di Roberto Puglisi
Ho cominciato a fare il giornalista perché il cielo sopra casa mia non mi bastava più. Ho il tesserino, all’esame mi hanno promosso. Ma sono rimasto un insicuro, in fondo. Non so se lavoro sempre all’altezza di ciò che io, in primis, mi aspetto da me.
Né il tesserino mi consola o mi rafforza. La conferma la trovo – quando la trovo – negli occhi delle persone di cui ho raccontato qualcosa, nelle loro mani, nella loro voce. E mi basta. Io mi faccio piccolo piccolo, quando entro nella vita delle persone, anche se peso 115 chili e sono uno e ottanta.
Mi faccio minuscolo, quando entro nella vita di chi ha subito un lutto. Quando provo a spiegare qualcosa. Quando mi tocca una cronaca complessa. Mi faccio piccolo perché non voglio essere visto, né voglio disturbare. Non sono io la cronaca. Ma tento di riflettere quello che vedo col piccolo specchio che mi porto in tasca. Si chiama taccuino. E sono così impegnato a camminare che non mi interessa stabilire una supremazia, in una ipotetica gara.
Come potrei dire che altri occhi sono peggiori dei miei? Magari avrà ragione chi sostiene che sia necessario un tesserino per l’accesso alla professione, non dico di no. Però io quando lavoro mi sento coinvolto in un grande rapporto d’amore con le cose e le persone che ho davanti. Se non l’avessi, basterebbe un tesserino?
Io ho fatto il giornalista perché il mio cielo e la mia vita non mi bastavano più. E ho scoperto, nel mio viaggio fin qui, che il cielo è immenso, che può essere la casa di tutti.
E che i veri beati sono quelli che lo attraversano in decoroso silenzio.