Dal carcere di Chieti: “Non ascolto più canzoni d’amore”


di Emidio Paolucci

Brandelli di un sogno
risvegliano dubbi che
soffoco con presunzione,
non ascolto più canzoni d’amore…
l’amore l’ho ucciso lentamente,
ripudiando un tormento vano,
i miei ricordi sono fossilizzati in
presunte immagini che il tempo
inevitabilmente avrà deformato
nella realtà,
mentre tutta questa umanità si
sforza di dare un senso ai
propri sentimenti,
mentre i miei sensi
lasciano spazio ai ricordi,
io umanamente uccido,
tutti i giorni,
ogni umana passione.

da www.informacarcere.it

Niente carcere, esattamente una settimana fa…


Mi è appena arrivata questa lettera, la copio esattamente com’è scritta, commozione…

“Carissimi Nino e Daniela,

sono appena tornato dal cineforum e vi scrivo qualche rigo pr esprimervi il mio dolore per ciò che vi hanno fatto! Sono cose da pazzi, persone come voi che si prestano ad essere vicino a chi si trova rinchiuso vengono “MALTRATTATE”  per la loro disponibilità ad esternare i sentimenti di vera umanità che hanno nei confronti di tutti e specialmente in chi soffre…non ci sono parole! Voglio dirvi che mi dispiace veramente e che era bello incontrarvi ogni tanto nei corridoi e col vostro sorriso e simpatia mi davate forza e speranza che il mondo non è solo bruttura.

Persone come voi rendono migliore il genere umano.

Mi auguro di cuore che avrò presto il piacere di incontrarvi fuori da queste mura dove a parole sono tutti propensi a migliorare le cose, ma nei fatti sono repressivi e chiusi a tutto ciò che è nuovo e sconosciuto ai loro cuori…

Termino con un abbraccio di vero affetto ed amicizia”

 

“Donna (io la chiamo femmina)”


di Angela Ragusa

Fiore delicato
offerta sincera,
cascata impazzita
sperde gocce di passione
irrorando terre limacciose .

Di suo sangue e voluttà
rinverdiscono languori
di maschi
inebriati di profumi
che dalla grotta del suo ventre
vengono fuori..

E accoglie doglie
di intera umanità
frantumandosi in mille pezzi di se…

…fragile cristallo rosa delicato
lasciato cadere da mani
di uomini nani di mente
ed immensi di niente.

Giustizia: viaggio nell’inferno dimenticato delle nostre carceri


di Lino Buscemi (Ufficio del Garante dei detenuti della Sicilia)

Il sovraffollamento penitenziario ha raggiunto livelli intollerabili tali da indurre lo stesso ministro della Giustizia Alfano a dichiarare, papale papale, che “le carceri italiane sono fuori dalla Costituzione”. Ed esattamente fuori da quell’articolo 27 che così recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

I detenuti, soprattutto in almeno 8 penitenziari siciliani, vivono una condizione non facile sicché parlare di “umanità” e di “rieducazione” è pura mistificazione. È fin troppo ovvio affermare che lo Stato democratico ha il dovere di punire i cittadini che commettono reati, ma non lo è altrettanto quando si arroga il diritto di torturali, sia in termini fisici che psichici.

Il sovraffollamento è una tortura? Provate a chiederlo a chi vive in una cella angusta e lurida, gomito a gomito con altri dieci individui in spazi che potrebbero al massimo contenerne 4 o 5. È anche una tortura vivere in una cella con il wc alla “turca” (spesso il “buco” di scarico è ostruito da una bottiglia di vetro per impedire ai topi o agli scarafaggi di fare visite notturne!), senza doccia, umida e con i vetri rotti, con scarse possibilità di poter ricavare un minimo di intimità per il soddisfacimento delle ineludibili funzioni corporali.

Come definire le “condizioni di vita” nelle carceri, ad esempio, dell’Ucciardone di Palermo, di Piazza Lanza a Catania, di Favignana, Marsala o Mistretta, se non inumane e degradanti? Persino le docce (dove spesso, in inverno, scorre acqua solo fredda) sono allocate in locali lontani dalle celle che per raggiungerli bisogna attraversare nudi i corridoi o le terrazze all’aperto.

Le risorse, inoltre, per realizzare programmi per la “rieducazione” del condannato o per il lavoro in carcere sono scarsissime e, comunque, non adeguate per dare effettiva attuazione all’articolo 27 della Costituzione. Si fa quello che si può, in maniera disorganica e discontinua, con l’aiuto del personale di polizia penitenziaria, con i direttori più sensibili e con la sparuta pattuglia di educatori, psicologi e volontari. Alle corte: lo stato in cui versano le carceri in Sicilia non è per nulla accettabile.

La stragrande maggioranza dei detenuti è in attesa di giudizio (soprattutto extracomunitari), per reati, in prevalenza, cosiddetti comuni e non di grave allarme sociale. Ogni detenuto costa allo Stato non meno di 350 euro al giorno, per ricevere, spesso, un trattamento inumano e degradante. All’orizzonte non si intravedono né atti di clemenza (come auspicato già da Giovanni Paolo II) né il ricorso massiccio alle misure alternative al carcere (arresti domiciliari, affidamento ai servizi sociali, semilibertà, ecc.), né tantomeno l’apertura di nuove carceri ultimate, né il ricorso alla liberazione anticipata (consiste in una riduzione della pena pari a 45 giorni, per ogni sei mesi di pena espiata dal detenuto che ha tenuto, però, regolare condotta ed ha anche partecipato alle attività trattamentali).

Non sembra, al momento, muoversi nulla che faccia presagire qualcosa di positivo. In Parlamento e nei Palazzi che contano, malgrado le ripetute grida d’allarme dei garanti dei diritti dei detenuti, regna il silenzio. Eppure le carceri esplodono e cominciano ad esserci problemi di sicurezza dentro di esse, come alcuni casi eclatanti recenti hanno abbondantemente dimostrato. A pagarne il conto sono i “poveracci”, i più deboli, che privi di adeguata assistenza legale pagano, per reati non gravi, il loro debito alla giustizia tutto per intero in condizioni pietose e di degrado.

La stessa cosa, sembra, non accadere per i “potenti”, che sanno come evitare il carcere e persino per i mafiosi che pur essendo sottoposti all’incostituzionale regime del “41 bis” dispongono, però, normalmente di celle pulite, arredate, con wc moderni e docce. Fare emergere nella sua crudezza quello che per ora appare “invisibile” aiuta non poco a sconfiggere la malagiustizia che costringe, intanto, i più “indifesi” ad abitare carceri dove sono calpestati la dignità dell’uomo e diritti fondamentali. Come se si trattasse di vere e proprie discariche sociali e non di luoghi preposti alla rieducazione e al reinserimento nella vita sociale.

da www.ristretti.it

 

Robben Island, dove il calcio fece scuola a Mandela


di Dario Ricci

Il sole caldo dell’estate sudafricana oggi ha concesso una tregua. Come se anche lui avesse deciso di prendersi una pausa, per fermarsi ad ascoltare la storia che Itcy Malengue sta narrando ai visitatori appena sbarcati a Robben Island. Perché se tutti – più o meno – sanno che cosa è stata Robben Island per il Sudafrica (il carcere per antonomasia, quello in cui Nelson Mandela scontò 18 dei suoi 27 anni di prigionia, immatricolato col tragico e celebre numero 466/64), praticamente nessuno sa che qui, sotto lo sguardo dei carcerieri bianchi che osservavano dall’alto delle torrette e il latrato dei cani di guardia, si giocava anche a calcio. Di più. Proprio il calcio fu la “scuola politica” attraverso la quale si sono formati i quadri dirigenti del Sudafrica multietnico e democratico.

Tutti in campo – «Questo era il nostro campo da gioco. E qui non giocavamo solo a calcio. Ma anche a rugby e atletica leggera. E in altre aree del carcere riuscimmo a ottenere il permesso di allestire campi da tennis, o di giocare ai nostri giochi da tavolo preferiti. E durante il periodo di Natale fummo capaci anche di organizzare una giornata dedicata ai Giochi Olimpici di Robben Island!». Così racconta Itcy ha chi lo ascolta, sbigottito e perplesso. Malegue è stato prigioniero a Robben Island: decise di lottare con le sue povere armi – il desiderio di rovesciare il regime dell’apartheid e le proprie mani – contro l’ingiustizia e il sopruso dei bianchi sui neri. Troppo, per il potere razzista di Pretoria, che lo spedì qui, su quest’isola a circa 10 chilometri al largo di Città del Capo, lingua di terra fra due oceani spazzata continuamente dai venti. Qui Malengue fu addetto alle cucine durante gli anni di carcere, e ora lavora come guida turistica, accompagnando i visitatori che ogni giorno sbarcano dalla costa alla scoperta del dolore e degli orrori di Robben Island. Ma anche della speranza e dei miracoli che queste celle e le cave di pietra dell’isola – scavate dai prigionieri costretti ai lavori forzati – hanno saputo restituire alla Rainbow Nation. «La nostra lega calcistica è stato uno di questi. La Makana Fotball Association ci diede gioia, speranza, fiducia e convinzione che un giorno questo paese sarebbe stato libero, e che noi saremmo stati capaci di guidarlo».

La storia – Quasi banale dire che lo sport, e il calcio in particolare, era tra le passioni più vive in un carcere di massima sicurezza maschile, come quello che si trovava sull’isola. Le prime partite si cominciarono a giocare nel 1963, di nascosto, nei corridoi dei blocchi, con palloni fatti con vecchi stracci. Chiedere di poter giocare a calcio per davvero non fu semplice. Robben Island non era un carcere qualsiasi e nel Sudafrica dell’ apartheid i neri non avevano diritti. Eppure, grazie alla determinazione dei prigionieri e alla Croce Rossa, in un ventoso sabato mattina del dicembre ‘ 67 si giocò la prima partita: Rangers-Bucks. Le divise erano quelle del carcere, quasi tutti i giocatori erano scalzi e molti si reggevano in piedi a fatica. Ma da quel mattino in poi il calcio divenne centrale nella vita dei prigionieri. Per il calcio si misero da parte le divisioni politiche, che pure contrapponevano i detenuti politici. Per giocare, avere le maglie, le scarpe, cibo migliore, i prigionieri-giocatori rappresentati dalla Makana Football Association cominciarono a negoziare con i loro carcerieri, a evitare risse, proteste isolate. Diventarono un movimento unito, capace di dialogare, lottare, chiedere e ottenere. E con il preciso intento di lasciare futura memoria della loro battaglia per il diritto al football.

Testimonianze scritte – Sì. Perché la cosa che sorprende nell’accostarsi alla storia di questa lega calcistica – chiamata “Makana”dal nome di un ex condottiero zulu che venne ucciso nel tentativo di fuggire dall’isola nel tardo Ottocento – messa in piedi dai prigionieri dopo lunghe trattative con le autorità del carcere, non è solo la complessità dell’organizzazione (la Makana arrivò ad avere nove squadre, ognuna con 3 diverse formazioni per la serie A, B, e C), o la puntualità nel seguire rigorosamente il regolamento della Fifa (esistevano gruppi di arbitri, segretari e referenti per ogni club, un collegio giudicante le controversie e le misure disciplinari). La cosa che più sorprende è che – in un universo dove un pezzo di carta e una penna o una matita erano beni preziosi per garantirsi vantaggi spesso decisivi nella cruda vita del carcere – tutto è stato minuziosamente registrato in atti ufficiali di ogni tipo (referti arbitrali delle partite, classifiche, ricorsi disciplinari, risultati e classifiche marcatori). Tanto che viene spontaneo chiedersi: perché?

Più di un gioco – «Semplice: perché quegli uomini avevano l’esatta percezione che quella che si stava giocando a Robben Island era più di una partita di calcio, e che il football per loro e per il Sudafrica era più di un gioco, di cui bisognava lasciare precisa testimonianza», ci risponde al telefono da St. Louis , Missouri, Stati Uniti, Chuck Korr, professore emerito dell’Università locale e docente del Centro Internazionale di Storia e Cultura dello Sport della DeMontfort University, che ha portato alla luce la storia della Makana Football Association (da cui sono stati tratti un film e un libro, More than just a game, la cui versione italiana sarà pubblicata a marzo da Iacobelli Edizioni, con prefazione di Gianni Rivera, n.d.r.). «La Makana poté avere quella struttura – spiega Korr – perché fondata e animata soprattutto da prigionieri politici. Se il calcio dava loro piacere, gioia, speranza, l’organizzare la Lega li metteva alla prova ogni giorno: saper gestire il football in quelle condizioni estreme voleva dire essere in grado di poter guidare, un giorno il Paese. Scrivere un corretto referto arbitrale in quell’universo, era propedeutico a scrivere una buona legge per il Paese nel momento in cui se ne fossero create le giuste condizioni». Non a caso l’attuale presidente sudafricano Jacob Zuma e il ministro per gli insediamenti Tokio Sexwale furono – oltre che prigionieri a Robben Island – anche tra i protagonisti della Makana FA.

Riconoscimento ufficiale – Seguire scrupolosamente il regolamento del gioco del calcio definito dalla Fifa. Questo fu uno dei dettami seguiti dai prigionieri-fondatori della Makana, per far capire a tutti che si facevano le cose sul serio. E la stessa Federcalcio mondiale ha reso omaggio alla lega calcistica di Robben Island (che oggi è Patrimonio Mondiale dell’Umanità). il 18 luglio 2007, giorno dell’ 89° compleanno di Mandela, il campo da calcio della prigione dell’isola ospitò campioni come Pelé, Eto’o, Weah, Gullit, che segnarono una partita con 89 gol, tanti quanti gli anni del padre del Sudafrica libero e democratico. Omaggio che si ripeterà il 3 dicembre prossimo, quando gli eroi della Makana Fa verranno celebrati in occasione del sorteggio della fase finale di Sudafrica 2010.

da www.ilsole24ore.com