8 MARZO…parliamo di carcere e salute


Oggi dicono che sia la festa delle donne e ieri era la giornata dedicata alla lotta contro la sclerosi multipla, per questo pubblico questa lettera di una donna medico che parla di una donna in carcere che soffre di questa grave patologia

PER NON DIMENTICARE QUANTI UOMINI E DONNE SONO RISTRETTI NELLE CARCERI ITALIANE CON PATOLOGIE SIMILI E ANCHE PIU’ GRAVI MA NESSUNO NE PARLA

 Questo il testo integrale della lettera scritta al Corriere della Sera da Melania Rizzoli, deputato Pdl

Gentile Direttore,
le scrivo pubblicamente per rivolgere una pubblica richiesta al dott. Aldo Morgigni. La settimana scorsa sono stata nel carcere giudiziario di Rebibbia, a Roma, per una visita ispettiva sanitaria, ed ho incontrato la detenuta Giorgia Ricci, che mi era stata segnalata nella Commissione d’inchiesta Sanitaria della quale sono capogruppo, come persona affetta da una grave patologia neurologica. La detenuta, 39enne, era in stato di isolamento giudiziario ed io, in qualità di medico le ho rivolto solo poche domande sul suo stato di salute e sulle terapie a cui si sottopone da dodici anni, e con sconcerto ho verificato che è sicuramente affetta da sclerosi multipla attiva, chiamata anche sclerosi a placche, una patologia neurologica progressiva ed invalidante, ad eziologia sconosciuta, caratterizzata da varie fasi di remissioni e di riaccensioni, sempre peggiorative, ed è una malattia che si riattiva spesso in coincidenza di particolari e violente reazioni emotive.

 Gentile dott. Morgigni, lei è il Gip che ha scritto e firmato l’ordine di cattura della signora Ricci, e naturalmente io non mi permetto di entrare nel merito del suo lavoro, ma sono costretta a rivolgerle un invito a modificare lo stato detentivo della paziente, le cui condizioni di salute sono assolutamente incompatibili con il regime carcerario. La signora Ricci è sottoposta regolarmente, presso l’ospedale Careggi di Firenze, a cure specialistiche mirate, che prevedono anche una mensile somministrazione, per via endovenosa, di un particolare anticorpo monoclonale, la cui infusione impone il ricovero in ambiente ospedaliero fornito di un centro di rianimazione. La prossima dose del farmaco, essenziale per stabilizzare e rallentare la patologia, e che deve essere somministrato a scadenza regolare, è prevista per il 12 marzo, nel nosocomio toscano, ed è importantissimo che la paziente non manchi a tale appuntamento.

 Io non ho mai incontrato prima la signora Ricci, non conosco i reati commessi né il motivo del suo arresto, ma conosco bene la patologia di cui soffre e ribadisco, da medico, l’assoluta incompatibilità con lo stato detentivo forzato, che può essere molto dannoso e responsabile di pericolose recidive di malattia con future lesioni permanenti. Da parlamentare mi appello all’articolo 27 della Costituzione, spesso citato dai magistrati, che recita che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”, e mi auguro che questa disposizione costituzionale venga applicata nel caso della detenuta in questione.

 Gentile dott. Morgigni, non ripeta l’errore che nel 1983 fu fatto, da altri giudici, nei confronti di mio marito, Angelo Rizzoli, allora anche lui 39enne e affetto dalla medesima patologia, che fu incarcerato per 13 lunghi mesi, detenuto in ben cinque penitenziari, senza alcuna assistenza medica né specialistica, per poi essere assolto, ma con addosso il ricordo di importanti complicanze neurologiche delle quali tuttora subisce le conseguenze. Per tale motivo le scrivo pubblicamente, e le rivolgo un appello a favore di una persona a me sconosciuta, alla quale nulla mi lega, e che probabilmente non incontrerò mai più, ma che ha bisogno di aiuto, del suo aiuto, per la tutela della sua salute fisica che oggi dipende esclusivamente dalle sue decisioni.

 Con stima.
Melania Rizzoli – Medico e deputato Pdl

Lettera da Angelo, ristretto nella sezione più isolata del carcere di Augusta


Ve la trascrivo esattamente come ci è arrivata senza cambiare una virgola e senza commentare né giudicare ma solo condividere. E’ la prima volta che, finalmente, qualcuno ci scrive da quella sezione, è un inizio, per noi, di quella rieducazione di cui parla l’art. 27 della nostra Costituzione.

Ill.mi professori,

non so i vostri nomi e non penso che sia un particolare importante, guardo e vedo in voi due persone affabili nei nostri confronti, a prescindere da quello che abbiamo o non abbiamo fatto; siamo  carcerati o detenuti ristretti o ospiti dello stato, come diciamo noi in gergo; il fine è sempre quello: chiusi in una cella di pochi metri quadri per quasi venti ore al giorno, cercando di far passare il tempo  più velocemente in tutti i modi possibili, lettura di libri o riviste, guardando il televisore con tutti i suoi programmi a volte noiosi o semplicemente fumando le sigarette e qualcuno dilettandosi in lavoretti artigianali: barche, case, portaceneri o altro; e credo benissimo che quel piccolo periodo di tempo passato a dialogare con voi una volta alla settimana ci faccia bene e ci fa uscire dalla noiosa e ripetitiva quotidianità in cui ci siamo affossati.

Una riflessione? Penso che la prima sarebbe: “Se potessi tornare indietro mi sarei certamente comportato diversamente; e conoscendo come adesso un po’ più le leggi non ci sarei cascato”; ma essendo molto più realista penso che l’unica soluzione è quella di avere qua nel carcere una condotta regolare con tutti ed ottenere quell’unico beneficio che finora ci concede il magistrato di sorveglianza: quarantacinque giorni ogni 6 mesi di liberazione anticipata; essendo il nostro un reato considerato “un reato gravissimo” è molto difficile che otteniamo di più.

Poi penso al futuro (più che altro al mio) essendo per gli altri qualcosa di molto vergognoso quello che ho fatto o di quello di cui sono stato accusato (ma nel mio reato contestato non c’erano testimoni), la mia parola contro la sua e per antonomasia; indovinate chi ha vinto? Il sesso debole, logico! Ed al mio primo interrogatorio ho domandato al magistrato se, quando era in dolce compagnia, portava con sé i testimoni e non mi ha saputo rispondere. Comunque il mio futuro proprio non so vederlo, nella mia cittadina che conta non più di 2000 abitanti chiunque può accusarmi dato che si è arrivato a promulgare delle leggi in cui un uomo deve avere una distanza minima di cento metri da una donna mentre passeggi; puoi anche essere arrestato per tentata violenza, ma stiamo scherzando? E già che noi poveri uomini siamo abbastanza timidi ma considero questo tipo di donna una femminista; penso che ci sono molti casi in cui c’è veramente violenza sulle donne e anche sui minori però qua si fa di tutta l’erba un fascio; e dal momento che sono in carcere e sono tutelato dalla legge dovrei essere tranquillo, ma così non è. Ho più pensieri per i miei parenti ed anche per chi mi ha rovinato (scherzo con il prete quando gli dico che li perdono e pranzerei con loro, cioè sarebbero loro il mio pranzo), spero di non arrivare a tanto, anzi non arrivare a niente; non voglio assolutamente rivivere questa bruttissima esperienza che non mi ha insegnato niente: non ho rubato, spacciato, imbrogliato o, per la peggiore delle ipotesi, ucciso qualcuno. Ma è un reato in cui basta la minima accusa  quello nella sezione in cui sono ristretto; una vera inquisizione con tanto di caccia alle streghe (altro che Torquemada, monaco inquisitore spagnolo del 1600 che si è macchiato di tanti orrendi crimini); solo che qua è tutto l’opposto e sono gli uomini a pagare le conseguenze; famiglie intere ho visto sfasciare dalla cosiddetta legge; e poi si lamentano se ci stanno molti più divorzi che matrimoni; e gli istituti per minori sono al collasso e che chiudono per mancanza di aiuti comunali.

Penso che ci sarebbe molto da riflettere sul cosiddetto “reato di violenza” in genere perché peggiore del nostro c’è solo il reato di mafia e le pene neanche scherzano. Dal canto mio desidero solo finire di espiare la mia pena nel miglior modo possibile cercando di avere ottimi rapporti con tutti nessuno escluso; anche se in sezione si vive d’invidia e non capisco il perché, non siamo tutti nella stessa melma?

Per me è solo un gravissimo segno di totale ignoranza (per forza siamo considerati dei soggetti dediti solo a sbagliare) e puoi spiegare loro la vita un miliardo di volte, non si aprono a niente; e poi alla fine capisco che non posso fare nulla perché anch’io sono isolato in una sezione isolata di per sé. Compro un sacco di giornali e leggo molti libri e sono criticato da delle persone che per loro la vita è calcio, fumo e vino; ma io non critico nessuno, ognuno si gestisce la vita come vuole e come può, fortunatamente siamo tutti diversi e non solo fisicamente.

So di essermi un po’ prolungato anche sui diversi argomenti ma mi vengono in mente troppe cose per non scrivere; forse è questa la mansione di una mente aperta a tutto, non a criticare ma a cercare di capire tutto ciò che gli sta intorno; avrei di che sparlare su di tutti ma il primo sono io a non volere essere minimamente criticato per il mio operato iniziando da questa lettera.

Può darsi che in futuro scriverò per voi qualcosa altro ma mi fa male il braccio e voglio finire così dandovi e sottoscrivendovi non in maniera plateale i miei migliori saluti e ringraziamenti e non ha nessuna importanza per me se questa mia riflessione epistolare non verrà pubblicata in nessun libro. Ho scritto tutto questo anche perché il tempo di dialogo con voi che ci è concesso è minimo. Vi saluto di nuovo, professori, e che Dio ce la mandi buona anche se tante volte vorrei essere “il bombarolo” di Fabrizio De Andrè.

N.B. ho visto dei mariti oppressi dalle proprie consorti e dai figli totalmente viziati, atti ad assecondare ogni loro desiderio, anche minimo, per non vedere perso il loro matrimonio e non essere denunciati. Ho visto dei padri denunciati dalla propria figlia minore per abusi sessuali solo per non avergli comprato lo scooter (subito perdonata per la giovane età).

Non è violenza verso gli uomini questa? Non mi dilungo in altri casi.

Che i giornalisti raccontino le nostre carceri. Perché nessuno possa fare finta di niente


di Marta Bonafoni
“Ristretto”. Nel dizionario di italiano si legge: “racchiuso, stretto, limitato, angusto”. Ristretto è anche uno dei sinonimi che gli stessi detenuti usano per definire la propria condizione di reclusi. Limitati, appunto. Ristretta e limitata sempre di più è oggi la possibilità per i giornalisti di entrare nelle carceri. Per raccontare. Fare sapere.

Mica solo i fatti tragici che si consumano lì dentro, cosa peraltro fondamentale – quel racconto – alla salute stessa di una democrazia.

Ma la quotidianità dei penitenziari, la vita dei reclusi.Perché stare dentro non può e non deve significare essere fuori: dalla realtà  e dal racconto della stessa.

Non so se vi è  capitato durante le feste appena passate di guardare qualche tg in cui, improvvisamente, si sono in effetti aperti i cancelli di un carcere romano. Era arrivata la Befana – si diceva – in quei giorni in cui la retorica (capitanata dai mass-media) dice che bisogna “essere tutti più buoni”! A me è capitato di vedere un paio di quei servizi: le telecamere indugiavano sui visi dei figli dei detenuti, sulle facce dei reclusi. Un pezzo di colore – come si dice – confezionato su quei volti grigi e su sorrisi rari. Marziani, sembravano, quegli uomini e quelle donne inquadrati sul piccolo schermo.

Specie rare, come ti può capitare di vederle al Bioparco. Anzi no, perché i servizi sulle bestie nelle gabbie del Bioparco sono decisamente di più di quelli che passano in televisione per raccontare le carceri italiane.

Una delle emozioni più forti fino ad oggi provate facendo la giornalista mi ha investito alcuni anni fa ascoltando Radio Popolare di Milano e la sua trasmissione Fuori di cella, con i familiari dei detenuti a salutare i loro parenti reclusi: quelli da una parte al telefono, gli altri in cella con le radioline accese.

Era, quella, l’emozione di una possibilità. Per i diretti interessati, che per un attimo potevano entrare in comunicazione tra loro oltre alla restrizione. Per i giornalisti, che troppo spesso dimenticano che si può – o si deve – svolgere questo mestiere non per fare da megafono ai forti ma per dare voce ai deboli. Per la politica e le istituzioni (anche quelle penitenziarie), perché la conoscenza e la trasparenza dovrebbero essere sempre amiche del buon governo.

Poi c’è il dramma delle carceri, come quello vissuto fino a esserne ucciso da Stefano Cucchi. Anche in quel caso Stefano sarebbe rimasto solo un numero, se non ci fosse stato il coraggio della sua famiglia a mostrarne le foto del supplizio.

Prima di quelle immagini la morte di Stefano non era una notizia. Dopo, sono arrivate le prime pagine. Abbiamo visto: per nessuno è stato più possibile fare finta di niente.

Dovrebbe essere sempre così, e non solo quando ormai è troppo tardi.

da www.linkontro.info

11 e 12 gennaio 2010


Numero speciale di “Ristretti News”, in occasione della discussione alla Camera della mozione sulle carceri presentata da Rita Bernardini e sottoscritta da parlamentari di ambedue gli schieramenti 

http://www.ristretti.it/commenti/appello/mozioni/speciale_mozione.pdf

Cagliari: in carcere bambino di 16 mesi è “ingiusta detenzione”


Natale amaro per un bimbo nigeriano che ha trascorso le festività nella Casa Circondariale di Buoncammino, dove il 25 dicembre è stato anche battezzato insieme alla giovane mamma. Un caso di “ingiusta detenzione senza alcun risarcimento”, denuncia la presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme, che richiama l’attenzione delle istituzioni sulla necessità di garantire ai minori di madri detenute condizioni di vita adeguate alle loro esigenze.

Il piccolo nigeriano ha appena 16 mesi, ma suo malgrado vanta già alcuni record negativi: oltre al Natale, dietro le sbarre 4 mesi fa ha festeggiato ferragosto e il suo primo compleanno. “Il bambino, che ha ottenuto grazie alla sensibilità del giudice di poter frequentare un asilo nido e di trascorrere qualche ora fuori dal carcere, non può – sottolinea Caligaris – continuare a crescere dentro una struttura detentiva. Non è difficile verificare – conclude – che le dichiarazioni di principio del ministro Alfano, con le quali aveva garantito la soluzione del problema dei minori di 3 anni negli istituti di pena, sono rimaste senza seguito”.

da www.ristretti.it

Associazione “Ristretti orizzonti”: nel 2009 già morti 146 detenuti


suicidi in carcereROMA (1° novembre) – Dall’ inizio di gennaio a oggi sono 146 i detenuti morti in carcere, 6 in più del totale registrato alla fine dello scorso anno. Ma è il dato dei suicidi a suscitare allarme: nei primi dieci mesi del 2009 i detenuti che si sono tolti la vita sono stati 59, venti in più rispetto allo stesso periodo del 2008. Lo dice l’associazione “Ristretti Orizzonti” nel suo dossier “Morire di Carcere” sottolineando che «la morte di Stefano Cucchi e l’ondata di indignazione al riguardo, soprattutto dopo la pubblicazione delle sconvolgenti immagini del suo corpo martoriato, sono un fortissimo e drammatico richiamo alla realtà».

«Quando il sistema penitenziario italiano viene definito “fuori-legge”, “illegale”, “incivile” dallo stesso ministro della Giustizia, vuol dire che la sofferenza di chi sta in carcere supera il livello ritenuto ammissibile, che la pena diventa supplizio – osserva il curatore Francesco Morelli -Soffrono in primo luogo i detenuti, ma soffre anche la polizia penitenziaria, che nell’ultimo mese ha pagato con tre suicidi lo stress di un lavoro sempre poco riconosciuto. E dove gli agenti stanno male, devono fare turni di 12 ore, e via dicendo, non ci sarà un bel clima neanche per i detenuti».

Ristretti Orizzonti cita anche il “Bollettino degli eventi critici negli Istituti penitenziari”, realizzato dal ministero della Giustizia, dal quale si evince che dal 1992 al 2008 mediamente ogni anno muoiono 150 detenuti, di cui circa un terzo per suicidio e gli altri due terzi per cause naturali non meglio specificate. Gli omicidi registrati sono uno o due l’anno. L’associazione fa notare che i suicidi riguardano prevalentemente i detenuti più giovani: i 10 “morti di carcere” più giovani del 2009 sono tutti suicidi e 2 avevano solo 19 anni. Le morti per «cause da accertare» sono più numerose di quelle per «malattia».

da www.ilmessaggero.it