Carcere: ogni 2 giorni muore un detenuto


di Lorenzo Alvaro

Sono 76 da inizio anno di cui circa un terzo si suicida Con il suicidio di Aldo Caselli, avvenuto nel carcere di Reggio Emilia, salgono a 76 i detenuti morti da inizio anno: 21 si sono impiccati, 6 sono morti per avere inalato gas, 49 per malattia. Questi i dati resi noti dall’“Osservatorio Permanente sulle morti in carcere” di cui fanno parte Radicali Italiani, Associazione “Il Detenuto Ignoto”, Associazione “Antigone”, Associazione «A Buon Diritto”, Redazione “Radiocarcere” e Redazione “Ristretti Orizzonti”

 Chi era il detenuto
Aldo Caselli 44 anni, detenuto nel carcere di Reggio Emilia, si è tolto la vita ieri notte, tra le 22,30 e le 23. L’uomo avrebbe annodato le lenzuola alle sbarre della cella per impiccarsi. era in carcere da pochi giorni, ma era stato arrestato altre volte per reati vari. Dopo un periodo agli arresti domiciliari, l’ulitmo arresto solo tre giorni fa, il 17 maggio scorso. Era stato fermato dai carabinieri perché sospettato di aver compiuto una rapina, armato di una mannaia, ad un ristorante di Castelnuovo di Sotto in provincia di Reggio Emilia. Caselli, con precedenti di tossicodipendenza, un lungo via vai dal carcere, era malato da tempo. Per questo nell’aprile 2009 il tribunale di sorveglianza di Bologna gli aveva concesso i domiciliari presso una struttura specialistica, la comunità terapeutica “Bellarosa” di Reggio Emilia.

Tutti i numeri
Dall’inizio dell’anno sono trascorsi 130 giorni: in questo periodo 21 detenuti si sono impiccati, altri 6 sono morti dopo aver inalato del gas dalla bomboletta da camping (potrebbe trattarsi di suicidi, ma più probabilmente si tratta di “incidenti” accaduti mentre il detenuto ricercava lo “sballo”) e 49 sono morti per malattia: in totale 76 persone decedute in cella, con una media superiore a 1 ogni due giorni. Tra i 21 suicidi “certi” 5 avevano meno di 30 anni, 8 tra i 30 e i 40 anni, 4 tra i 40 e i 50 anni, 3 tra i 50 e i 60 anni, 1 più di 60 anni (39 anni l’età media). 17 erano italiani e 4 stranieri. Lo scorso anno, dal 1 gennaio al 20 maggio i detenuti suicidi furono 22, nello stesso periodo del 2008 furono 15, nel 2007 furono 13, nel 2006 furono 20, nel 2005 furono 18.

da www.vita.it

La storia di una detenuta incinta che educa alla responsabilità


Nel carcere di Bollate, uno dei più innovativi in Europa, qualche giorno fa una giovane donna detenuta, che frequenta un corso scolastico insieme ad altri detenuti, è rimasta incinta di un compagno: “Io e quel ragazzo ci amiamo e abbiamo fatto l’amore durante le ore di lezione. Sì, sono incinta ma non ho fatto nulla di male, voglio questo bambino”. La notizia è finita sui giornali perché il Sappe, sindacato di polizia penitenziaria, ha inviato comunicati alla stampa e chiesto di accertare le responsabilità. E così una galera che funziona davvero, in un Paese in cui il sistema penitenziario è allo sfascio, è oggi “sotto processo”. Per capirne di più della vicenda, raccontiamo qualcosa di questo carcere attraverso le parole della sua direttrice, Lucia Castellano, che è anche autrice, assieme a Donatella Stasio, giornalista del Sole 24 Ore, del libro “Diritti e castighi”. E poi di seguito riportiamo le riflessioni di una psicologa, che collabora con la redazione di Ristretti Orizzonti.

 Al primo posto c’è la dignità Perché Bollate è un carcere diverso dagli altri? Quando io ho cominciato a fare questo mestiere, pensavo che il mio lavoro era bello perché, nonostante sia bruttissimo tenere la gente chiusa dentro, io potevo farlo in un Paese, l’Italia, che ha un apparato normativo che ci consente di concepire il carcere come un posto sì penoso, terribile, però comunque pieno di garanzie e di diritti. Perché la pena in qualche modo è data dal muro di cinta, e il fatto di non poterlo varcare è già una pena tremenda, credo che, dopo la pena di morte, la pena più terribile sia la privazione della libertà.

Ho cercato perciò di “costruire” un carcere che fosse conforme a questo principio: che all’interno di questa città ci deve essere la possibilità di vivere come se si fosse in una normale cittadina, da cui però è vietato uscire. Ora questa sembra una banalità, però io ho cominciato a immaginare un posto dove non ci fosse alcuna sofferenza aggiuntiva. Tanto per cominciare la persona detenuta a Bollate viene trattata come una persona a cui noi dobbiamo rendere un servizio, come un malato all’ospedale, o come qualunque altro cittadino che ha a che fare con l’istituzione pubblica.

Mentre di solito in carcere c’è un potere assoluto esercitato sulla persona, non c’è una logica di servizio, c’è una logica di potere, quindi “tu sei debole perché sei dentro, io sono forte perché sono dall’altra parte delle sbarre”. Ma l’Ordinamento penitenziario dice tutt’altro: chiama per esempio le celle “locali di pernottamento”, intendendo dire che ci si dorme e però si vive da un’altra parte, mentre invece nelle carceri oggi spesso si dorme e si vive nello stesso posto, venti ore su ventiquattro in cella. Il legislatore è anche attento a dire che l’amministrazione deve “migliorare, rafforzare e rinsaldare i legami famigliari dei detenuti con le loro famiglie”. Significa che i detenuti dovrebbero uscire dal carcere addirittura con dei legami familiari più forti di quelli con cui sono entrati, e come si può fare tutto ciò con sei ore di colloqui al mese, e con 4 telefonate da 10 minuti?

Noi cerchiamo di allargare al massimo queste possibilità, non perché siamo buoni, ma perché ci rendiamo conto che quello che ci chiede di fare lo Stato è costruire una città dove le persone possano mantenere il proprio ruolo e la propria dignità di cittadini, anche se privati della libertà personale. Com’è possibile infatti tentare dei percorsi di rieducazione, togliendo a un detenuto qualunque possibilità di decisione? Come faccio a educare una persona, se quella persona non può decidere neanche se si vuole fare una doccia alle dieci di mattina e non alle otto? Come faccio io a testare la capacità di una persona di aderire alle regole, se poi le regole gliele impongo io e lo muovo io? Secondo me non esiste educazione senza capacità di scegliere, e il carcere oggi non consente questa possibilità.

Noi proviamo a immaginare di riconoscere alla persona detenuta un livello di libertà compatibile con il fatto che quella persona la libertà vera l’ha persa, e proviamo a reimpostare tutto da questa base: questo è Bollate, nel senso che le stanze si aprono alla mattina alle otto e si chiudono alle otto della sera, i cancelli tra un piano e l’altro del reparto sono aperti, per cui si può girare liberamente tutto il reparto. Quindi i detenuti alle otto timbrano il cartellino, se lavorano in un’azienda all’interno del carcere alle dodici finiscono, vanno in cella a mangiare, alle due hanno la scuola fino alle cinque, quindi il carcere è un posto dove tu detenuto impari, ma anche noi, anche il personale, impariamo che comunque c’è una responsabilità, ci sono i diritti e ci sono i doveri.

 Lucia Castellano, direttrice della Casa di reclusione di Bollate Chi ha paura di quella donna? È paradossale che faccia più notizia e scandalo una nuova vita concepita in un carcere che tante morti che vi avvengono per suicidio, malasanità, cause oscure. Nella Casa di reclusione di Bollate può succedere qualcosa di straordinario come una storia d’amore tra detenuti. Ora è caccia alle responsabilità, e quella storia d’amore è diventata una cosa sporca e pericolosa, che pare abbia messo in crisi l’intero sistema di sicurezza. Eppure stiamo parlando di due persone adulte, anche se in carcere, ritenute capaci di intendere e di volere, malgrado la colpa, e quindi di scegliere, oltre la pena. Ma il fatto è che in carcere si comprime in tutti i modi il diritto alle emozioni, alla sessualità e all’affettività.

Questa “caccia alle streghe sessuali” è la riprova, se mai ne avessimo avuto bisogno, che la pena detentiva è una pena corporale e ciò che si vuole controllare è solo il corpo del recluso. Se poi è una donna, si deve negare ancor di più il suo diritto alla maternità, perché è questo diritto fondamentale che si vuole sminuire, facendolo passare come “atto strumentale”, per cercare di ottenere l’uscita dalla galera. E così si preferisce alimentare il volgare stereotipo del carcere “a luci rosse”, come hanno titolato alcuni quotidiani, e titolavano identici anche nel maggio del 2009, quando a Genova una detenuta marocchina abortì, dopo essere rimasta incinta sembra a seguito di rapporti sessuali con operatori. “Luci rosse” che smuovono sempre le coscienze delle persone troppo “perbene”.

Una riflessione va fatta, riguardo alla tutela della dignità e dell’umanità della persona: la restrizione dell’affettività, della genitorialità, della maternità sono giustificabili con le esigenze della pena? Oppure solo con la gestione della pena stessa? Gli “affetti” sono un’ancora di salvezza per chi sta dentro il carcere e anche la garanzia della presenza di una rete sociale all’uscita, ma nessuno ha il coraggio di spiegare che una legge sugli affetti, oltre a costituire un atto di civiltà e di umanità, forse consentirebbe anche un abbassamento del tasso di suicidi e di autolesionismo: il legame con la famiglia e con le persone amate è infatti il più grande “controllo sociale” che un detenuto possa volere e desiderare. In Spagna, Svizzera, Russia, e tanti altri Paesi, l’incontro intimo è previsto per legge, solo una mancanza di attenzione e di rispetto da parte della politica per le famiglie delle persone detenute non permette che questo avvenga in Italia, perché le famiglie dei detenuti sono ritenute famiglie di serie B.

 Laura Baccaro, psicologa

da www.ristretti.it

 

Pentito muore in carcere, la moglie “lo hanno pestato”


Nuova morte sospetta in un carcere italiano, il 67esimo suicidio dall’inizio dell’anno, il 169esimo detenuto morto nel 2009. Ed è subito giallo. , 35 anni, detenuto per criminalità organizzata da poco collaboratore di giustizia, è stato trovato morto mercoledì nella sua cella del San Michele di Alessandria.  Il carcere parla di suicidio, la moglie accusa «E’ stato pestato».

«La direttrice mi ha comunicato che lo hanno trovato impiccato, ma non è vero – racconta la moglie del detenuto – Ho visto il corpo all’obitorio del cimitero di Alessandria: ha il naso rotto, un livido sotto l’occhio destro, tanti altri lividi sulla schiena, sulla pancia, in faccia. Ha perso sangue dagli occhi e dalle orecchie. È stato pestato».

Ruffo era arrivato nel carcere di Alessandria lunedì sera e proveniva dalla casa circondariale di Ariano Irpinio. Sabato scorso aveva chiamato la moglie dicendole: «Devo darti una bella notizia: sono arrivate le carte del trasferimento, le aspettavo da quindici giorni. Da lunedì sono più vicino a te, ci vedremo più spesso». E invece qualcosa è andato storto.

L’Osservatorio permanente sulle morti in carcere (formato dai Radicali e dalle associazioni Detenuto Ignoto, Antigone, A Buon Diritto, Radiocarcere e ) fa notare che quella di Ruffo è la terza morte sospetta dall’inizio dell’anno al San Michele di Alessandria. Prima di lui si sono tolti la vita , 63 anni, ex agente segreto, in carcere per traffico di armi, e , 35 anni, nigeriano coinvolto in vicende di droga.

La morte di Ruffo, secondo , presenta alcune strane analogie anche con quella avvenuta lo scorso 17 novembre nel carcere di Palmi (Reggio Calabria), dove Giovanni Lorusso, 41 anni, è stato ritrovato cadavere con un sacchetto di plastica infilato in testa e riempito di gas: entrambi i detenuti provenivano dal carcere di Ariano Irpino, in provincia di Avellino, ed erano appena arrivati in un nuovo istituto. A detta dei parenti, non avevano «alcun motivo apparente né avevano mai manifestato l’intenzione di suicidarsi» e entrambi i corpi, restituiti alle famiglie, risultano segnati da ferite.

Sempre secondo i dati del Centro studi di la morte di Ruffo è la 67esima dal’inizio dell’anno. Il totale dei detenuti morti nel 2009 sale così a 169 segnando un massimo storico di suicidi in carcere.

da www.blitzquotidiano.it

Giustizia: i Radicali da 5 giorni in sciopero fame per le carceri


Inizia il quinto giorno di digiuno per Rita Bernardini, Irene Testa, Annarita Digiorgio, Alessandro Litta Modignani e me, per la calendarizzazione della mozione presentata dall’onorevole Bernardini e altri, sulla insostenibile condizione delle carceri italiane”.

Lo afferma Claudia Sterzi, segretaria dell’associazione radicale Antiproibizionisti, che aggiunge: “Condizioni carcerarie che ci riportano sempre di più a un medioevo che avremmo voluto fosse rimasto solo un ricordo storico. In queste carceri vivono, o meglio sopravvivono, cittadini rei solo di coltivazione per uso personale di canapa, un reato che farebbe ridere se non fosse per la tragedia sociale, umana e politica delle sue conseguenze. I radicali, da decenni, combattono una battaglia nonviolenta per la depenalizzazione del consumo personale e quindi anche della coltivazione domestica; nella mozione presentata si richiama anche l’ultimo disegno di legge presentato che è, appunto, dell’onorevole Bernardini, e che equipara la coltivazione domestica all’uso personale, come sembrerebbe ovvio ma non è. Quale reato commettono i cittadini che coltivano per se stessi, se non quello di non finanziare il narcotraffico, che contribuisce in misura preponderante alla sopravvivenza delle mafie? Per la libertà di uso e di coltivazione, per liberarsi dalle mafie e dal narcotraffico, prosegue dunque la nostra rivolta nonviolenta alla quale invito tutti gli antiproibizionisti, i consumatori e i coltivatori ad unirsi”.

da www.ristretti.it

Sulla morte di Yassine e sui ragazzi che restano dentro


del Gruppo Ipm dell’Associazione “L’altro Diritto Onlus”

In questi giorni, dopo la terribile morte di Yassine, i riflettori dei media sono stati improvvisamente puntati sull’Istituto penale per i minorenni di Firenze, e molti sono stati i commenti di politici e rappresentanti delle istituzioni. Le volontarie e i volontari del gruppo IPM dell’Altro diritto onlus, che entrano nell’istituto da dieci anni, svolgendovi una serie di attività di informazione e sostegno per i ragazzi detenuti, hanno finora taciuto perché troppo colpiti da questo lutto. Solo oggi, dopo molte riflessioni, desideriamo esprimere la nostra profonda tristezza per la morte di Yassine, che per noi non è uno dei tanti, ma è il ragazzo conosciuto in questi mesi e al quale abbiamo sperato di poter fornire un po’ di sostegno e di leggerezza, invano. Chi è entrato costantemente nel carcere minorile in questi mesi, non può dimenticare il suo volto. Vogliamo però non limitarci a una espressione di cordoglio, perché siamo consapevoli del fatto che la storia di Yassine non rappresenta un’eccezione. È sì raro che un ragazzo si uccida in un Istituto penale per i minorenni, ma non è rara la sofferenza che Yassine si portava dentro.

Oggi nell’Istituto penale minorile di Firenze sono rimasti altri 21 ragazzi, che portano dentro di sé un dolore immenso per quel che è accaduto, un dolore che si è andato ad aggiungere alla già difficile esperienza di chi vive in stato di detenzione. Per alcuni di loro questo non è il primo suicidio cui assistono, per molti questo lutto si somma ad altri già vissuti nonostante la giovane età. I compagni di cella di Yassine ne hanno raccolto l’ultimo respiro, uno di loro lo ha vegliato pregando. Tutti ieri hanno voluto incontrare l’imam di Firenze, forse una delle poche figure pubbliche che sia davvero riuscita a portare loro conforto.

Oggi, prima che i riflettori si spengano di nuovo (qualcuno ci ha già detto che è tardi per questa riflessione perché la notizia non è più fresca!), vorremmo segnalare alcune cose che riteniamo importantissime: la prima è che, contrariamente a quanto si pensa, le carceri minorili non sono giardini d’infanzia. Sono luoghi per lo più migliori delle carceri per adulti, sono luoghi – come il “Meucci” – dove gli operatori sono profondamente dediti al loro lavoro, ma sono pur sempre dei luoghi di reclusione.

L’art. 37 della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, di cui proprio in questi giorni si celebra il ventennale, stabilisce chiaramente che: “L’arresto, la detenzione o l’imprigionamento di un fanciullo devono essere effettuati in conformità con la legge, costituire un provvedimento di ultima risorsa e avere la durata più breve possibile”. Il Consiglio d’Europa non ha fatto altro che ribadire questo principio a più riprese, affermando che la carcerazione non è uno strumento adatto alla risocializzazione dei minori autori di reato, e che essa deve essere inflitta loro solo quando non sia possibile ricorrere a un diverso sistema di controllo o di sanzione.

Nella stessa direzione va, lo sanno tutti, la normativa italiana sul processo penale minorile, considerata come una delle punte più avanzate del mondo occidentale in tema di tutela dei diritti dei minori. Non possiamo allora accettare che persino di fronte al suicidio di un ragazzo detenuto per mesi in attesa di giudizio per un tentato furto si dica che “spesso il carcere è la soluzione migliore per questi ragazzi”. Nonostante la buona volontà degli operatori, il carcere non è un luogo di presa in carico: si fa il possibile, ma il possibile è troppo poco e le buone intenzioni sono costantemente frenate dalla burocrazia e dalle esigenze di controllo tipiche di ogni situazione carceraria, quel che è accaduto a Yassine ne è la tragica dimostrazione.

Gli operatori della giustizia e i servizi sociali non possono arrendersi a una simile constatazione, che fa ancora più scalpore se pronunciata non caso per caso, ma come massima generale. Noi vorremmo ricordare che, sebbene autori di reato – la maggioranza dei ragazzi ne ha commessi soltanto di lievi -, questi minori hanno diritto a poter costruire il proprio futuro e a vivere un presente conforme alle esigenze proprie di tutti gli adolescenti.

La seconda cosa, urgente, che vorremmo segnalare è che oggi nell’Ipm di Firenze, come negli altri sparsi per l’Italia, restano molti ragazzi e che per loro non solo non viene fatto niente di speciale, ma neppure niente di ordinario. Nell’Istituto fiorentino la scuola non è mai stata organizzata in modo stabile dal Provveditorato. La presenza degli insegnanti dipende dalla buona volontà di chi si fa assegnare una classe in carcere e dall’organizzazione della Scuola città Pestalozzi di Firenze, che si occupa dei corsi di formazione serale per adulti.

Quest’anno non sono riusciti, come altri anni, a incaricarsi anche di questo compito extra, nella situazione già difficile che gli enti preposti alla formazione attraversano, e così la scuola media non è ripartita con l’inizio dell’anno scolastico. Le volontarie e i volontari dell’altro diritto si stanno affannando a collaborare con l’unica insegnante elementare presente per supplire a questa mancanza, e non è la prima volta che questo avviene.

Le istituzioni della giustizia minorile sono state sollecitate dall’istituto stesso, ma invano. Si dà per scontato che in un periodo come questo, dove la scuola è in sofferenza, l’ultimo problema sia quello della scolarizzazione dei minori detenuti. Eppure, la scuola non è per loro solo un diritto, ma è anche una delle poche finestre che essi hanno sull’esterno, un modo per impiegare le mattinate altrimenti vuote, tutte passate – a 15,16,17, 18 anni – entro la cinta di un solo squallido cortile.

Infine, che cosa facciamo per i ragazzi rimasti, come li aiutiamo di fronte al trauma subito? Accettiamo che sia uno dei tanti? Consideriamo sufficiente l’organizzazione ordinaria presente negli Istituti penitenziari? O pensiamo che sia l’ora che la città si prenda cura di questi suoi giovani? Che le carceri minorili diventino davvero luoghi aperti e trasparenti e soprattutto spopolati, in cui sia possibile seguire pochi ragazzi facendo prevalere quelli che Alessandro Margara chiama “gli spiriti della casa” sugli “spiriti del carcere”? L’Ipm Meucci è dietro la stazione centrale. Quanti fiorentini conoscono la sua esistenza?

I ragazzi detenuti nell’Ipm di Firenze, come nel resto d’Italia, appartengono quasi esclusivamente ai seguenti gruppi sociali: sono stranieri, rom, sinti, o minori originari del sud Italia. Se si confrontano i dati relativi alla popolazione detenuta con quelli dei minori autori di reato si scopre facilmente come questi gruppi sociali sono sovra rappresentati in carcere. Il sistema della giustizia penale minorile opera una selezione sociale, individuando come suoi “utenti” privilegiati i minori appartenenti alle categorie più disagiate. Un simile processo di selezione smentisce gli intenti professati dalla riforma del 1988 e dal sistema penitenziario trattamentale nel suo complesso.

Se Yassine fosse stato italiano e avesse avuto alle spalle una “normale famiglia italiana” non sarebbe mai finito in carcere e, certamente, oggi nessuno considererebbe “scaduta” la notizia del suo suicidio. Insieme ai ragazzi reclusi in Ipm, siamo addolorati e indignati. Vorremmo che anche la società nella quale viviamo e lavoriamo continuasse ad esserlo e decidesse di muoversi per evitare che queste tragedie continuino a ripetersi.

da www.ristretti.it