Il Sole


“In generale, si crede che solo l’uomo adulto possieda veramente l’intelligenza. Certo, egli la possiede in modo particolarmente evidente, ma in realtà l’intelligenza esiste già nei neonati, e anche negli animali, pur se in un modo che resta ancora misterioso per la scienza. Sotto forme assai diverse, l’intelligenza esiste ovunque nell’Universo. La terra è intelligente, e anche il sole lo è, anzi, è l’essere più intelligente… Sì, perché è il più vivo. Direte: “Più vivo di noi?”… In un certo modo sì, più vivo di noi. Ovviamente, se andate a raccontare in giro che il sole è la creatura più intelligente sarete derisi. Eppure, la prova esiste: dato che è il sole a vivificare gli umani, significa che è più vivo di loro. Se non ci fosse il sole a distribuire il suo calore e la sua luce, non ci sarebbe nessuna vita sulla Terra, quindi nessuna intelligenza e nessun amore. ”

Omraam Mikhaël Aïvanhov

“Il lupo e il filosofo” di Mark Rowlands


di Daniela Domenici

Homo, homini lupus: L’uomo è lupo per un altro uomo. Spesso l’uomo si comporta più come un animale (invece che come essere intelligente dotato di razionalità) nei confronti di altri uomini. Ciò significa che: ogni uomo è pronto a diventare violento ed aggressivo (come un lupo) per difendere i propri interessi personali da altri uomini.”: questo celebre motto latino è esattamente l’opposto del concetto che è alla base di questo splendido libro del filosofo Mark Rowlands: l’animale, cioè Brenin, il lupo protagonista, ha molta più razionalità dell’essere umano, Mark, a cui regala quotidianamente, nei dieci lunghi anni in cui vivono insieme, esempi di intelligenza, di fedeltà, di amore che ci danno infiniti punti di riflessione. Anche quando nella vita di Brenin e Mark arrivano Nina e Tess, due cagnoline, i nuovi equilibri che si vengono a creare, i nuovi legami affettivi che si instaurano sono esempi pregnanti per noi “umani”, i cosiddetti “esseri intelligenti dotati di razionalità” del motto latino. Il lamento funebre di Mark, poi, davanti alla pira su cui giace Brenin, è, per chi scrive, l’acmè di tutto il libro, il momento topico, uno straziante dolore descritto magistralmente.

Ma Mark Rowlands è anche docente di filosofia, nella vita reale, e voglio porre alla vostra attenzione alcuni suoi concetti, tratti da questo libro, che ritengo degni di attenta riflessione.

“Il pensiero” p. 150-151 …”Il pensiero è come un groppo in gola che si sente salire lentamente, adagio, e con lui sale anche la dolce promessa del sollievo. Poi, però, ci si rende conto che si tratta di un vicolo cieco e il groppo, il blocco, scende di nuovo nello stomaco e si cementa dentro, duro, ostinato e sgradevole come un cattivo pasto. Magari, dopo un po’, si intravede una strada nuova e la speranza rinasce, ma il pensiero non è ancora pronto e si inabissa di nuovo. Non si può costringere un pensiero a farsi pensare più di quanto si ossa costringere un coniglio a farsi catturare. Il pensiero arriverà – e il coniglio verrà catturato – solo al momento giusto. Tuttavia non si può neppure ignorare il p0ensiero e limitarsi semplicemente ad aspettarlo: bisogna mantenere alta la pressione su di esso, altrimenti non arriverà mai. E alla fine, se si è fortunati e diligenti, il pensiero arriva e a quel punto uno è in grado di pensare qualcosa che prima per lui era troppo difficile da pensare. Il sollievo è innegabile ma non è questo il punto. Presto si passerà al pensiero successivo  tutto il penoso processo ricomincerà”…

“L’amore” p. 173 …”L’amore ha molte facce. E, se ami, devi essere abbastanza forte da saperle considerare tutte. Io credo che l’essenza della “philia” sia molto più dura, molto più crudele di quanto ci piaccia ammettere. C’è una cosa senza la quale la “philia” non può esistere e non è questione di sesazioni ma di volontà. “Philia”, l’amore adeguato al tuo branco è la volontà di fare qualcosa per coloro che fanno parte del branco anche se non vuoi farlo, anche se ti fa orrore e ti disgusta e anche se, alla fine, potresti dover pagare un prezzo molto alto, forse più alto di quanto tu possa sopportare. Lo fai perché è ciò che è meglio per il branco. Lo fai p0erchè devi. Può darsi che tu non sia mai costretto ma devi essere sempre pronto a farlo. L’amore a volte è disgustoso. L’amore può dannarti per l’eternità. L’amore può portarti all’inferno. Ma se sei fortunato ti riporterà i8ndietro”…

“Il momento” p. 196-197 …”Non riusciamo mai a goderci il momento per quello che è di per sé perché per noi il momento non è mai quello che è di per sé. Il momento è continuamente “spostato” sia in avanti sia all’indietro. Quello che per noi è l’adesso è costituito dai nostri ricordi di ciò che è avvenuto prima e dalle nostre aspettative di ciò che verrà. E questo equivale a dire che per noi no c’è un adesso. Il momento del presente è spostato, distribuito nel tempo: il momento è irreale. Il momento ci sfugge sempre. E quindi per noi il significato della vita non può mai essere al momento…per noi nessun momento è completo in se stesso. Ogni momento è adulterato, inquinato da ciò che ricordiamo e da ciò che ci aspettiamo. In ogni momento della nostra vita l freccia del tempo ci mantiene “verdi e morenti”. E questa è la ragione per cui crediamo di essere superiori a tutti gli altri animali”…

“Poeta per niente”


di Mirko Birritteri

Ultime righe…

povero poeta per niente,
smetto di narrare
e tengo solo per me
le ricchezze e
le mie poverta’…

E’ tempo di gettare
l’inchiostro sui fogli della mia vita
narrando a parole cio’ che di piu’ sentito conservo in me,
chi romanza vite o interpreta poesie
conosce l’infinito dell’amore,
e di tanta pesantezza non trovo soddisfazione…

Oggi ho sepolto!!

Oggi ho sepolto un mio cadavere
un altro un altro peso,
scrivo narro canto e cito versi
ma le mie lodi sono
cascate d’acqua che sbattono
impertterite sui maledetti scogli,

Oggi ho sepolto!!

Seppelisco me, le mie voglie
le mie lussurie i miei peccati originali,
mi vestiro’ di vergogne,
coprendo il mio corpo di terra fresca e umida,
Non so chi sia piu’ pazzo,
se un uomo che gioca
a scacchi da solo,
o noi che crediamo a
qualcosa che esiste
e che non potremmo mai avere!!
Oggi forse ho sepolto
la mia voglia di scrivere…

La voglia di comunicare,
poiche’ il senso di tanta garbatezza non sara’
mai riconosciuta poiche poeta di niente
mi diletto a professar cio’ che il canto dell’infinito,
frutto dell’aurora non sara’ mai colmato per tanta grazia…

“D’una pagina strappata”


di Maria Grazia Vai

(sulle note di “We are free now” di Enya)

D’ogni uomo, il suo dolore
D’una parola,
la sua primavera e il tramonto.

Ogni battito di mano,
ali
e ciglia

quando dell’amore parla
e per amore, mai non tace
– è sacro

E agogna un nome, un battesimo

Un luogo a cui tornare
quando il suo tempo
perderà chiome, e radici

E quando muore, vivrà
di nuova vita

E di una lacrima caduta,
d’una pagina strappata
diventerà il rumore

Mentre il taciuto dire
si perderà
– e per sempre

nel silenzio di passi
che dell’Amore
hanno temuto

di varcare la soglia.

L’albero della vita


“L’albero, come simbolo dell’Universo, si ritrova nella maggior
parte delle tradizioni spirituali. A partire dalle radici sino ai
frutti, passando per il tronco, le foglie e i fiori, tutte le
creature hanno una funzione da qualche parte su quell’albero…
Tutte le esistenze, tutte le attività e tutte le regioni trovano
posto sull’Albero della Vita.
In epoche diverse dell’anno, le foglie, i fiori e i frutti
cadono dall’albero; si decompongono e diventano humus che a poco a poco viene assorbito dalle radici. Lo stesso vale per gli
esseri. Quando un uomo muore, ritorna alla terra originaria, ma
ben presto riappare da qualche parte sull’albero. Niente si perde
: gli esseri scompaiono e riappaiono incessantemente sull’Albero
cosmico della Vita. ”

Omraam Mikhaël Aïvanhov

La potenza della parola


“Che potenza possiede l’essere umano grazie alla parola! Con la
sola parola, può ottenere gli stessi risultati che ottiene con
ogni altro mezzo materiale: può costruire e può distruggere, può
unire e può dividere, può ristabilire la pace o scatenare la
guerra, può guarire o dare la morte… La potenza della parola
deriva dal fatto che essa è prodotta dalla bocca, nella quale i
due principi, maschile (la lingua) e femminile (le due labbra),
lavorano insieme per creare. La parola è il figlio nato da loro.
Quando, secondo la tradizione, l’androgino primitivo è stato
diviso in due, si può dire che, simbolicamente, la donna ha
mantenuto le labbra (il principio femminile) e l’uomo ha
mantenuto la lingua (il principio maschile). Ecco perché ora, per
poter ritrovare la loro potenza originale, essi si cercano
incessantemente per unirsi. Sì, qui sta l’origine lontana
dell’impulso che spinge gli uomini e le donne a cercarsi. Anche
se spesso si vede tale ricerca prendere la forma del piacere e
dello svago, il suo significato profondo è quello di ritrovare
l’unità del Verbo, l’unità del principio creatore che è maschio e
femmina.”

Omraam Mikhaël Aïvanhov

Riflessioni su eros e questione morale e su Dio di Francesco Sabatino


Eros e questione morale

 La società occidentale, per quanto concerne il rapporto che gli uomini hanno con l’eros, è caratterizzata da due elementi contrapposti. Da un lato, persistono ancora tabù sessuali, provenienti dalla morale e dalla religione cattolica, retaggio della cultura medievale; dall’altro, vi è lo sviluppo della pornografia e della mercificazione del sesso. Io, qui, vorrei proporvi una terza via: la sublimazione dell’eros. Un sano rapporto erotico, basato sull’amore, sul rispetto della dignità umana e della libertà della persona amata, è l’atto più cristiano che esista al
mondo, indipendentemente dal fatto che i due amanti siano sposati o meno, o che siano omosessuali o etero. Infatti, quando due uomini si uniscono in amore, formando un corpo unico e una sola anima, si realizzano i valori fondamentali del cristianesimo, espressi nelle sacre scritture: il dono di sé e la comunione con l’altro.
Inoltre, il piacere derivante dall’attività erotica non va considerato “peccato”, come fa la dottrina cattolica, bensì un elemento fondamentale della vita che induce gli uomini alla beatificazione e all’elevazione dello spirito. Non dobbiamo considerare il corpo e i piaceri che da esso derivano come un qualcosa da mortificare, in favore della purificazione spirituale: il corpo non è la prigione dell’anima, come professano le religioni orientali e affermava il cristianesimo medievale, bensì il rivestimento esterno della stessa. Corpo e anima, insieme, costituiscono un “simbolo”, un tuttuno che dà vita ad una sola entità: l’uomo. Pertanto, il godimento dei piaceri della carne non va inteso come fonte di corruzione e mortificazione dello spirito, ma come vivificazione assoluta dello stesso. Dunque, dal momento che l’attività erotica realizza i valori cristiani di cui ho parlato in precedenza, non è un peccato, un sacrilegio verso Dio, anzi,
al contrario, è esaltazione di Dio. Amare è dolce come una poesia, sublime come un’armonia. Poesia ed armonia sono gli elementi che caratterizzano il corpo e l’anima di una donna, che, per questa ragione, va amata, onorata, rispettata e venerata, e non violentata e abusata. La donna, proprio perché possiede la divina potenza creatrice della vita, va consacrata, e non ritenuta un oggetto senz’anima con il quale fare mercimonio del proprio corpo. Quando si ama, all’insegna della reciprocità e del rispetto della persona amata, lo spirito si innalza a Dio, si eleva al bene supremo e si congiunge con l’assoluto.
L’amore non deve essere oppresso dalla morale e dalla religione, che opprime l’uomo considerando ogni cosa peccato, bensì deve essere lasciato libero. Libero di volare nel vento, sospinto dalla sola forza dei sentimenti. La religione e la morale, semmai, devono perseguitare gli atti malvagi dell’uomo, come la guerra, la mafia e lo sfruttamento dei popoli, e non due giovani che amano la vita e desiderano farlo pienamente unendosi in amore. Il solo peccato
che l’amore provoca è quello di infondere armonia e pace negli uomini. Allora, perché la chiesa si ostina a condannarlo, a meno che non avvenga all’interno del matrimonio? Perché l’istituzione clericale nega ciò che invece la natura, quindi Dio afferma?

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Chi è Dio?

 Molti uomini, dalle origini fino ai giorni nostri, si sono interrogati, e si interrogano, su Dio.
Essi hanno trovato delle risposte, ma non sono mai riusciti a coglierne l’essenza. Io non voglio qui presumere di essere giunto ad una verità, non voglio propinarvi una religione da seguire in maniera assoluta, come hanno fatto molti in passato, bensì voglio fornirvi un’alternativa (giudicherete voi se valida o meno) su chi è Dio. Dio è poeta. Con la sua forza creatrice, egli ha creato una splendida poesia: il mondo, la natura, l’uomo. Tuttavia, l’uomo, con la sua miseria, crudeltà ed insensatezza, ha contribuito a trasformare questa magnifica poesia in una terrificante prosa. La donna, dal momento che nella sua finitezza possiede la bellezza infinita e sublime della natura, quindi di Dio, è la creatura più vicina alla divinità. Il poeta, amandola, congiungendosi a lei, contemplando la bellezza del suo corpo e della sua anima, eleva il suo spirito avvicinandosi a Dio. Mi rendo conto, però, e lo dico con estremo rammarico, che solo pochi uomini, come avrebbe detto Eraclito i “desti”, hanno intelletto di poesia. Soltanto pochi
spiriti eletti riescono a considerare la donna come fonte di poesia, custode dell’infinita bellezza di Dio. Il resto, la massa, i “dormienti”, la considera un oggetto da usare ed abusare, o comunque non la concepisce poeticamente, commettendo così un grave atto di empietà verso Dio.
Dio non è solo poeta, Dio è anche Amore e Bellezza. Così, la donna, oltre ad essere fonte di poesia, è anche divina ancella dell’amore e della bellezza.

 Non solo il poeta, anche l’uomo “comune” può unirsi a Dio. Ciò avviene attraverso il perseguimento di buoni sentimenti, per mezzo dell’amore, unica forza positiva che unisce gli uomini tra loro, all’insegna della solidarietà e del rispetto reciproco. Per amare Dio, non occorre erigere altari, templi e chiese. Non è necessario aderire ad una religione confessionale, cristiana, ebraica o islamica, bensì basta semplicemente chiudere gli occhi, aprire il nostro cuore e comunicare con l’intimo della nostra coscienza. Lì è presente Dio, lì nasce la nostra fede. Non bisogna compiere riti esteriori, come partecipare alle processioni o alla messa, o ancora recitare preghiere mnemoniche, per elevare lo spirito a Dio. Questi, infatti, sono elementi materialistici, tipici della natura umana, che nulla hanno a che fare con la natura di Dio, che è spirito, energia, potenza che crea e muove il mondo. La religione tradizionale considera i riti che ho appena citato come fonte di salvezza e mezzo per ottenere la comunione con Dio. In realtà essi sono la fabbrica dell’ipocrisia, che annebbia la mente ed infiacchisce lo spirito, quindi allontana da Dio che come ho già detto è spirito. Inoltre, la suddetta religione, che io definisco“istituzionale”, in quanto imposta dall’alto da una istituzione, chiesa cattolica, ayatollah islamico, e così via, con i suoi riti e i suoi dogmi, con la sua concezione estremamente severa di “peccato”, opprime l’uomo, lo annichilisce e lo svilisce.
Con la religione, l’uomo non raggiungerà mai la salvezza. Piuttosto, egli è condannato a vivere, se così si può dire, come un automa, schiavo dell’approvazione e/o disapprovazione degli altri. La religione condanna anche i popoli alla guerra e all’incomprensione reciproca. L’unica vera arma di salvezza è la religiosità che scaturisce dall’intimo profondo della coscienza, e non da una istituzione. Solo la religiosità, fondata sull’amore, la tolleranza e la pace, può condurre l’uomo verso la libertà, unico elemento, insieme alla dignità, che fa di un individuo un uomo. Una religiosità fondata sull’amore e sul rispetto del prossimo favorisce la comunione con Dio, quindi la salvezza come beatitudine immensa. Non sono certo della beatitudine dopo la morte. Ma che importa? Quello che conta è vivere serenamente con noi stessi e con i nostri cari in questa vita. Il paradiso o l’inferno dipendono dal nostro stato d’animo. Una vita spesa bene all’insegna dell’amore sicuramente crea in noi il paradiso.

Maschio e femmina lo decide un gene non sessuale delle femmine


di Dino Casali

Nella prestigiosa università di , tempio della filosofia europea, si dilettano – per nobili finalità  scientifiche naturalmente – a manipolare geneticamente i , del tutto ignari delle sconvolgenti conseguenze morali derivanti dai risultati degli esperimenti.

A decidere se un individuo nascerà maschio o femmina non sono solo i sessuali X e Y, ma il che si trova su un cromosoma non sessuale. Quando è attivo determina la nascita di un maschietto, mentre se è spento fa sì che possa nascere una femminuccia. Questa nuova evidenza scientifica stravolge vecchi assiomi e apre nuovi orizzonti culturali, sotto vari punti di vista.

In primo luogo comporta vaste implicazioni nel campo della medicina riproduttiva, dal trattamento dei disordini di alla comprensione dei meccanismi della menopausa.

Sotto il profilo genetico viene inoltre confermata la supremazia del sesso femminile: oltre a essere più longevo e resistere meglio alle malattie, salta agli occhi che la vecchia favola della costola di Adamo è un mito semplicemente da capovolgere.

È dal punto di vista evolutivo però che sorgono i dubbi più intriganti: se la è presieduta da un gene che non c’entra nulla con la riproduzione, a che serve il sesso? È del tutto evidente infatti che un giorno sarà possibile per le donne, come con i di oggi, inibire il gene  FOXL2 e riprodursi senza l’ausilio maschile.

La domanda che si pone a questo punto è: a che servono i ? A niente verrebbe da dire. C’è una consolazione: se il sesso non è più giustificabile come principio evolutivo, forse significa che il Padre eterno, o Madre Natura, o un disegno intelligente (?) ce l’hanno dato come un dono gratuito, non utilitaristico. Solo per il nostro piacere.

da www.blitzquotidiano.it

Progetto “Il lavoro in carcere”


di Francesco dal carcere di Augusta

Oggi vorrei parlare di una questione estremamente delicata del pianeta carcere: il lavoro in carcere.

Il lavoro appartiene semplicemente all’essere dell’uomo in quanto significa, in genere, un essere attivo nel mondo. Una delle condizioni più penose e meno comprensibili della vita in carcere è indubbiamente l’ozio: uno stato di noia mortale.

Il lavoro è occasione per evidenziare e testimoniare le proprie capacità e la valenza del proprio status: un’esperienza umana insostituibile che contribuisce alla crescita personale, favorisce il raggiungimento di equilibri personali, familiari e sociali.

Il lavoro diventa “perno centrale” nella vita e può condizionare mutamenti, decisioni, soluzioni esistenziali anche determinanti. La complessa problematica connessa con il lavoro penitenziario suppone un quadro di riferimento che include considerazioni sociologiche, giuridiche ed economiche. Nell’ambito della stratificazione sociale, la categoria dei detenuti è inserita, nella corrente sociologica, tra le categorie marginali o emarginate, i cosiddetti “luoghi poveri”.

L’attenzione verso le categorie marginali come i detenuti, a parte le lentezze abituali, non si è sempre espressa in un piano di interventi organicamente e moderatamente  collocato, ma le profonde trasformazioni della società contemporanea hanno esercitato un determinante influsso anche sulla realtà carceraria. Per cui a una notevole incidenza culturale politica non si è sottratta neppure la “questione lavoro” che ha vivamente segnato la conoscenza degli stessi detenuti ai quali occorre oggigiorno assicurare non belle parole e nobili intenzioni bensì concrete opportunità di una scelta diversa a quella criminale e quindi “qualificazione professionale” e “attività produttive”. A ciò aggiungasi che gli orientamenti comuni degli studiosi, coerentemente col dettato della Costituzione che postula la finalità rieducativa e perciò riabilitativa e risocializzante della pena, concordano nell’affermare che il lavoro costituisce uno strumento fondamentale di redenzione e riadattamento alla vita sociale. Esso acquista valenza liberatoria, è realtà unificante rispetto alla separatezza della detenzione, rompe le attuali divisioni tra carcere e società. Le carceri, un tempo separate dalla società civile per necessità, tradizione e cultura, si sono aperte in questi ultimi decenni al mondo esterno, al territorio facendo emergere una nuova visione della pena indicata come “cultura del dialogo”, capace di garantire, a quanti concretamente lo vogliono, un reinserimento, aiutando chi ha sbagliato.

Occorre quindi consolidare l’impegno attorno all’uomo in detenzione incrementando un umanesimo solidaristico capace di sfatare luoghi comuni. In sostanza si tratta di tradurre in termini di concretezza operativa il campo della solidarietà. In questo senso il lavoro intramurario non assume il significato di premio, non rappresenta una concessione, tanto meno una semplice terapia. Esso può configurarsi come “diritto”, come “diritto-dovere” la cui assenza risulta senz’altro “desocializzante”. E’ auspicabile, perciò, una più determinante e incisiva attuazione di piena solidarietà attorno all’uomo in detenzione che veda un coinvolgimento delle componenti politico-produttive sindacali e del volontariato in quanto si ritiene possano essere feconde premesse e sostegno delle iniziative fattibili nell’immediato. E’ la politica dei piccoli passi che condiziona e determina le grandi riforme spesso internazionali.

In conclusione sia consentito affermare che siffatta metodologia, se attuata e che già ha avuto sperimento pratico in varie regioni, consentirebbe, una volta emanati i decreti attuativi della legge 193/2000 “legge Smuraglia”, forme diverse di organizzazione del lavoro e quindi nuove e concrete possibilità occupazionali a quanti vivono nelle carceri. Quindi il lavoro quale strumento privilegiato per il recupero sociale. Esso, infatti, riveste un ruolo di primaria importanza nel processo di risocializzazione per un soggetto in esecuzione penale perché consente alla persona detenuta di intraprendere un cammino di “responsabilizzazione” e di conformità alle regole giuridico-sociali nonché di soddisfare esigenze personalistiche  di gratificazione emotiva e professionale. L’appagamento professionale, inteso quale effettiva possibilità per il detenuto di contribuire al sostegno economico del proprio nucleo familiare, favorisce il recupero dei valori di solidarietà e responsabilità e innalza la spinta motivazionale per la prosecuzione del percorso intrapreso prevenendo il rischio di nuove condotte criminose.

Il reinserimento sociale e lavorativo della persona detenuta in Sicilia è processo problematico date le oggettive difficoltà economiche e sociali del contesto territoriale siciliano. Il percorso riabilitativo e di reinserimento lavorativo, che si presenta già comunque con difficoltà nella maggior parte del territorio nazionale, risulta difatti assai più disagevole in Sicilia dove si aggiungono aspetti da sempre discriminatori per i soggetti che hanno pagato il loro debito con la giustizia i quali hanno già alle spalle, nella maggioranza dei casi, un vissuto di disagio e crescente marginalità senza protezioni sociali. In tale situazione estremamente problematica l’inserimento lavorativo per la persona con pregiudizi penali assume un valore ancora più forte poiché è solo attraverso l’attività lavorativa che la persona può concretamente cambiare lo stile di vita finalizzato alla “non reiterazione dei reati”.

Qui ad Augusta, casa di reclusione e, in particolare, per i detenuti del circuito “alta sorveglianza”, detenuti quindi con ergastolo e pene altissime, in atto il posto assegnato a ognuno che è chiamato a svolgere il “lavoro” non può essere modificato e perciò non possono svilupparsi ambizioni né in bene né in male oltre quella offerta dall’amministrazione: spazzino o spesino.

A ciò aggiungasi che in questi anni di vita della Casa di Reclusione di Augusta non è stato assunto, da chi istituzionalmente preposto, un comportamento coerente con quanto contenuto nella normativa . Infatti nulla si è fatto per reperire le risorse necessarie al fine di predisporre adeguarti piani di riconversione e riqualificazione delle esistenti manifatture penitenziarie né è stata prevista dall’amministrazione, nel suo budget, alcuna voce di spesa per formare almeno quei quadri che avrebbero dovuto assicurare le condizioni minime indispensabili per sviluppare il lavoro qui ad Augusta. C’è bisogno di una sinergia di tutti gli enti, pubblici e privati. C’è bisogno di una progettualità regionale del provveditorato finalizzata al rilancio e al rinnovamento dell’amministrazione penitenziaria avendo, tra le priorità, proprio quella di una progettazione di interventi tesa a incentivare le opportunità di lavoro sia all’interno degli istituti che all’esterno e capace, soprattutto, di creare continuità tra “dentro” e “fuori” per costruire così concrete occasioni di recupero sociale. Una nuova politica penitenziaria regionale che agisca contestualmente su più fronti per incrementare i posti di lavoro disponibili per i detenuti sia all’interno che all’esterno degli istituti penitenziari ponendo particolare attenzione all’instaurazione e al consolidamento di una stabile rete di rapporti e intese con gli enti istituzionali territoriali (regioni, province, comuni) e con le associazioni e il terzo settore per la qualificazione del lavoro penitenziario e la creazione di nuove opportunità d’impiego per i detenuti. E’ necessario, quindi, sperare per la definizione di un protocollo d’intesa con l’unione regionale delle camere di commercio e le associazioni di categoria regionali. La creazione di una rete stabile di rapporti e collaborazioni tra i diversi attori istituzionali e dell’imprenditoria darà impulso alle attività produttive che si concretizzeranno all’interno dell’istituto con obiettivi e finalità posti dal progetto “Lavoro in carcere”. Inoltre sarà fondamentale far acquisire ai detenuti una preparazione professionale adeguata alle condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale. L’amministrazione penitenziaria dovrà avere la capacità di progettare e predisporre una serie di esperienze formative e professionali realmente utili che devono essere in grado di far acquisire ai detenuti un bagaglio di conoscenze e di abilità tecniche spendibili nell’avviamento di un’attività autonoma oppure nell’offerta di manodopera sul libero mercato. E’ ovvio, pertanto, che il lavoro intramurario, nel suo complesso, appare in grado di raggiungere soltanto una parte degli obiettivi per i quali esso è previsto rimanendo relegata in secondo piano quella che dovrebbe essere la finalità di gran lunga assorbente: il reinserimento attraverso la qualificazione professionale.

In particolare tutte le parti chiamate in causa devono concordare sull’opportunità di ricercare e attuare misure volte al sostegno e al reinserimento sociale e lavorativo di detenuti, ex detenuti e sottoposti a esecuzione penale esterna affinché vengano applicati i benefici previsti dalla legislazione nazionale e regionale. Si impegnano a valorizzare le lavorazioni interne agli istituti penitenziari, a promuovere intese operative, anche a livello locale, per incentivare le ipotesi previste dalla vigente normativa per la gestione, da parte di terzi, delle lavorazioni penitenziarie come pure per favorire progetti di cooperative sociali, formate anche da detenuti, internati, ex detenuti o ex internati che abbiano lo scopo di creare posti di lavoro interni ed esterni agli istituti penitenziari  e che offrano garanzia di fattibilità e di continuità basate anche su commesse pubbliche.

E ancora, concordare sull’opportunità di promuovere congiuntamente, attività finalizzate alla produzione di beni e servizi per il mercato realizzati all’interno e all’esterno degli istituti di pena in base alle effettive possibilità occupazionali esistenti sul territorio nel confronto con gli organismi competenti a livello regionale. In tale ambito le parti si dovranno impegnare a promuovere e stimolare commesse di lavoro per i detenuti da parte di enti pubblici, cooperative sociali e imprese.

La presente idea non rappresenta, ed è ben chiaro per chi ha esperienza in merito, la “soluzione” della complessa tematica affrontata sia perché il sistema economico nazionale è in continua evoluzione sia perché, in ultima istanza, appare necessario il riscontro in un costante impegno politico e amministrativo a livello nazionale, regionale e locale, ma sicuramente tutte queste azioni eliminerebbero l’incertezza della posizione dei detenuti e attenuerebbero quella tensione palpabile oggigiorno nelle carceri.

Per quanto detto finora, amico/a lettore, concludo con un monito pr la direzione di questo carcere rivolgendo l’invito che se è vero che il nostro paese attribuisce al lavoro dei detenuti un alto valore per il loro riscatto sociale deve dimostrare, nelle sedi proprie, un comportamento coerente con quanto contenuto nelle stesse leggi. Deve cioè saper reperire le risorse necessarie per rendere economico questo tipo di lavoro. All’amministrazione penitenziaria spetterà il non facile compito e di formulare un piano di intervento realistico programmato nel tempo, e di mobilitare le forze capaci di indirizzarlo e sostenerlo e nell’affiancare la difficile azione del Ministero della Giustizia finalizzata al raggiungimento degli obiettivi complessi e delicati indicati dal legislatore.

La stessa Corte Costituzionale ha avuto modo di esprimersi sul lavoro carcerario evidenziando che “Ben lungi dall’essere in contrasto con la morale esigenza di tutela e rispetto della persona esso (il lavoro) è gloria umana, precetto per molti, dovere e diritto sociale per tutti”.

L’impegno ultimo di   questo progetto è mirato a creare le condizioni idonee per la realizzazione di una nuova mentalità e cultura nella prospettiva di un nuovo rapporto tra il cittadino e la società che ha origine nel riconoscimento del diritto morale e sociale dei detenuti di essere sostenuti e reinseriti nella società allontanando lo spettro della stigmatizzazione etichettante.

Il lavoro diventa quindi una sfida sia per la società che per il detenuto. In tal senso si è ipotizzato di vedere il lavoro come metodica di relazione del soggetto detenuto con la società. Un nuovo strumento di “co-municare”, di mettere insieme qualcosa, di condividere le regole della vita quotidiana per un identico fine. Un linguaggio comune è uno strumento molto forte di partecipazione e confronto. La responsabilità della società nei confronti dei soggetti detenuti è di tipo etico e l’obiettivo è un bene socialmente condivisibile. L’etica diventa uno strumento di comunicazione fra la società, il mondo del lavoro, le regole del lavoro e il soggetto detenuto che, non dimentichiamo, è parte integrante della società stessa.

A tal proposito Hegel diceva: “Il lavoro è il modo fondamentale con cui l’uomo produce la sua vita dando inoltre una forma al mondo”. Io aggiungerei :”diventando la fonte di ogni valentia terrena, di ogni virtù e di ogni gioia”.

Vi lascio riflettere…

vostro Francesco

“Rosa avvizzita”


di Angela Ragusa

Ombra
che segui 
gli umani e gli affanni
attendi il traguardo 
velata di nero

mai l’uomo si volse
a cercarti

compagna ,mistero
rosa avvizzita
tra croci di marmo
occhi non hai
ai vivi li lasci
per piangere ancora.