Dopo 16 giorni lo sciopero della fame portato avanti per l’emergenza carceri dalla deputata radicale e membro della Commissione Giustizia Rita Bernardini insieme con altri dirigenti e militanti radicali, è terminato. A sancirne la conclusione, stamane, è stato l’invio di una lettera al Presidente della Camera Gianfranco Fini da parte di Dario Franceschini nella quale ha preannunciato la richiesta da parte del Gruppo PD di inserire nel calendario dei lavori dell’Assemblea del mese di gennaio, l’esame delle mozioni concernenti la grave situazione di vita nelle carceri italiane.
Archivi giornalieri: 4 dicembre 2009
Cucchi, il Dap: “Una morte che viola i diritti umani”

La morte di Stefano Cucchi è stata una “continuativa mancata risposta alla effettiva tutela dei diritti” proprio mentre era nelle mani dello Stato e della sua burocrazia. Mancanze che “si sono susseguite in modo probabilmente non coordinato e con condotte indipendenti tra loro”, ma questo non assolve nessuno. A cominciare dal personale dell’amministrazione penitenziaria, agenti compresi. Le possibili colpe di “altri organi e servizi pubblici” dai quali Cucchi è transitato, non attenuano “la responsabilità di quanti, appartenendo all’amministrazione penitenziaria, abbiano partecipato con azioni e omissioni alla catena della mancata assistenza”.
Queste le conclusioni dell’indagine della Direzione generale delle carceri sulla fine del tossicodipendente arrestato dai carabinieri e deceduto all’ospedale Sandro Pertini di Roma, dov’era stato ricoverato per le fratture subite. La magistratura ipotizza che Cucchi sia stato picchiato nelle celle di sicurezza del tribunale di Roma dagli agenti penitenziari, ma non si sa bene ancora dove, quando e da chi. La relazione della commissione formata da Sebastiano Ardita, Maria Letizia Tricoli e Federico Falzone e altri funzionari del Dap è stata inviata alla procura di Roma, che la valuterà e ne trarrà eventuali conseguenze.
Il rapporto del Dap dà atto delle “condizioni lavorativamente difficili” in cui gestiscono gli arrestati e i detenuti in attesa di giudizio nei sotterranei del tribunale di Roma. Ma spiega che “risulta difficile accettare che il personale non sia stato posto a conoscenza neppure dell’esistenza della circolare per l’accoglienza dei ‘nuovi giunti’ (quella con le regole sulla ‘prima accoglienza’ ai detenuti, ndr)” . Non c’era, ad esempio, il registro coi nomi degli arrestati e l’annotazione dei movimenti con gli orari.
Le camere di sicurezza del tribunale di Roma versano, inoltre, in condizioni degradate e degradanti, perché hanno spazi ridotti, non ci sono servizi igienici, non prendono aria né luce dall’esterno ed è possibile che lì vengano richiuse persone rimaste a digiuno anche da ventiquattr’ore: “All’atto del sopralluogo le condizioni igieniche presentano evidenze di materiale organico ormai essiccato sui muri interni (vomito) che risultano in parte ingialliti e sporcati con scritte. Sul pavimento, negli angoli, si rilevano accumuli di sporcizia”.
In questi ambienti, secondo gli elementi d’accusa raccolti finora dalla procura di Roma, Stefano Cucchi è stato aggredito dagli agenti penitenziari, subendo le fratture che hanno portato al ricovero sfociato nella morte del paziente-detenuto. Gli ispettori del Dap non traggono conclusioni sul pestaggio (per cui sono indagate tre guardie carcerarie e non i carabinieri che avevano arrestato Cucchi la sera prima dell’udienza in tribunale, i quali hanno riferito e dimostrato di non essere stati presenti nelle camere di sicurezza del tribunale) rimettendosi alle conclusioni dell’indagine giudiziaria. Però indicano la cronologia degli eventi attraverso le testimonianze, a cominciare da quella dell’infermiere del Servizio 118 che visitò Cucchi la notte dell’arresto, tra il 15 e il 16 ottobre, nella stazione dei carabinieri di Torsapienza. Trovò il giovane interamente coperto, e poco o per nulla collaborativo. “Ho cercato di scoprirgli il viso per verificare lo stato delle pupille e guardarlo in volto… C’era poca luce perché nella stanza non c’era la luce accesa… Ho potuto notare un arrossamento, tipo eritema, sulla regione sottopalpebrale destra. Non potevo vedere la parte sinistra perché il paziente era adagiato su un fianco”.
L’infermiere, visto che Cucchi “comunque rispondeva a tono e rifiutava ogni intervento”, se n’è andato dopo mezz’ora. I carabinieri avevano chiamato il 118 “riferendo di una crisi epilettica”, ma il neurologo dell’ospedale Fatebenefratelli che ha visitato il detenuto la sera del 16 ottobre riferisce che Cucchi «precisò che l’ultima crisi epilettica l’aveva avuta diversi mesi fa”. Al dottore, come ad altri, Cucchi disse che era “caduto dalle scale”, ma nella relazione del Dap sono riportate anche testimonianze di altro tenore. Dall’incontro di box con altri detenuti, durante il quale Cucchi faceva il sacco, all’ammissione del ragazzo che a domanda rispose “sono stato pestato al momento dell’arresto”.
Quanto al ricovero nel reparto carcerario dell’ospedale Pertini — a parte l’odissea vissuta dai genitori di Cucchi che non sono riusciti a vederlo né ad avere notizie, e hanno saputo della morte solo dalla notifica del decreto che disponeva l’autopsia — il giudizio finale è che le regole interne dell’ospedale abbiano finito per incidere perfino su residui spazi che risultano assolutamente garantiti nella dimensione penitenziaria. Ragione per cui il trattamento finale del degente-detenuto è risultato essere la somma di tutti i limiti del carcere, dell’ospedale e della burocrazia”.
Per gli ispettori questa vicenda “rappresenta un indicatore di insufficiente collaborazione tra responsabili sanitari e penitenziari”, e certe giustificazioni avanzate da alcuni responsabili “non meritano qualificazione”. In conclusione, “risulta censurabile l’operato complessivo nei confronti del detenuti Cucchi e dei suoi familiari, in particolare nell’ambito del ‘Pertini’, laddove non è stata posta in essere delle prescrizioni volte all’accoglienza e all’interpretazione del disagio del detenuto tossicodipendente”.
Tossicodipendente malato muore in cella
di Romina Marceca
In carcere era finito cinque mesi fa per avere rubato in spiaggia due teli da mare. Lo aveva fatto per comprarsi una dose di droga. Perché Roberto Pellicano era un tossicodipendente e da 12 anni era sieropositivo. Ieri mattina è morto per infarto nella sua cella del carcere Ucciardone a 39 anni. Per due volte il suo avvocato aveva presentato richiesta di scarcerazione per «gravi motivi di salute». Il giudice aveva rigettato la prima istanza dopo due mesi e aveva rimandato al magistrato di sorveglianza la decisione sulla seconda perché non aveva ricevuto, dopo altri 2 mesi, le risultanze di un ulteriore accertamento medico. Nel frattempo, però, la condanna era diventata definitiva e il fascicolo aveva cambiato scrivania.
La Procura ha adesso aperto un´inchiesta sulla morte di Pellicano e il pm Francesco Del Bene ha disposto l´autopsia per domani. La famiglia del carcerato, assistita dall´avvocato Tommy De Lisi, intanto, ha presentato una denuncia ipotizzando l´omicidio colposo. Il caso è destinato a rinfocolare le polemiche apertesi sul caso di Stefano Cucchi e sul trattamento carcerario.
«Roberto piangeva – racconta il padre del detenuto, Antonino Pellicano – Aveva la febbre e a mia moglie, venerdì, aveva detto: Mamma fatemi uscire, vi prego. Lo Stato ha chiesto a mio figlio di pagare per quel furto, adesso noi chiediamo giustizia per la sua morte assurda. Nessuno ha avuto pietà per lui. Non volevamo certo che lo liberassero, ma che almeno potesse scontare la sua pena a casa dove avrebbe ricevuto cure più adeguate».
Il 2 luglio scorso, Pellicano è stato arrestato sulla spiaggia di Capaci, a 20 chilometri da Palermo, dopo avere rubato i due teli da mare e una borsa con alcune creme da sole. Il processo per direttissima, il 13 luglio, si è chiuso con il patteggiamento della condanna a 8 mesi. «Lo stesso giorno ho presentato la richiesta di sostituzione con gli arresti domiciliari», spiega l´avvocato De Lisi. Dieci giorni dopo, il responso del perito incaricato dal giudice indica la possibilità del trasferimento in ospedale. Due mesi più tardi, il 9 settembre, la direzione carceraria comunica che Pellicano «rinuncia a sottoporsi ad accertamenti clinici». Il 10, il magistrato rigetta così la richiesta dell´avvocato.
«Sin da ragazzino – racconta ancora il padre di Pellicano – Roberto ha iniziato a bucarsi. Ma era un bonaccione, rubava per quella maledetta droga. Un mese fa avevo prenotato un giorno di ferie per potere andare a colloquio. Lo avrei incontrato domani (oggi, ndr) e invece adesso mi ritrovo qui a piangere sulla sua bara».
da palermo.repubblica.it
“Viola di mare” a Catania
di Daniela Domenici
Ha avuto stamattina 4 dicembre 2009 presso l’Auditorium “Giancardo De Carlo” del Monastero dei Benedettini di Catania l’incontro-dibattito sul film VIOLA DI MARE di Donatella Maiorca promosso da IDF, Medusa Film, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Sensi Contemporanei, Sicilia Film Commission, Teatro Stabile di Catania, Istituto di Storia dello Spettacolo Siciliano in collaborazione con l’Università di Catania, la Facoltà di Lettere e Filosofia e il Dipartimento di Filologia Moderna.
Tratto dal romanzo MINCHIA DI RE di Giacomo Pilati (Mursia), in concorso al “Festival Internazionale di Roma”, due premi al “N.I.C.E. Film Festival” di San Francisco, è ambientato nella Sicilia della seconda metà dell’800.
Dopo i saluti di Antonino Recca, rettore Università degli Studi di Catania, e di Nicola Leanza, assessore Regionale ai Beni Culturali ed Ambientali e Pubblica Istruzione, sono intervenuti Donatella Maiorca, regista del film, Maria Grazia Cucinotta, attrice e produttrice, Gisela Ovoldi, attrice, Pina Mondolfo, sceneggiatrice e Giovanna Emidi, produttrice.
I giornalisti Nino Amante della Rai e Maria Lombardo de La Sicilia hanno intervistato le ospiti. Ha coordinato l’evento la prof.ssa Sarah Zappulla Muscarà.
Ancora “voci dal carcere di Augusta”
ALTRE POESIE DI FRANCESCO RICEVUTE POCO FA
Un passo
un altro
un altro ancora
dalla finestra al cancello
e il mio cuore
sprofonda in un abisso.
Un passo
un altro
un altro ancora
dal cancello alla finestra
e l’anima mia
vola nell’infinito.
Un passo
un altro
un altro ancora
e il tormento
non ha mai fine !
…………………………………………………..
Realtà
Lo sguardo,
elemosinando un po’ di compagnia,
scruta il cielo
che gli appare come uno schermo
ove i mutevoli contorni delle nuvole
proiettano, immagine dopo immagine,
il film della vita.
Cerco di attenuare il dolore,
illudendomi, di riuscire a vincere
la mia solitudine.
Ma, l’improvviso ed amaro
epilogo della rappresentazione,
vela di silenziosa umidità
lo sguardo che adesso,
spoglio di emozioni,
fissa la muta e solitaria cella.
………………………………………………………
Dalla finestra
Nel cielo si sono accese
mille timide e piccolissime luci
che corteggiando
la misteriosa e affascinante luna
percorrono il rettangolo della finestra
trasformandolo
nell’eternamente
mutevole quadro della vita.
Contemplando
tale meraviglia mi chiedo
cos’altro significhi “libertà”
se non la consapevolezza
di essere una goccia d’acqua
che naviga
nel fiume dell’esistenza.
“Tu”
di Antonella Sturiale
che bagna la testa.
Tu…il canto del mare
che sciaborda agli scogli.
Tu…l’anima immensa
che inonda la vita.
Tu
che ami,
piangi,
ridi,
gridi
Tu che giaci accanto
al mio corpo
che gode attimi d’immensità,
tu…che riempi
che colmi la vana mia esistenza d’infinito.
Tu … che sei tu semplicemente
grandemente
tutta la vita mia
“La scuola delle mogli” al teatro Musco di Catania
di Daniela Domenici
Molière tradotto da Turi Ferro e interpretato da Enrico Guarneri: questi sono gli elementi di base di “La scuola delle mogli” che è in scena, per tutto il mese di dicembre, al teatro Angelo Musco di via Umberto a Catania e a cui abbiamo avuto il piacere di assistere ieri sera.
Un testo come questo del grande commediografo francese non poteva non affascinare Turi Ferro che ne ha fatto una riduzione in siciliano, di grande successo sin dagli esordi, perché “la profonda ricerca linguistica dell’autore francese e la sua immediata efficacia nei dialoghi e nelle situazioni comiche contengono…una prossimità con i modi di dire e le amenità recitativo – linguistiche del dialetto siciliano…si tratta, infatti, oltre che di una traduzione, di una riscrittura adoperando i modi di re e di fare isolani..” come sottolinea il regista Federico Magnano di San Lio che si è avvalso della scenografia molto essenziale ma efficace di Stafano Pace, dei costumi e del make-up molto pertinenti di Dora Argento, delle musiche ben adatte all’epoca storica di Massimiliano Pace e delle luci di Franco Bozzanca.
Ancora una volta vogliamo tributare una meritatissima “standing ovation” a Enrico Guarneri che avevamo già applaudito in un altro testo di Molière, “L’avaro”; perdonateci se ci ripeteremo ma Guarneri ha dimostrato, ancora una volta, la perfetta conoscenza dei tempi comici che strappa la risata e l’applauso con molta naturalezza, mai una sbavatura, una comicità mai sopra le righe, una varietà di toni che gli consentono una grande padronanza del palcoscenico.
Accanto a lui, ottimi “collaboratori”, Barbara Gallo e Vincenzo Volo nei ruoli di Giorgina e Alano, i due fedeli servitori, che vengono caratterizzati da un make-up esagerato e da movenze quasi atletiche, vorremmo dire, perdonateci l’ironia; i nostri più calorosi applausi a entrambi per aver saputo rendere la grettezza ingenua di questi due personaggi.
E un “bravi” va, naturalmente, anche ai due protagonisti giovani della vicenda, l’innocente Agnese, promessa sposa del protagonista Arnolfo che si innamora, ricambiata, di Orazio, ben interpretatati da Valeria Contadino e Rosario Marco Amato.
Un applauso anche al “prorompente” Carmelo Di Salvo nel ruolo del notaio e amico di Arnolfo, e “bravi” anche a Orazio Mannino che interpreta Don Gesualdo, a Fiorenzo Fiorito e Toni Lo Presti nei ruoli di Salvatore e Benedetto e Nadia De Luca in quello di Aitina.
Che cos’è il destino?
Che cos’è il destino? Un concatenarsi implacabile di cause ed
effetti; ma solo la vita biologica, istintiva, è totalmente
sottomessa al destino. Quindi, tutti gli esseri che si
identificano con il proprio corpo fisico, e hanno come scopo
principale nell’esistenza la ricerca dei piaceri, del benessere
e dei beni materiali, non possono sfuggire alle leggi del
destino. Viceversa, colui che è cosciente di essere prima di
tutto uno spirito, e cerca di manifestarne la supremazia in
tutte le sue attività, per lasciare sulla Terra tracce di luce,
di amore e di nobiltà, diviene sempre più padrone del proprio
destino.
Dunque, è chiaro, non c’è bisogno di discutere e di porsi
domande sulla libertà: solo chi si sforza ogni giorno di dare il
primo posto allo spirito sfuggirà all’influenza del destino e
diverrà veramente libero. ”
Omraam Mikhaël Aïvanhov
Lettera aperta degli ergastolani al papa Bnedetto XVI
Il Cardinale Sepe ha affermato: “Nessuno uomo è condannato a vita e che tutti devono avere la possibilità di redimersi”.L’Arcivescovo di Milano, cardinale Dionigi Tettamanzi, autore di un appello contro l’ergastolo, ha dichiarato: “Toglie la speranza e non rieduca”.
Don Oreste Benzi, Fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII ha sempre appoggiato il superamento dell’ergastolo e qualche giorno prima della sua morte, alle Settimane Sociali del 2007 ha detto: “Adesso inizia lo sciopero della fame a Spoleto, nel supercarcere, per l’abolizione dell’ergastolo. Hanno ragione. Che senso ha dire che le carceri sono uno spazio dove si recupera la persona se è scritta la data di entrata e la data di uscita mai? È una contraddizione in termini. Perché non devono aver il diritto di dare prova che sono cambiati? Non è giusto questo.”
Ora la Comunità Papa Giovanni XXIII, guidata dal successore di Don Oreste Benzi, Giovanni Paolo Ramonda, si unisce a noi in questo appello:
Santo Padre, siamo degli ergastolani, dei condannati a essere colpevoli e prigionieri per sempre, ergastolani con l’ergastolo ostativo ad ogni beneficio. Santo Padre, molti di noi sono in carcere da 20, 30 anni, altri di più, senza mai essere usciti un solo giorno, senza mai un giorno di permesso con la propria famiglia. Molti di noi sono entrati da ragazzi adolescenti e ora sono quarantenni destinati ad invecchiare in carcere, altri erano giovani padri e ora sono nonni con i capelli bianchi.
Santo Padre, noi e la Comunità Papa Giovanni XXIII, Le vogliamo dire che la pena dell’ergastolo è una pena che si sconta senza vita; che avere l’ergastolo è come essere morti, ma sentirsi vivi; che la pena dell’ergastolo è una pena del diavolo perché ti ammazza lasciandoti vivo; che la pena dell’ergastolo tradisce la vita; che subire la condanna dell’ergastolo è come perdere la vita prima ancora di morire; che la pena dell’ergastolo ti mangia l’amore, il cuore, e a volte anche l’anima; che la vita senza promessa di libertà non potrà mai essere una vita.
Santo Padre a cosa serve e a chi serve il carcere a vita? Si diventa non viventi. A che serve vendicarsi in questo modo? Non vediamo giustizia nella pena dell’ergastolo, ma solo una grande ingiustizia perché si reagisce al male con altro male aumentando il male complessivo. Una società giusta non dovrebbe avere né la pena di morte, né la pena dell’ergastolo. Non è giustizia far soffrire e togliere la speranza per sempre per riparare al male che ha fatto una persona. Il male dovrebbe essere sconfitto con il bene e non con altro male. Il riscatto umano non è possibile con una pena che non potrà mai finire. La nostra vita è di una inutilità totale, è aberrazione, sofferenza infinita. L’ergastolo è una pena che rende il nostro presente uguale al passato, un passato che schiaccia il presente e toglie speranza al futuro
Santo Padre, 310 ergastolani tempo fa si sono rivolti al Presidente della Repubblica dicendogli di preferire la morte al carcere a vita.
Nell’anno 2007 un migliaio di ergastolani, sostenuti da 10.000 persone fra amici e parenti, hanno fatto lo sciopero della fame ad oltranza per l’abolizione dell’ergastolo.
Nell’anno 2008 quasi ottocento ergastolani hanno inoltrato un ricorso alla Corte europea per chiedere l’abolizione dell’ergastolo perché in Europa solo in Italia esiste l’ergastolo ostativo.
Sempre nell’anno 2008 un migliaio di ergastolani hanno fatto uno sciopero della fame a staffetta per l’abolizione dell’ergastolo.
Santo Padre, i mass media dicono che l’ergastolo in realtà non esiste, ma allora, se non esiste, perché non lo tolgono?
Vogliamo scontare la nostra pena, ma chiediamo una speranza, una sola, chiediamo un fine pena certo.
Santo Padre ci sentiamo abbandonati da tutti, dagli uomini, dalla Chiesa e a volte persino da Dio, perché non si può essere contro la guerra, contro l’eutanasia, contro l’aborto e non essere contro la pena dell’ergastolo.
Santo Padre, non abbiamo voce: ci dia la Sua per fare sapere che in Italia esiste l’ergastolo ostativo, una pena disumana che non avrà mai termine.
Sicuri di sentire la sua voce, grazie!
Gli ergastolani in lotta per la vita e la Comunità Papa Giovanni XXIII
Dicembre 2009
Per l’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII
Il Responsabile Generale
Giovanni Paolo Ramonda
L’Animatore del Servizio Generale Carcere
Mauro Cavicchioli