Stanchi di vivere in Italia? Trasferitevi nelle micronazioni


Il presidente della Kevin Baugh Siete stanchi di vivere nel vostro Paese? Volete esistere in libertà totale e assoluta con leggi che vi scegliete voi? Beh, non vi resta che l’imbarazzo della scelta, ampia e variegata.

 Sono le micro-nazioni nel mondo, circa una cinquantina: molte non esistono più, tante sono esistite solo nella fantasia di pochi entusiasti – come si definiscono i membri delle comunità. Tutte si inseriscono nel solco di Utopia, la micro-nazione che immortalò nel suo libro più famoso e che da allora è sinonimo di non-luogo, ou-topos, l’isola felice dove è forse possibile la società perfetta.

 Ci sono quelle che si autodefiniscono “quinto mondo”, in polemico riferimento alla suddivisione tra primo, secondo e terzo sistema economico, e quelle che nascono per gioco. Alcune stanno in mezzo al mare come atolli di protesta, altrutopie incastonate tra i confini di un altro Stato, come eccentriche enclave culturali.

 Il sito Weirdworm.com ha fatto una carrellata delle micro-nazioni più note e importanti, da non confondere con i micro-Stati di , e . Si tratta di entità create da una persona o da un gruppo, che pretendono di essere considerate come nazioni o Stati indipendenti. Non sono riconosciute dai governi e dalle maggiori organizzazioni internazionali ma spesso hanno un seguito sorprendente perché racchiudono il sogno che nessun ordinamento costituito può esaudire: gestirsi autonomamente e in pace senza bisogno di leggi imposte dall’alto.

 Il termine è nato negli anni ‘70, quando l’idealismo veniva preso sul serio. In quegli anni presero forma tantissime entità, in genere piccole ed effimere, talvolta destinate a durare, ingrandirsi e far discutere, come , a , nata nel 1971 come zona franca per l’uso di droghe e poi trasformatasi in comunità organizzata, dove la gente vive di artigianato e condivide gli spazi privati e pubblici.

  invece è stata fondata da un tredicenne: nel 1979, tale Robert Ben Madison ebbe la bizzarra idea di creare il Regno di (13 chilometri quadrati), nei Pressi del Lago Michigan, Wisconsin, con cultura e lingua tutta sua. Oggi conta 120 entusiasti ed è rappresentata da Re John I, salito al trono per acclamazione nel 2007. La maggior parte degli aderenti alla comunità si è messa in contatto con essa tramite internet ed è questa forse la particolarità di questi micromondi: attraverso il web creano una rete di contatti e hanno un’anima molto più moderna di quanto si possa immaginare.

 Il , la “terra del mare”, è una struttura artificiale creata durante la Seconda guerra mondiale, quando una chiatta della Royal Navy venne rimorchiata sulla secca di Rough Sands, nel Mare del Nord, e allagata. Si trova a circa 10 chilometri al largo della costa del Suffolk, in Inghilterra, ed è stata occupata fin dal 1967 dalla famiglia di Paddy Roy Bates e dai suoi compagni, che la proclamarono principato con sovranità indipendente. Ha una popolazione che raramente supera le cinque persone, una superficie di circa 1300 metri quadrati ed è probabilmente la micro-nazione più famosa del mondo.

 La è la più piccola del mondo: fondata nel 1977 e governata da più di 30 anni dal presidente Kevin Baugh, vanta una popolazione pari a 6 individui: il presidente, i suoi due figli e i loro tre cani. Sorta nel deserto americano nei pressi di Dayton, in Nevada, si estende su un territorio di 5mila metri quadrati, sul quale sorgono la residenza di Baugh, un ufficio postale, una cabina telefonica e un ufficio del turismo. La moneta ufficiale è la Valora, con impresso il volto del presidente, e la capitale è Espera.

 Tra i continenti che più hanno visto fiorire micro-nazioni sul proprio territorio c’è sicuramente l’Australia, che negli ultimi tre decenni del XX secolo ha avuto un vero e proprio boom di secessioni. Il Principato di Hutt River Province, detto anche Hutt River Principality, è ad esempio una micronazione di 75 chilometri quadrati, situata 595 chilometri a nord di Perth, proclamatosi provincia autonoma il 21 aprile 1970. Mai riconosciuta dallo Stato australiano o da altre entità internazionali, la sua forma di governo è il Principato e il Sovrano è H. R. H. Leonard I. Capitale e unico agglomerato urbano è Nain, la moneta è il dollaro di Hutt River. Emette francobolli, rilascia carte d’identità, passaporti, patenti locali, registra auto, moto e veicoli e organizza visite guidate. Insomma, è più organizzata della Svizzera.

 Poi ci sono delle realtà ancora più particolari, nate sull’onda della protesta. Un esempio per tutti è Waveland, creata nel 1997 sull’isola britannica di Rockall da ambientalisti di per protestare contro l’esplorazione petrolifera: la battaglia finì nel 1999 quando lo sponsor andò in bancarotta, ma il sogno di Waveland è ancora in mezzo al mare. Ancora, la Conch Republic, nata dalla protesta dei residenti e degli esercizi commerciali delle isole Keys, in Florida, contro il governo federale degli Stati Uniti.

 Animata da ideali meno concreti ma non meno affascinanti infine la Nazione dello Spazio Celeste, nota anche come Celestia, creata nel 1948 dal “Fondatore e Primo Rappresentante” James Thomas Mangan, dell’Illinois. Nelle sue intenzioni, comprendeva la totalità dello spazio esterno, che Mangan rivendicò a nome del genere umano per evitare che una qualsiasi nazione potesse stabilirvi un’egemonia politica. Al momento della fondazione i membri dichiarati erano 19 e un decennio più tardi un opuscolo pubblicato dal gruppo dichiarò che erano arrivati a 19.057. Non è dato di sapere quanti siano adesso

 da www.blitzquotidiano.it

“Storia di ordinaria follia”


d Francesco dal carcere di Augusta

“Educare, anzi, rieducare è lo scopo della pena”.

Rieducare nel rispetto della dignità umana, precisa la Costituzione, memore della mortificazione patita da chi, nel ventennio fascista, assaggiò la galera “cimitero dei vivi”.

“Mai più un carcere così” dissero i Costituenti aprendo la strada a una vera e propria rivoluzione.

Carcere non più intenso come controllo dei corpi ma come servizio a persone private della libertà e tuttavia integre nei diritti fondamentali. Non un luogo dove si finisce ma da dove si può ricominciare. Dove i detenuti sono accompagnati verso la libertà nel rispetto della loro capacità di scegliere. Da dove non si esce abbrutiti né peggiorati. Un “dentro” che guarda costantemente “fuori”. Un carcere che produce libertà individuale e sicurezza collettiva.

“Ecco, abbiamo fatto la rivoluzione ma non ce ne siamo accorti. O non vogliamo”.

Ancora oggi, all’interno del muro di cinta, si consuma la contraddizione tra l’obbiettivo dichiarato dalla legge e la gestione quotidiana della vita fondata sull’annullamento dell’identità del detenuto, sulla negazione di ogni autonomia, sulla violazione dei più elementari diritti umani. La rieducazione, o risocializzazione che sia, resta sulla carta. Il rispetto della dignità pure. Carceri fuorilegge: Cucchi e quant’altri.

Alla rivoluzione dei Costituenti è sopravvissuta una gelida cultura autoritaria e burocratica dei carcerieri cosicché, al di là degli obbiettivi dichiarati, lo scopo reale della pena è ancora quello di eliminare l’identità dei carcerati per gestirli più agevolmente. Una schizofrenia micidiale.

Il carcere che funziona non è quello che priva della libertà ma che produce libertà. E per produrre la definitiva libertà dei suoi abitanti deve rivoluzionare se stesso. Deve trasformarsi in un luogo in cui non c’è bisogno di esercitare il potere, già esercitato dal muro di cinta. Deve diventare un luogo in cui si organizza un servizio. Una grande utopia, forse. Ma come dice un vecchio proverbio :”Nessuna carovana ha mai raggiunto l’utopia, però è l’utopia che fa andare la carovana”.

Il carcere, ancora oggi, è un luogo di dolore. La galera deve sembrare una galera. Dunque è disadorna, buia, noiosa, scomoda. Punitiva. Se manca l’acqua, se le docce non funzionano, se i metri quadri calpestabili dai detenuti dietro il blindato si riducono a un paio di metri a testa a causa del perenne sovraffollamento è normale. E’ galera. Se la cella resta chiusa venti ore al giorno e neanche si può aprire la finestra perché il letto a castello è stato sopraelevato è normale. Questa è galera. Anche l’aria è impregnata di galera. C’è odore di chiuso, di fumo, di cibo avanzato, di medicine. Qualche volta, però, il detersivo prende il sopravvento sugli afrori. Persino la carta igienica a volte scarseggia, soprattutto in tempo di crisi economica.

Ecco, questa è la storia di ordinaria follia che nel nome della rieducazione vive un detenuto dell’universo-carcere italiano.

Un’intensa attività in cella: restare chiusi per 20 ore al giorno; di cultura: guardare la TV in orari stabiliti; di sport: giocare a carte. E di formazione: incontrare gli altri detenuti all’ora d’aria. Insomma, un trattamento avanzato, sperimentale.

Questa è una giornata-tipo:

–      Ore 7 del mattino. “Sveglia!!!” E’ il gentile urlo di un agente. Ci si alza dalle brande e si fa la fila davanti alla porta dell’unico bagno della cella.

–      Ore 8. “Conta!!!” lo stesso aggraziato urlo. E’ l’appello dei detenuti presenti in cella. Dopo averci contato, arriva il carrello del latte. Il liquido giallastro  la nostra colazione.

–      Ore 9. E’ il primo appuntamento formativo della giornata. Si scende in cortile per fare l’ora d’aria. In un ambiente confortevole, fatto di cemento, si apprendono le novità dal carcere. Chi è entrato, chi è partito, chi si è tagliato le braccia. Molto istruttivo!!!

–      Ore 10.30. Si torna in cella. Inizia l’attività culturale del carcere: guardare la televisione!!! Segue un breve ma intenso confronto sul programma visto in TV: Hai sentito la Santanchè? Che grandissima pu…!!!

–      Ore 11.30. Passa il carrello del pranzo, si mangia in cella. Oggi, come ieri e come domani, è servita un’ottima pasta scotta e scondita. Il tempo della tavola cronometrata è al massimo di 5 minuti. Straordinario!!!

–      Ore 13.00. E’ il secondo momento formativo della giornata. Un’altra ora d’aria. I temi sempre gli stessi. Costruttivo!!!

–      Ore 14.30. E’ l’ora della doccia ma non c’è acqua, no, è arrivata, è fredda, l’asciugacapelli non funziona. Si è rotto e quello che doveva essere un momento di relax è un dramma.

–      Ore 15.30. Inizia l’attività sportiva. I detenuti indossano tuta e scarpe da ginnastic. E, seduti intorno al tavolo della cella, danno il  via alla partita di carte. Il clima è teso. Chi perde dovrà lavare i piatti stasera.

–      Ore 17.30. La partita a carte è finita, chi ha perso non era ancora pratico di tresette. Posta!!! Tutti in attesa di avere notizie da “fuori”. Questa sera per me non c’è.

–      Ore 18.00. Passa il carrello per la cena. Qui c’è una variante. Una delle poche. Perché se è domenica o un giorno festivo la cena non arriva affatto. Si fa dieta. Altro pregio del carcere di Augusta. In compenso per la sera ci riuniamo con l’invito di uno o due ospiti e chiaramente cuciniamo noi stessi.

–      Ore 19.30. E’ l’ora delle gocce. Dei tranquillanti. C’è chi urla perché ne vuole di più. Ma una sberla istituzionale riporta la calma nelle celle.

–      Ore 20.00. C’è il ritiro posta e ancora una volta “Conta!!!”. Si ripete il teatrino d’appello.

–      Ore 21.000. Nelle celle si spengono le luci. Questa sera c’è una “prima TV”.

E i detenuti di Augusta, dopo una giornata “estenuante”, si addormentano.

E’ un anno che sono qui ad Augusta e ho dovuto vivere in questo deposito di carne umana lo stesso giorno moltiplicato per 365: storia di ordinaria follia!!!