“Ti amo, nonna”


di Fabiola Rinaldi

Sveglia al primo canto del gallo e subito all’opera come se dovesse rincorrere il tempo, mani segnate da un lavoro duro che alla fine non dà nessun premio eppure affrontato con parsimonia e diligenza, un viso ormai segnato dal tempo che potrebbe raccontare un’intera vita solamente guardandolo, occhi che col passar degli anni si rimpiccoliscono come se non volessero più vedere l’orrore del mondo, labbra che continuano a elargire benedizioni e consigli, corpo piegato dal tempo ormai attraversato da dolori ma che è stato il tempio della bellezza e della giovinezza pura, piedi ormai stanchi per aver attraversato tempi e spazi ormai lontani, mente che conserva in sé i ricordi più dolci di una famiglia ormai allargata, cuore di una nonna che  batte e scandisce il mio tempo e le mie ore.

DONNA splendida e meravigliosa che fin dal mio primo secondo di vita mi hai tenuta per mano, un grazie per tutto ciò sarebbe nullo in confronto a ciò che tu ancor oggi, nella pienezza dei tuoi 8o anni, mi dai.

Cassino: è anche colpa nostra


di Daniela Domenici

Dopo il recente episodio di violenza omofoba a Cassino, l’ennesimo, siamo convinti che il mondo lgbt si dovrebbe interrogare su come arrestare quest’onda, su quali siano le eventuali colpe all’interno del movimento stesso.

E a questo proposito ci è pervenuta questa riflessione molto amara e dura di un responsabile di arcigay Messina, Rosario Duca, a cui vogliamo dare spazio:

E’ triste dover commentare episodi del genere, mi auguro solo che porti tutti a domandarci cosa stiamo facendo nei nostri territori, oltre a mille cose dilettevoli e allegre, per il nostro singolare piacere, oltre a marce per questo o per quello, oltre a commemorazioni di secoli , oltre, oltre, oltre, oltre. ma pensiamo anche a come tutelarci e tutelare il nostro popolo per quanto sia possibile?

Credo che ognuno di noi, oltre a essere megafono di risonanza di ciò che succede, dovrebbe pensare a come fare per ottenere sicurezza.

Scusate il mio sfogo ma virtualmente è anche colpa della nostra indifferenza e del nostro fare poco o nulla…di questo dovremmo sentirci colpevoli alla pari di chi ha commesso il crimine.

La mano dei criminali si ferma con la determinazione di azioni reali al fine di ottenere una legge vera e completa, basta con le “ciancia fare” e le attestazioni di solidarietà, facciamo qualcosa per noi.

“Il capo” di Giovanni Farina dal carcere di Siano Catanzaro


Il corpo umano chiede a chi lo abita e lo fa vivere perché fa lo sciopero.

Il cervello chiede la parola e dice:

–      Io sono l’organo che pensa, il più intelligente  e chiedo che mi sia riconosciuto di essere il capo.

Gli occhi a loro volta dicono:

–      Il riconoscimento di capo tocca a noi perché siamo la luce che guida il corpo dove andare.

Le mani replicano

–      Noi dobbiamo essere il capo, se non fosse per noi che imbocchiamo la bocca il corpo morirebbe di fame.

Anche le gambe dicono la loro

–      E noi non rappresentiamo nulla? Se non fosse per noi che trasportiamo l’intero corpo on ogni angolo del mondo nessuno saprebbe che esistete. Il ruolo del capo tocca a noi.

Per ultimo parla il buco del culo e dice a tutti i subordinati del corpo:

–      Il ruolo del capo tocca a me, se non fosse per me che elimino dal corpo i vostri avanzi il cervello dopo qualche giorno non riuscirebbe a pensare, le mani e le gambe si appesantirebbero nei movimenti, non sarebbero più efficienti, gli occhi non riuscirebbero più a vedere perché le tossine dello stomaco gonfio gli annebbierebbero la vista.

Il buco del culo conclude:

–      Se io non avessi un funzionamento corretto eliminando tutta la vostra merda nessuno organo del corpo funzionerebbe alla perfezione.

Dopo un vivace dibattito a porte chiuse gli abitanti del corpo umano decidono che, per fare il capo, bisogna fare lo stronzo e anno il ruolo del capo al buco del culo e smettono così di fare lo sciopero vivendo tutti felici e contenti.

Una piantina


di Alfredo Sole dal carcere di Opera Milano

L’uomo riesce a sopravvivere e adattarsi nei luoghi più impensabili e ostili di questo pianeta traendo la sua forza dalla necessità, ma anche dal piacere di immergersi nell’ignoto. Anche se spesso è solo necessità di sopravvivenza. Quel bisogno biologico di completare il proprio ciclo della vita. A tutti i costi! Tutto ciò che è in natura sente quel bisogno innato di continuare ad esistere.
Ho una piantina di basilico immersa in un bicchiere d’acqua sul davanzale della finestra. All’inizio era un intero mazzetto ma lentamente è appassito a morte tranne una rametta. La sua forza di sopravvivenza è stata così forte da mettere radici pur non essendo una pianta acquatica. Si è adattata! Tra molte è stata la più forte e il suo premio è stato la fioritura. Sì perchè non solo si è ostinata a vivere ma è anche fiorita. Ha perso il suo bel colore verde lasciando il posto a un verde pallido ma è il prezzo da pagare per vivere in un ambiente che non è di certo il suo.
Stavo per staccargli alcune foglie per insaporire la mia pietanza quando ho visto i suoi fiori bianchi appena sbocciati, così ho deciso che tutto sommato la mia pietanza non necessitava di foglie di basilico. Quella sua grande forza e ostinazione a sopravvivere mi hanno impedito di “farle del male”. È incredibile, ma senza volerlo la piccola e ostinata piantina mi ha comunicato tanta forza. Ammiro la sua capacità di continuare il suo ciclo vitale immersa in un elemento che non è il suo. È riuscita a farsi crescere delle radici capaci di assorbire nutrimento solo dall’acqua. Sembra dire (se potesse parlare…): “non importa dove mi trovo adesso, il mio scopo è vivere ed io vivrò!”.
Come non ammirare tanta forza, come non invidiare tanto spirito di sopravvivenza.
Le mie radici sono state tranciate da molto tempo ma quasi senza rendermene conto ne sono spuntate altre capaci di prelevare e filtrare linfa vitale dal cemento armato.
Un concetto cupo per definire l’ostilità a continuare ad esistere ma attorno a me c’è solo cemento e ferro, non posso attingere ad altro.
Farò in modo che, al pari della mia piantina, possano in me germogliare anche i fiori. Il mio premio alla sopravvivenza sarà la fioritura della conoscenza.
Sarò pur sempre immerso in un bicchiere di cemento armato, ma ostinato a completare il ciclo della vita.
Se una debole piantina può diventare così forte da fiorire in un bicchier d’acqua, l’uomo può essere capace di innalzarsi a un livello superiore della sua mera esistenza. E con la fioritura del proprio essere può dar vita a una radicale trasformazione del proprio IO.
E tutto questo solo osservando una piantina? Sì, cerco di trarre insegnamento da tutto ciò che mi circonda. Se l’uomo imparasse a osservare meglio sarebbe migliore. Ma purtroppo si limita a guardare senza vedere e con la presunzione di essere migliore si pone al centro dell’universo.

da http://www.informacarcere.it

Se l’amore è un negozio chiuso


di Carmelo Caruso

E poi perché dopo trent’anni debba finire, proprio non si capisce. Cosa credevi che io ero per te solo una semplice compagnia? Credevi che a sessantotto anni la vita ricominciasse e che io potessi mettere i jeans a tubo degli anni ‘80? Io ho sessantotto anni diamine! L’amore non ricomincia!
No, tu non puoi andare via, e non lo devi fare! E poi è da trent’anni che ci svegliamo insieme. Già non siamo sposati ma cosa vuol dire?
Avrà – fantastichiamo – rimuginato queste parole da un mese, camminato con la lingua di fuori come un cane affamato nella Palermo calda, nella Palermo della sfiducia al sindaco, nella Palermo di Bellolampo, nella sua Palermo che più non lo ama. Ma fino a stamattina, quando i carabinieri hanno messo la camicia di forza ai suoi flussi di coscienza, spento il suo cellulare, cancellata l’ultima mail che stava inviando a quella donna che lo aveva lasciato come l’ultimo cliente che ha deciso di non entrare più nel suo negozio e andare forse in quello nuovo aperto proprio di fronte al suo, o forse in uno dei tanti centri commerciali giovani e anonimi come l’amore. No, questa volta la merce venduta non si cambia, accettalo!
Quante volte hai detto che il cliente ha sempre ragione ed hai chinato la testa! Ma l’amore non è una merce e trent’anni non sempre bastano a fare di un rapporto un sodalizio, una preferenza, un contratto. La legge ti arresta perché non si pedina una donna, non si mandano cento messaggi al giorno come la pubblicità che avevi pensato “più martellante, più funziona”. E allora sembra quasi uno dei tanti randagi che vengono arrestati e portati in un canile questo commerciante denunciato per stalking, questo uomo che non accetta che l’amore sia il primo contratto precario della storia, quello che si rinnova di giorno in giorno senza notai e uffici ma in cucina e con le forchette. Però la parola “stalking” vuol dire tutto e niente, e confina in un’isola la molestia così vicina, così evidente da essere più che materia di Astrea (dea della giustizia) materia di nemesi, quindi vendetta.
Cos’era rimasto di quella lingua segreta che è la narrativa di ogni coppia, se non il rancore di chi voleva recitare il monologo, messaggi di castigo per quella donna andata via per imparare un’altra lingua?
E’ giusto che quest’uomo venga fermato, perché le molestie ad una donna sono catene e rischiano di diventare coltelli, perché una donna è sempre “ quella cosa leggera e vagante”, non ha che le unghie per difendersi contro i pugni dei bruti, non ha che unghie lucide ma da cuccioli.
Forse avresti potuto vestirla di bianco, fare per lei ogni giorno “un festino”, forse sarebbe bastato uno di quei cento messaggi caricati a salve, come le pistole giocattolo che sparano una margherita. Chi lo sa poteva bastare uno scontrino che una volta tanto era un saldo per una cliente e un debito per te: l’amore è sempre un debito, ma questo non te lo dice il commercialista.
Questa volta non è colpa dell’arbitro, hai sbagliato l’ultimo passaggio. E trent’anni a volte non bastano ad imparare che non servono chiavi per aprire le saracinesche del tuo “amato” negozio

da http://www.livesicilia.it

Riflessione molto nonsense sul colon, un mio caro amico :-)


di Daniela Domenici

Ormai lo sapete: quando le mie sinapsi partono per la tangente…la mia follia psico-linguistica vola sulle ali del delirio!!!

Oggi le suddette sinapsi si sono fermate su un link medico-linguistico su cui vorrei invitarvi a riflettere insieme a me…

Il colon è un organo molto importante del corpo umano, ha un bel nome di origine greca, intraducibile in italiano…mi sono divertita a metterlo in collegamento con “colonia” come se fosse il suo corrispondente femminile e ho pensato: nel colon si installa, come ospite, un tumore il quale, silenziosamente, senza far rumore perché è un tumore (rima voluta), si diffonde come un serpente lentamente e inesorabilmente (altra rima voluta) con le sue spire in tutto il resto del corpo, lo…”colonizza” quindi ne fa una ”colonia”; ne consegue che il corpo umano diventa, grazie al tumore-serpente colonizzatore, una… colonia del colon!!!

“Le quattro candele”, riflessione natalizia


da Francesco

Le quattro candele, bruciando, si consumavano lentamente. Il luogo era talmente silenzioso, che si poteva ascoltare la loro conversazione.
La prima diceva: “IO SONO LA PACE, ma gli uomini non mi vogliono: penso proprio che non mi resti altro da fare che spegnermi!” Così fu e, a poco a poco,
la candela si lasciò spegnere completamente.
La seconda disse: “IO SONO LA FEDE, purtroppo non servo a nulla. Gli uomini non ne vogliono sapere di me, non ha senso che io resti accesa”. Appena ebbe
terminato di parlare, una leggera brezza soffiò su di lei e la spense.
Triste triste, la terza candela a sua volta disse: “IO SONO L’AMORE non ho la forza per continuare a rimanere accesa. Gli uomini non mi considerano e non
comprendono la mia importanza. Troppe volte preferiscono odiare!” E senza attendere oltre, la candela si lasciò spegnere.
Un bimbo in quel momento entrò nella stanza e vide le tre candele spente. “Ma cosa fate! Voi dovete rimanere accese, io ho paura del buio!” E così dicendo
scoppiò in lacrime.
Allora la quarta candela, impietositasi, disse: “Non temere, non piangere: finché io sarò accesa, potremo sempre riaccendere le altre tre candele: IO SONO
LA SPERANZA”
Con gli occhi lucidi e gonfi di lacrime, il bimbo prese la candela della speranza e riaccese tutte le altre.
CHE NON SI SPENGA MAI LA SPERANZA
DENTRO IL NOSTRO CUORE……
……..e che ciascuno di noi possa essere lo strumento, come quel bimbo, capace in ogni momento di riaccendere con la sua Speranza, la FEDE, la PACE e l’AMORE.”

 

Natale come risveglio, rinascita


“Prima di lasciare i suoi discepoli, Gesù disse loro: «Ora io vado
verso Colui che mi ha inviato. Ho ancora molte cose da dirvi, ma
non le potete portare adesso. Quando sarà venuto il Consolatore,
lo Spirito di Verità, vi condurrà in tutta la verità». Queste
parole di Gesù significano che soltanto lo Spirito ci può dare
la vera comprensione del Suo insegnamento. Dobbiamo quindi
meditare sul messaggio evangelico, e impregnarcene legandoci
alle entità celesti al fine di esaltare la sua essenza in noi
stessi.
Il giorno in cui riusciremo a sentire le grandi verità contenute
nei Vangeli come delle realtà vive e attive, tutto il nostro
essere interiore ne sarà purificato, illuminato, rigenerato. Sì,
perché quelle vibrazioni provenienti dal mondo dell’anima e dello
spirito vengono percepite dal nostro intero essere, e allora
qualcosa che sonnecchiava in noi si risveglia e si mette in
moto. I testi evangelici – benché certi eruditi ne critichino
spesso lo stile – sono paragonabili a correnti di forze che
hanno il potere di risvegliare la nostra anima a una vita nuova.
È ciò che si chiama “la seconda nascita”, la nascita del Cristo. ”

Omraam Mikhaël Aïvanhov

Auguri di Natale dalla Comunità dell ‘Isolotto a Firenze


Ho ricevuto questa mail da Enzo Mazzi della Comunità dell’Isolotto di cui sono onorata di aver fatto parte, anche se per breve tempo, tra il 1965 e il 1968 quando Enzo era ancora il parroco della chiesa in piazza dell’Isolotto a Firenze. Lo ringrazio per queste sue parole e pubblico con piacere questo suo messaggio di auguri.

AUGURI da parte di una comunità che tenta con fatica e con gioia di rinnovare costantemente il senso della fede cristiana inserendola giorno per giorno in quel crogiolo di fedi che è il cammino umano verso la liberazione.

Vi rendiamo partecipi del tema che accompagna quest’anno la nostra riflessione nella preparazione e nello svolgimento della veglia: “Il Natale e il lavoro“.
La Veglia si svolgerà alle “baracche”, via degli Aceri 1 Firenze, alle ore 22 del 24 dicembre.
E’ la quarantesima veglia di Natale “oltre le mura del tempio”.

fondata sull’assassinio sacrificale del lavoro.

 “La libertà che vi aspetta è la morte”, così Primo Levi nel 1959 traduceva la scritta “Il lavoro rende liberi” issata all’ingresso del campo di Auschwitz, ora trafugata. Ed è tremendamente attuale il suo commento: “Il disconoscimento, il vilipendio del valore morale del lavoro era ed è essenziale al mito fascista in tutte le sue forme”.
Le morti bianche, i suicidi, le morti morali, sociali e psichiche di licenziati, cassintegrati, immigrati, non sono episodi; sono il segno tragico del ritorno del “mito fascista” in questa trasformazione strisciante della Costituzione: non più “Repubblica democratica fondata sul lavoro” ma
Tutto questo ci obbliga a intensificare il ripensamento critico della nostra società, principalmente negli aspetti economici e politici ma anche in quelli culturali, etici e religiosi.
Il Natale ad esempio. Ci sono due modi opposti di intendere il Natale: come miracolo dall’alto o invece come evento totalmente iscritto nella storia e nella natura. Ora, il Natale concepito come miracolo dall’alto è in sé una condanna del lavoro perché è una condanna di tutta la storia umana e della stessa natura. Se c’è bisogno che Dio si faccia miracolosamente uomo per salvare il mondo, vuol dire che il mondo, l’evoluzione della vita, il genere umano e il lavoro, non hanno in sé capacità di salvezza. Sono in sé dannati. Il Natale non annunzierebbe la fine della maledizione del lavoro ma sarebbe un invito alla rassegnazione e alla solidarietà intesa solo come carità cristiana.
Ben altro è il senso della tradizione più antica presente fin dagli albori sia dell’ebraismo che del cristianesimo. La fede cristiana si rafforza se si nutre della forza vitale di Dio che vive nella storia. La fede cristiana torna credibile perché assume il sogno di liberazione e le lotte per i diritti dei lavoratori, uomini e donne, bianchi e neri, abili e disabili, credenti in un modo e credenti in un altro o in mille altri.
 
E’ questo lo spirito positivamente critico e creativo che animerà la nostra celebrazione del Natale.
*Il Natale e il lavoro spunti di riflessione; *performance di Saverio Tommasi tratta dal suo libro/testo teatrale “Cambio Lavoro”; *i bambini raccontano l’esperienza educativa che hanno fatta domenica 13 sul tema del “dono” anche in relazione al Natale e offrono in dono alla comunità il pane fatto da loro stessi; *testimonianze di persone direttamente coinvolte nei diversi ambiti: la crisi del lavoro e le lotte, testimonianze da alcuni luoghi simbolo – SEVES, Termini Imerese -, insicurezza e incidenti sul lavoro, testimonianze di parenti delle vittime e di operatori sanitari di “Medicina democratica”, le lotte contro la precarietà del lavoro, il lavoro sognato dai detenuti e negato, il lavoro, misconosciuto e pesantemente sfruttato, delle donne e uomini immigrati risorsa vitale per la nostra società in crisi, e finalmente la testimonianza di lavoratori della Zanussi la cui lotta coronata da successo è motivo di speranza per tutti; *canti del lavoro, letture, preghiere, convivialità.
Saremo felici della vostra partecipazione ma vi sentiremo vicini anche se assenti.
 
La Comunità dell’Isolotto di Firenze

“Riflessione” di Francesco dal carcere di Augusta


Una grande ragnatela scura,

riempita di chiara luce

mi fa da tetto.

Le nuvole incorniciano il quadro

di eternità di cui faccio parte.

La distorsione di una lacrima

mi ha permesso di vedere

diritto il mondo.

Lo sguardo bagnato di chi si sforza

di capire e capisce

è rapito dal volo leggero

di un uccello che mi conduce

in alto. Sempre più in alto.

E’ il sapore di una lotta

diluita nell’indifferenza

di occhi che vogliono “vedere”,

ma non vedono.

In questa cecità

sento di fronte a me

un mondo doloroso

e sempre più squallido.

Non ho sogni

e non mi disegno neppure

una visione futura

della mia esistenza.

Nelle mie parole

c’è innocenza  e bisogno di verità.

Vivo un giorno per l’altro,

senza quei miraggi

che sono “alibi”!

La parola “speranza”

si è smarrita, ma

se avessi una parola

per ogni singola sensazione,

non esisterebbero sufficienti penne

per scrivere “tutto”.

I miei occhi si sono aperti,

mi guardo intorno,

molti di noi hanno le ali.

Perché non le usano?