassicurava affatto sulle sue capacità, anzi lo rattristava, perché in cuor suo pensava che quei complimenti fossero dettati dalla pena che suscitava la sua malattia; così era sempre solo e triste.

La formichina non perdeva occasione per provocarlo quando non si dedicava alla scrittura. Alle volte era veramente odioso agli occhi dell’amico, che tuttavia (seppure litigassero spesso) non smetteva di stimare e di volergli bene come a un fratello maggiore, a cui è necessario dare ascolto.

Dopo circa tre anni che viveva con il popolo delle formichine azzurre, il nostro ranocchio un bel giorno notò i bachi nei pressi della scuola, proprio mentre mutavano in farfalle multicolori, e così da allora iniziò a pensare al volo, alla libertà interiore, alla metamorfosi degli esseri viventi. Nel suo cuore era avvenuto qualcosa: non gli bastava più la compagnia dell’amico, era triste, infelice e

consapevole che, seppure l’amico l’avesse fatto crescere e guarire dal “mutismo” interiore e gli avesse mostrato i colori della libertà, era giunto il momento di andar via, di sperimentare l’esperienza acquisita fuori dal mondo delle formiche azzurre.

Dopo alcuni mesi di profonde riflessioni, il ranocchietto con immenso dolore salutò l’amico formichina, l’insegnante occhialuta e tutte le formichine. La formichina più dolce, che tanto lo aveva aiutato, non avrebbe voluto che partisse, ma rispettò il suo volere: era una damigella molto forte e saggia, perciò sapeva bene che le cose buone che aveva donato non sarebbero state vane e

sapeva che sarebbe rimasta per sempre nel cuore del ranocchio. Così, in un giorno di pioggia come quello in cui era arrivato, s’incamminò verso il suo destino, nel fitto bosco, abitato da animali sconosciuti che lo incuriosirono.

Salto dopo salto giunse in un laghetto bellissimo, fitto fitto di canne gialle. Il silenzio era interrotto dai grilli e dal gracidare delle rane; era giunto nel suo ambiente naturale, ma era molto timoroso, perché non ricordava nemmeno la lingua delle ranocchie. Comunque si spinse all’interno del canneto, saltando di foglia in foglia, finché improvvisamente si imbatté in due bellissime ranocchiette che, vedendolo, si spaventarono e dissero: “E tu chi sei? Ci hai spaventate sbucando

dalle canne all’improvviso!”

Il ranocchietto, più spaventato di loro, iniziò a raccontare le vicissitudini della sua vita e pianse tante lacrime dai suoi occhini tristi. Le due ranocchiette si commossero e dissero al ranocchietto che non doveva piangere più, perché da quel momento avrebbero pensato loro a stargli vicine e a farlo

sorridere. Infatti da quel giorno incominciarono ad incontrarsi tra le canne dorate e insegnarono al loro amico la lingua dei ranocchi.

Il nostro piccolo ranocchietto, avendo acquistato fiducia, ricominciò a scrivere poesie per farsi volere più bene, dato che credeva che con lo scritto riuscisse ad esprimersi meglio. Le due amiche erano molto contente di quella nuova amicizia, in particolare la più piccina che, non avendo il fidanzato, aveva iniziato ad osservare con occhi dolci dolci quel ranocchietto solo al mondo; di contro, era evidente che anche lui fosse cotto di lei. Vederli giocare era davvero meraviglioso:

formavano una coppia di ranocchi bellissima, tanto che nel canneto suscitavano l’invidia di tutti, ma questo per loro non aveva nessuna importanza.

Un brutto giorno una ranocchia cattiva, dato che era gelosa della bellezza e intelligenza della bella ranocchietta, la invitò nel laghetto delle streghe, determinata a farle del male. La dolce ranocchietta aveva molta paura, dato che non aveva fatto nulla di male a quella cattivissima rana brutta, tuttavia sperava che con il dialogo l’avrebbe fatta desistere dai suoi propositi malvagi.

Il giorno prima dell’incontro i due ranocchietti innamorati si incontrarono e lei ebbe modo di sfogarsi un po’; lui cercò di rasserenarla, così da infonderle coraggio e sicurezza per quell’incontro.

Quando la ranocchietta andò all’appuntamento al lago delle streghe, il ranocchietto si incontrò con l’amica ranocchia e insieme parlarono a lungo della loro amata amica. In quei momenti di ansia si rendevano conto ancor di più di quanto lei fosse importante per loro.

Tuttavia il ranocchietto fin dai primi giorni di vita aveva imparato a “percepire” i pericoli e così sentenziò alla cara amica ranocchia che la loro ranocchietta se la sarebbe cavata benissimo da sola.

Quanta felicità nel rivederla nuovamente, quanta gioia provarono mentre felici saltellavano tra le canne del laghetto, che emozione bella comprendere sempre più che erano fatti l’uno per l’altra! Si amavano tantissimo e avevano bisogno di stare insieme sotto il sole o la pioggia, sfiorati dal vento,

addormentati sotto la luna. Nonostante fossero tanto felici, erano consapevoli che la “vita” avrebbe potuto riservare loro amarezze e dolori e per questo gustavano e si godevano ogni attimo di felicità.

In quei canneti, infatti, volavano delle terribili api velenose, che a volte con i loro pungiglioni uccidevano altri animaletti.

Loro sapevano bene quanto fossero cattive quelle brutte api e così stavano molto attenti a non farsi individuare. Nonostante questo, un brutto giorno d’inverno il piccolo ranocchietto fu punto da un’ape velenosa e restò agonizzante su una foglia che galleggiava nel lago.

I ricordi incominciarono a farsi sbiaditi, confusi; i giorni trascorsi nella quercia riaffiorarono: il ranocchietto “vedeva” l’amico formichina, i fiori multicolori dei suoi quadri, la scala a chiocciola, quel giorno buio in cui fu raccolto sullo spiazzo della quercia, la damigella che nella quercia era la formichina più attenta ai bisogni degli altri, il capo formica, e poi il buio impenetrabile lo avvolse nel silenzio.

Le due ranocchiette piansero per lungo tempo il loro piccolo amico e di tanto in tanto si recavano sotto l’alberello dove lo avevano deposto per farlo riposare al riparo dalle intemperie del tempo.

Lì sul tronco incisero una poesia del piccolo ranocchio che diceva:

Fui raccolto

in un giorno

di pioggia,

bagnato,

sporco,

privo di parola.

Mi fu insegnato

ad esprimermi,

a vedere i colori,

ad amare il prossimo

e la vita;

avvenne così

il miracolo

della mia metamorfosi.

Voi che passate

senza “vedere”

né udire:

soffermatevi

un attimo

ad amare la vita.

Da www.claudiocrastus.it

La pena di morte viva


Ricevuto da Carmelo Musumeci, carcere di Spoleto: copiato e pubblicato.

Riguardo all’ergastolo ostativo non lo dico solo più io, ora lo dice anche la Magistratura di Sorveglianza che in Italia, unico paese in Europa, esiste una pena che non finisce mai, esiste “la pena di morte viva”.

Nella rivista “Ristretti Orizzonti” anno 12, numero 3 maggio-giugno 2010 pag 34 leggo che Paolo Canevelli, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Perugia, rilascia questa dichiarazione:

(…) Per finire, e qui mi allaccio ai progetti di riforma del Codice penale, non so se i tempi sono maturi, ma anche una riflessione sull’ergastolo forse bisognerà pur farla, perché l’ergastolo è vero che ha all’interno dell’Ordinamento dei correttivi possibili, con le misure come la liberazione condizionale e altro, ma ci sono moltissimi detenuti oggi in Italia che prendono l’ergastolo, tutti per reati ostativi, e sono praticamente persone condannate a morire in carcere.

Anche su questo, forse, una qualche iniziativa cauta di apertura credo che vada presa perché non possiamo, in un sistema costituzionale che prevede la rieducazione, che prevede il divieto di trattamenti contrari al senso dell’umanità, lasciare questa pena perpetua che per certe categorie di autori di reato è assolutamente certa, nel senso che non ci sono spazi possibili per diverse vie d’uscita.” (Roma, 28 maggio 2010, intervento al Convegno Carceri 2010 “Il limite penale e il senso di umanità”).

“A mia figlia Serena” di Claudio Crastus


Appena ricevuta, copiata e pubblicata

Avrei voluto cullarti in eterno

e mi danno l’anima

con il rimorso d’aver rincorso

una polverina sporca

lasciandoti sola.

Quanti anni ho bruciato, figlia adorata!

Brandelli di carne

ho venduto ai mercanti.

Quindici anni

e il cervello bruciato

da quell’oscena mercanzia.

Ti chiedo perdono, giglio immacolato!

Tenero germoglio del tuo papà.

…………………………………………………

Mi sei apparsa in sogno:

un interminabile abbraccio

che ha spezzato la realtà.

Perché non mi parli

nemmeno ne sogni?

Mi appari in sogno,

lo sguardo triste,

l’aria smarrita.

Forse è questa

disperata angoscia

il conto

che ho in sospeso

con la vita.

“Da tanto tempo” di Giovanni Farina


Da tanto tempo

volevo dire addio

alla solitudine,

volevo dimenticarla

nel passato,

ma lei sorridente

e paziente

mi ha detto

che mi ama

che non sa vivere

senza di me.

Io

avrei voluto abbandonarla,

dirle di non accarezzare

il mio cuore

la mia anima

di non essermi fedele

come lo è

ogni giorno

ogni notte.

Non posso abbandonarla

perché

ormai

ha conquistato

ogni fibra

del mio essere.

“Teatro” da “Il colore de giorni di un ergastolano” di Sebastiano Milazzo dal carcere di Spoleto


Nessuno più parla

Si chiudono le porte.

Non sento più niente

Si son chiuse le porte.

In questo teatro

Che senso di morte!

Noi cosa siamo

Uomini o numeri?

E quelli in platea

Chi sono, spettatori?

In questo teatro

Che senso di morte

Chi non recita e canta

Finisce che muore.