Libertà di vestirsi come pare o vincolata dalla morale?


Con una nuova proposta di legge alcuni politici negli Usa cercano di mettere un freno al fenomeno, che vuole vietare di fatto di indossare in pubblico i pantaloni troppo calati che consentono a boxer o slip di spuntare prepotentemente sopra la cintura. Tra i provvedimenti richiesti dal procuratore quello di proibire l’esposizione indecente in pubblico di biancheria intima, ma anche d’indossare i maglioni con il cappuccio sollevato, che può risultare “minaccioso”

Un giudice in Gran Bretagna ha ritenuto ora che un simile divieto “vìola i diritti umani”

 Pare che negli Usa il dibattito attorno a questo fenomeno, sia ritenuto decisamente importante visto che esistono sentenze e multe a riguardo, e l’ordinanza più eclatante risulta essere sicuramente quella del sindaco di Delcambre, cittadina della Louisiana. Da qualche anno chi indossa pantaloni a vita ultra bassa in pubblico rischia fino a sei mesi di galera e 500 dollari di multa. Altre città americane sperimentano tuttora punizioni, con ammende decisamente più basse, ma con il solo obiettivo di «risollevare» la vita dei jeans. Le autorità difendono i provvedimenti, spiegando che lo fanno in nome dell’educazione e della moralità.

 Giunti a questo punto, da una parte, occorre prendere atto che la moralità, non è innata ma si realizza attraverso un processo formativo mutabile nel tempo e che si avvia nella famiglia, nella società e nella scuola.

 Occorre anche valutare, se si dispone o meno di indicazioni specifiche non tanto sul “valore” come tale quanto sugli immediati e circoscritti “valori” ai quali indirizzare le scelte e l’azione nel concreto delle situazioni formative.

 Nella sfera dei valori ritengo sia necessario focalizzare la nostra attenzione su temi che tengano conto dei fondamentali problemi ai quali l’umanità si trova esposta e la lista non è certamente povera:

 rispetto per le diversità culturali

  • protezione della vita umana
  • difesa della qualità dell’ambiente, della giustizia, della libertà e dell’uguaglianza
  • prevenzione degli effetti a lungo termine del cambiamento climatico
  • trasformazione della competizione in emulazione
  • diritto al lavoro.

Tutto questo richiede che i vari “mondi” dell’esperienza, quello della realtà oggettiva, quello delle emozioni, così come i sistemi ed i canali di comunicazione, siano profondamente rivisti secondo un sistema di valori etici e morali che vedono il loro perno nella dimensione educativa.

 In questa mia scala di priorità appare evidente, in sostanza, che l’abbigliamento come segnale di moralità manchi.

 Il comportamento morale dovrebbe avere  come obiettivo, mezzi e comportamenti necessari per conseguire: solidarietà, aiuto reciproco, sviluppo socioeconomico, sradicamento della povertà e della miseria umana, flessibilità, innovazione, creatività e responsabilità.  La condizione per il conseguimento voluto è di vivere in un clima di onestà, democrazia e partecipazione.

 Perdonatemi se non considero di  estrema rilevanza alzare dei pantaloni o abbassare dei cappucci!

 La notizia  dettagliata è disponibile a : http://www.corriere.it

 da http://lorettadalola.wordpress.com

Giustizia: l’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà… è qui


di Luciana Scarcia

Ci sono le norme scritte a regolare le condotte collettive e ci sono i comportamenti delle persone in carne e ossa. Le norme scritte dicono che il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona; deve essere favorita la collaborazione dei condannati e degli internati alle attività di osservazione e di trattamento; dall’osservazione del comportamento si deve desumere una schietta revisione critica del passato criminale… e la sincera volontà di partecipare all’opera di rieducazione e di inserirsi nella società civile, accettandone legalità e valori.

Dunque nelle norme e nei regolamenti penitenziari trova forma il principio costituzionale del fine rieducativo della pena: si operi per restituire alla società un individuo che abbia fatto proprio il valore o, almeno, la convenienza della legalità.

Ma allora in quale pianeta, in quale cultura accadono fatti come la morte di Stefano Cucchi o quelle per cause da accertare (forse le stesse della prima) o i numerosi suicidi? A quali logiche rispondono quei fatti? Quale sistema di valori sta dietro i pestaggi? Che cosa, dentro la mente degli individui, legittima la noncuranza che, protetta dalla burocrazia, si trasforma in disumanità e disprezzo della vita umana? Perché davvero deve trattarsi di una cultura e di un pianeta lontani qualche galassia dalla nostra civiltà democratica. Un pianeta in cui l’esistenza di leggi comuni non costituisce un vincolo di coerenza tra principi dichiarati e azioni quotidiane. Ma nel nostro mondo siamo sicuri che questa coerenza sia ancora di moda?

In effetti il carcere è un pianeta lontano, un luogo estremo in cui sono concentrate le conseguenze ultime dei mali sociali e le categorie più deboli, gli “indesiderati”. È questa funzione di discarica sociale che rende quel luogo talmente difficile e complesso da offrire un alibi morale che tacitamente autorizza a infischiarsene delle norme scritte.

Ma, per favore, non parliamo di mele marce, così come è doveroso dire che sono molti coloro che si impegnano nel loro lavoro con serietà e umanità. Il punto è la gigantesca mole di inadempienze a tutti i livelli: la “discarica sociale” resta pur sempre un’istituzione dello Stato che, in quanto tale, avrebbe l’obbligo di porre in essere tutto quanto necessario per applicare le norme (formazione e motivazione del personale, verifica dei risultati, controllo); ma questo non avviene, né qui né altrove. E allora la questione esce dalle mura del carcere e investe la politica, la società tutta e la sua cultura.

Se dentro il carcere accadono fatti che rivelano addirittura la sospensione dei diritti inalienabili della persona, c’è da chiedersi quanto il rispetto di quegli stessi diritti sia diffuso e radicato nel sentire comune della gente “normale”, quanto quel principio sia riconosciuto come fondante la stessa identità collettiva e quanto, infine, il singolo ne faccia un criterio guida della sua condotta perché nel rispetto dell’altro (anche quando questi sia un “indesiderato”) è in ballo il rispetto della propria stessa dignità. C’è da chiedersi insomma se in chi ha responsabilità di gestione della cosa pubblica ci sia davvero intenzionalità nella difesa dei valori democratici oppure se dobbiamo prendere atto del fallimento.

E qui vengo al problema che mi riguarda in quanto volontaria che in carcere propone la scrittura come una delle attività che “accompagnano” un percorso di crescita e cambiamento del detenuto. Nella drammatica situazione in cui sono le nostre carceri, di fronte a casi così tragici e inquietanti, ha senso continuare a credere nel principio della rieducazione? È diventato un lusso buono per tempi migliori? O, peggio, è ipocrisia pensare di contribuire al cambiamento e reinserimento del detenuto nella comunità civile quando la comunità diventa meno “civile”? Ben altro è ciò che serve?

Mi vengono in mente le parole che Calvino, ne Le città invisibili, mette in bocca a Marco Polo per suggerire al Gran Khan un modo per non soffrire dell’inferno dei viventi: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. Trasferendo il senso di queste parole agli interrogativi appena posti, mi dico che continuare a ricercare nell’inferno del carcere le forme che può assumere la speranza di cose migliori è uno dei modi possibili per non accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo.

da www.innocentievasioni.net