di Susanna Marietti

Dal momento in cui ha varcato la soglia del carcere, Parviz non ha più saputo niente dei suoi famigliari. Nessuno si è preoccupato di dargli notizie. Nessuno si è preoccupato di contattare quanto meno un mediatore linguistico. Nessun operatore ha potuto comunicare con lui – che parla solo iraniano e qualche rara parola di inglese – su alcun argomento.
Uno dei due compagni di cella è per fortuna un altro iraniano che con la nostra lingua se la cava un pochino di più. Parviz riesce a comunicare la propria ansia (c’era bisogno, per poterla intuire?) per la sorte di moglie e figli. Ma nessuno ha notizie, dunque tutto resta come prima.
Parviz è disperato. Tre giorni dopo il suo ingresso in carcere tenta di uccidersi impiccandosi al letto. Tra l’altro, ancora non ha avuto l’udienza di convalida del suo fermo. I compagni accorrono, chiamano l’agente di servizio, arriva il medico, Parviz viene salvato.
Oggi non sappiamo dove sia, né che fine abbia fatto la sua famiglia. Un padre e un marito che cerca come può di dare un futuro ai propri cari. Un criminale, per l’Italia. Buttato in una cella senza neanche una parola a lui comprensibile.
Cinque vite che non valgono niente, né per lo Stato né per l’informazione. Sicuramente valgono assai meno di due otturazioni ai denti di Berlusconi.