Dal carcere fiorentino di Sollicciano: Una lettera dalle ragazze addette agli asini


Con la presente, noi, ovvero il gruppo composto da Cinciu Dumitra, Charles Pamela, Massaro Stefania, Laccertosa Anna Maria e Botticelli Anna Maria, scelte fra tante per il progetto asino-terapia (Educare con gli asini), abbiamo sposato e accettato di prenderci cura delle ormai nostre Marina e Marinella (le asine in questione). Fin dal 11 gennaio 2010, giorno in cui sono arrivate in Sollicciano nello spazio recintato tutto loro all’aria, le abbiamo accolte con entusiasmo, cresciuto giorno dopo giorno. Siamo state colte da un minimo disorientamento iniziale, dato dall’organizzazione per gestire i nostri precedenti impegni di lavoro, con la loro cura che avviene tutti i pomeriggi. Le nostre ciuchine (nome che alterniamo con altri vezzeggiativi per riferirci a loro) all’inizio erano recalcitranti alle nostre attenzioni, standoci lontane. Mentre adesso si avvicinano con più sicurezza, scevra di timore. Non è stato facile abbonirle ma con la nostra costanza ci siamo recate tutti i giorni, sia con il vento forte che con la pioggia e neve. Senza pensare al fango che imbrattava i nostri vestiti e le scarpe. Abbiamo superato anche la fatica di riempire i secchi d’acqua, prima che venisse introdotto un rubinetto all’interno della stalla. Neanche le ultime giornate d’afa ostacolano la nostra andata. Sino ad una ventina di giorni fa riempivamo cassette d’erba che abbiamo estirpato dal cortile. Da subito abbiamo raccolto il pane avanzato e dalla cucina, dove lavorano un paio di noi, ci occupiamo di conservare le bucce del taglio di carote, di cui sono ghiotte, foglie di verza e broccoli e pere che anzichè mangiarle noi le portiamo volentieri a loro. Poi mangiano disinvolte le caramelle, in particolare alla frutta. Ci preoccupiamo di rimuovere la segatura e la paglia dalla stalla, dato che la usano come se fosse un water, perchè vogliamo siano pulite. Questo avviene non solo quando le abbiamo tenute chiuse (consigliate da Tommaso – il ragazzo che ci sta formando e che viene un paio di volte a settimana – per permettere all’erba di crescere) ma anche adesso che sono prevalentemente aperte, in quanto all’interno lasciamo il mangiare che portiamo loro. Poi, anche perchè il giorno dopo anche loro ci lasciano qualcosa, come dicevamo i loro bisognini. Siccome da subito abbiamo saputo che erano incinta, ci siamo preoccupate e ci preoccupiamo che vivano il loro periodo di gestazione nel modo più confortevole possibile e per cui chiediamo una visita di un veterinario che si/ci assicuri del buono stato e che dia scadenze più precise inerenti il parto. Fra noi e loro si è creato un bel rapporto, noi proviamo affetto ma anche questo sentimento è in crescendo. Poiché siamo accorte ad ogni loro minimo raglio non solo quando siamo in loro compagnia ma anche quando siamo in cella. Spesso ci affacciamo pensando di sporgere ciò che fanno. Loro ci inteneriscono tanto anche quando, prima di mangiare i cibi sopracitati, tendendoli con la nostra mano, li annusano. Poi sono spettacolari quando si sdraiano o si grattano sia a terra che sui rami e tronchi degli alberi; sono proprio da immortalare con delle foto, magari per un calendario! Siamo convinte che anche loro ci vogliono bene, si sono affezionate a noi, altrimenti non spieghiamo perchè appena ci vedono giungere emanano ragli diversi da quelli che fanno tutte le volte che qualcuno si avvicina al recinto. Quelli rivolti a noi sono festosi e ciò ci fa provare tanta gioia. Noi siamo fiere di loro, di essere riuscite ad ammansirle e renderle parte della nostra vita. Raccontiamo un breve aneddoto che concorre a confermare l’unione del gruppo. Attendiamo la nascita dei ciuchini/e o ciuchetti/e e fantasticando sui nomi, poi ci chiediamo se nasceranno femmine o maschi. Questo dilemma ci fa desistere dal comprare un fiocco azzurro o rosa. Eh sì, perchè noi le trattiamo come se fossero umane, proprio come noi. In conclusione chiediamo di non rimuovere l’incarico in cui abbiamo creduto dall’inizio fermamente. Abbiamo saputo con certezza che dal 1° giugno 2010 il progetto si tramuterà in un lavoro, dato che adesso è l’Istituto che provvede a retribuire. Anche se ciò non avviene da due mesi. La nostra è una vera preoccupazione e delusione se ciò dovesse accadere. Fra un po’ nasceranno i ciuchetti e sapere che saremo sostituite da altre ragazze ci ferisce. Chiediamo pertanto gentilmente che l’associazione intervenga affinchè ciò non avvenga. Cordiali saluti.

Le ragazze addette agli asini

Passeggiando con gli amici detenuti nel parco dell’hangar di Augusta


di Daniela Domenici

Chissà se molte delle persone di Augusta che ieri mi hanno incontrato tra i viali del parco dell’hangar o si sono fermate a salutarmi al tavolo davanti alla bancarella dei panini si sono chieste chi fossero quei signori con cui chiacchieravo e scherzavo così amabilmente e serenamente, unica donna in mezzo a tanti uomini.

Chissà, forse, se avessi detto loro che erano alcuni dei dodici detenuti del carcere di Augusta che ogni giorno escono, grazie al progetto “Reload” basato sull’art.21, per lavorare all’esterno e rientrano poi nella casa di reclusione, avrebbero girato alla larga o sarebbero addirittura fuggite inorridite all’idea che dei detenuti possano stare in mezzo alla gente “normale” senza fare qualcosa di male e, soprattutto, che la sottoscritta, nota in città come madre, moglie, docente e tante altre cose, si mescolasse con questa fetta emarginata della società.

Eppure tutto questo è potuto succedere grazie alla splendida iniziativa del presidente dell’Hangar Team di Augusta, il dott.Saccomanno, di cui ho parlato nel mio articolo di ieri.

Alessandro A, Angelo F, Francesco L, Giovanni L, Giovanni C, Giovanni U, Leandro C, Orazio F, Salvatore C, Salvatore I, Sergio C e Simone R, undici di loro siciliani e solo uno campano, con condanne diverse ma uniti dalla voglia di dimostrare che la fiducia in loro riposta è stata ampiamente ripagata dando così attuazione pratica al dettato dell’art. 27 della Costituzione che parla di rieducazione per un reinserimento nella società, ringraziano, tramite me, il presidente dell’Hangar Team per questo regalo che è stato loro fatto: trascorrere un fine settimana fuori dalla loro “vita ristretta” mescolandosi tra la gente qualunque.

Dal carcere di Spoleto: l’uomo ombra


 di Carmelo Musumeci

Ho ricevuto questa domanda nella rubrica della “Posta Diretta” che tengo nel sito di www.informacarcere.it

Voi ergastolani vi definite “Uomini ombra” ma non pensate alle persone che sono morti per causa vostra che non hanno neppure più la loro ombra? Sono d’accordo con lei solo di una cosa “Chi vuole giustizia in realtà desidera vendetta.” Io lo ammetto, voglio vendetta. Spero che lei non esca mai e che muoia in carcere.

 Ho risposto in questo modo

Chi violenta, uccide, mangia bambini o ammazza persone inermi e innocenti difficilmente è condannato all’ergastolo.

Molti di loro scelgono riti alternativi, altri collaborano o scelgono di usare la giustizia per avere sconti di pena.

E anche se alcuni di essi sono condannati all’ergastolo, non è mai quello ostativo a qualsiasi beneficio ma quello normale che dopo dieci anni puoi uscire in permesso, a venti in semilibertà e a venticinque in condizionale.

Lei non sa, o fa finta di non sapere,  che su 1400 ergastolani saranno una trentina quelli che hanno sulla coscienza morti innocenti.

Tutti gli altri sono stati condannati all’ergastolo perché sono riusciti a sopravvivere a guerre interne alla malavita organizzata.

E fra gli ergastolani ostativi sono pochissimi quelli condannati per omicidi di persone innocenti, forze dell’ordine o altro.

Tutti parlano bene dei morti e male dei vivi, se fossi morto nei numerosi attentati che ho subito, forse parlerebbero bene anche di me.

L’ho detto molte volte: nella malavita organizzata sia i vivi, sia i morti, sono colpevoli.

Non ci sono vivi cattivi e morti buoni,  come non ci sono vivi buoni e morti cattivi.

Infatti, molti anni fa era difficile che omicidi maturati nella malavita fossero condannati alla pena dell’ergastolo.

Molto tempo fa l’ergastolo ostativo non esisteva.

Solo esigenze politiche hanno portato a condannare ragazzi di 18-19 anni alla pena dell’ergastolo ostativo e imprenditori, finanzieri e politici corrotti a pochi mesi di carcere.

In guerra non ci sono soldati buoni e soldati cattivi,  ci sono solo soldati che si ammazzano fra loro.  Lo Stato, che li ha condannati e  dopo la condanna li ha usati come trofei politici, è responsabile del fatto che questi ragazzi sono cresciuti nell’illegalità amministrativa e culturale, frutto dell’abbandono più totale da parte delle stesse Istituzioni che avrebbero dovuto tutelarli.

Questa è la verità storica, oggettiva e sociologica che i mass media nascondono.

Io non credo che la Giustizia/vendetta si ottenga con il carcere a vita  perché se lo Stato agisce come i criminali,  dove sta la differenza fra noi e loro?

Un uomo per essere giusto dovrebbe avere pietà e perdonare anche a rischio di farsi ingannare.

Io una volta avevo perdonato un mio nemico e dopo un po’ di tempo sono stato ringraziato da lui con sei pallottole ma non ho mai rimpianto di averlo perdonato.

Per il resto preferisco non uscire mai e morire in carcere che diventare “criminale” come lei.

Buona vendetta.

Quando la solitudine si trasforma in tragedia


di Liana Baroni – *Presidente dell’ANGSA (Associazione Genitori Soggetti Autistici).

Nonostante tanti documenti e Linee Guida prodotti negli anni scorsi, i diritti dei bambini con autismo ad essere curati con terapie valide ed efficaci, ad essere educati e a vivere in modo sereno nella società sono ancora continuamente calpestati. Dal canto loro i servizi sociali e sanitari continuano a dimostrarsi impreparati culturalmente e inadeguati a dare risposte sia per i bambini che per gli adulti con autismo. Eppure, nonostante ne siano ancora sconosciute le cause, l’autismo può ugualmente consentire una buona qualità di vita, grazie a trattamenti intensivi e precoci. Si tratta di riflessioni quanto meno necessarie, nell’assistere alle ripetute tragedie che hanno per protagonisti familiari di persone con autismo, ultima delle quali la terribile vicenda di Gela, in Sicilia, che nei giorni scorsi ha visto una madre annegare i due suoi bambini con autismo

Il 2 aprile è stata la Giornata Mondiale dell’Autismo e poche testate lo hanno ricordato, nonostante il comunicato stampa prodotto per l’occasione dall’ANGSA (Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici) e da F.A.N.T.A.Si.A (Federazione delle Associazioni Nazionali a Tutela delle Persone con Autismo e Sindrome di Asperger) [lo si legga nel nostro sito cliccando qui, N.d.R.].
A pochi giorni da questa data una tragedia: una mamma disperata, senza lavoro, esce di senno alla notizia che anche il secondo figlio, come il primo, è autistico e con il gesto più terribile, cerca di far cessare quello strazio al quale non sa far fronte da sola [la notizia di cronaca cui si fa riferimento è avvenuta a Gela, in Sicilia, il 23 aprile scorso e se ne può leggere cliccando qui, N.d.R.]. Questa mamma verrà certamente condannata: certo, ha commesso il più terribile dei reati, ma la frequenza di episodi di questo tipo (“papà spara al figlio autistico”, “mamma che si getta dalla finestra col figlio autistico”) dovrebbe far riflettere e spingere a chiedersi se non sia il caso piuttosto di cercare altre responsabilità per queste tragedie.

Nel 2004 sono state emanate dalla Società dei Neuropsichiatri Infantili le Linee Guida per l’Autismo. Ormai tutte le Regioni italiane hanno promulgato Linee Guida per la riorganizzazione dei servizi per l’autismo, quasi ovunque obsoleti e insufficienti. Nel 2008 il Ministero della Salute ha emanato un documento sul trattamento delle sindromi autistiche. Anche in Italia è stata approvata la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, diventata la Legge Nazionale 18/09 nel marzo del 2009.
Eppure, nonostante tutti questi documenti, i diritti dei bambini con autismo ad essere curati con terapie valide ed efficaci, ad essere educati e a vivere in modo sereno nella società sono ancora continuamente calpestati. I servizi sociali e sanitari non sono né preparati culturalmente, né adeguati nelle risposte a questo problema. Né per i bambini né per gli adulti autistici sono sufficienti le attuali scarsissime proposte di intervento e le famiglie, da sole, «devono affrontare i colpi di una sindrome poco studiata, i pregiudizi che l’accompagnano, il disinteresse e l’incompetenza delle istituzioni» (dal libro di Mauro Paissan Il mondo di Sergio del 2008 [se ne legga cliccando qui la nostra presentazione, N.d.R.]).

Vero è che l’autismo è sconosciuto nelle sue cause, ma è pur vero che con trattamenti intensivi e precoci è possibile fare un percorso riabilitativo ed efficace, in seguito al quale si può avere una buona qualità di vita, sia per il bambino/adulto con autismo che per la sua famiglia; è dunque un dovere per i Servizi aggiornarsi e far sì che le varie Linee Guida non rimangano teoria. Cominciano ad apparire sul territorio nazionale, spesso sollecitati dalle associazioni di genitori come l’ANGSA, alcuni Centri di Diagnosi e Riabilitazione, che purtroppo sono ancora troppo rari, ma sono una dimostrazione che una riorganizzazione dei servizi è possibile e fattibile in tempi ragionevoli e devono essere esempi da seguire.

Chiediamo alla stampa e ai mass-media in genere di essere vicini ai problemi dell’autismo, una delle disabilità più frequenti e invalidanti, di dar voce  alle famiglie che ogni giorno debbono farsi carico di ogni tipo di problema – anche di quelli che non spetterebbe loro risolvere – e cerchiamo di avere pietà di questa mamma che ha visto il proprio amore trasformarsi in dolore e la propria solitudine in tragedia.

da www.superando.it

Voci da altre carceri italiane, non più da Augusta


Sabato scorso ho scritto le parole che leggerete più oltre, dal carcere di Augusta non mi fanno arrivare più alcuna letterae dal carcere di Spoleto mi arrivano addirittura…libri di poesie…

 leggete con che parole semplici e deliziose un detenuto di quel carcere mi ha voluto mandare un libro di sue poesie…

Ciao Daniela, il mio amico Carmelo, di sezione mi a dato il tuo indirizzo dicendomi, siccome hai letto su Internet le mie poesie, e ti sono piaciute molto, e se ti potevo mandare un libbro, hai un talento meraviglioso a capirle…Nicola“. Giorno per giorno ne pubblicherò una.

Grazie Nicola e grazie Carmelo.

Alla fine ce l’hanno fatta: sono riusciti a spegnermi, depongo le armi, mi arrendo, tanto hanno fatto finché oggi dichiaro ufficialmente spenta la VOCE DEL CARCERE DI AUGUSTA sul web, prima hanno fatto in modo che me ne andassi come volontaria, poi hanno filtrato e bloccato (anche se non potrò mai dimostrarlo) le lettere in uscita destinate a me.

Da oggi continuerò a scrivere sul PIANETA CARCERE come sempre perché non posso farne a meno sia traendo spunto dalle notizie sul web che dalle lettere che mi arriveranno da altre carceri ma di quello di AUGUSTA, di tutto quello che vi succede in positivo (corale e presepe tra tanti) e negativo non potrò più scriverne, nessuno saprà più, nel bene e nel male, cosa accade là dentro, almeno sul web

Era quello che volevano e che sono riusciti a ottenere”.

Niente carcere, terza settimana…


di Daniela Domenici

Ancora silenzio stampa dal carcere, che strano ma, poi, mica tanto… me l’aspettavo, purtroppo, ma non credevo che sarebbe davvero successo, che si potesse arrivare a tanto, filtrare e bloccare le lettere in uscita destinate a me…

…”L’art.17 (della legge penitenziaria) consente l’ingresso in carcere a tutti coloro che “avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di poter utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera…” da www.giustizia.it

Ecco, noi eravamo entrati in carcere come volontari con questo articolo e per questo scopo, ci abbiamo messo il cuore e l’anima, ci abbiamo investito tanto del nostro tempo, tre mattine la settimana, perché credevamo e crediamo ancora in quello che recitano le parole sopra riportate.

Purtroppo il nostro interesse alla risocializzazzione (art 27 della Costituzione) non è stato apprezzato da chi avrebbe dovuto anzi, al contrario, è stato visto come demoniaco, intrusivo, insomma penalizzato; pazienza, ci sono tante altre strutture penitenziarie nel circondario che hanno bisogno di gente di buona volontà come noi, ci rivolgeremo altrove sperando di trovare interlocutori più disponibili, aperti e illuminati; altrimenti ci rimarrà il ricordo di quanto ci abbiano fatto crescere le persone detenute con cui siamo venute in contatto in questi due anni.

Niente più carcere, quinto giorno: Augusta e i “ragazzi” dell’art. 21


di Daniela Domenici

Da quasi due mesi in vari luoghi della città di Augusta capita di incontrare un gruppo di uomini facilmente riconoscibili perché indossano il regolamentare giubbotto arancione: sono detenuti che usufruiscono, per la prima volta nella storia del carcere di Augusta, della semilibertà prevista dall’art. 21 della legge penitenziaria 354 del 26.11.1975 il cui testo integrale potete leggere a questo link

http://www.ristretti.it/areestudio/lavoro/norme/op.htm

Il pianeta carcere, di cui si parla troppo poco e, spesso, a sproposito, per la sottoscritta è molto importante dato che, per più di due anni, è stata volontaria (e da cinque giorni non lo è più ma non per sua volontà), insieme al marito, all’interno del carcere di Augusta.

Questi “ragazzi”, che sono in questi mesi a lavorare per migliorare il verde pubblico nei luoghi dove è richiesto dal contratto di lavoro, si stanno facendo notare, solo in positivo, per la solerzia con cui stanno eseguendo i compiti loro richiesti e per la correttezza esemplare del comportamento; sono uomini di età diverse, con condanne diverse e con luoghi di provenienza diversi ma accomunati dalla voglia di dimostrare che si può cambiare, che ci si può riscattare, che si può meritare la fiducia in loro riposta dal magistrato di sorveglianza che ha concesso loro questo permesso.

Undici di loro sono italiani, uno solo è albanese ed è anche l’unico che ci ha appena lasciati perché ha ottenuto l’affidamento per lavorare in un’altra regione dato che gli mancano pochi mesi per finire di scontare la sua breve condanna, uno dei “magnifici undici” è napoletano, gli altri dieci tutti siciliani di varie province.

“Breve storia della mia vita” dal carcere di Augusta


Mi è arrivata questa lettera da un giovane trentenne attualmente detenuto nel carcere di Augusta che conosco personalmente, mi ha dato il permesso di copiarla e pubblicarla quasi integralmente senza, naturalmente, il suo nome e cognome, ho voluto condividerla con voi.

…Sono nato in un quartiere di Torino denominato Bronx, un ammasso di case popolari sovraffollate da famiglie meridionali, di tutto il sud Italia. Ultimo di 5 figli, entrambi i miei genitori sono calabresi, sono cresciuto nell’ignoranza più profonda e conoscevo un solo linguaggio, la violenza, più lo eri più eri qualcuno in quel ceto sociale. Il falso senso del rispetto e dell’onore ci accompagnava quotidianamente e così crescemmo devastando noi e tutto ciò che ci circondava; io mi sono sempre sentito diverso, ero molto astuto e stratega, un leader fin da bambino; tutto compravamo con la “banconota del timore” e convinti che fosse tutto normale, crescevamo, io ed i miei coetanei, oggi sono tutti morti per overdose, per malattie…e chi è vivo, chi è sopravvissuto è in carcere come me.

Quando avevo 13 anni mia madre si ammalò, aveva 44 anni, l’amavo ed era davvero buona, brava e unica. Lei si ammalò ed io trascorsi con lei, al suo capezzale, 2 anni d’ospedale, abbiamo girato tutti gli ospedali principali d’Italia (centri tumore), quando io compivo 15 anni d’età lei morì, io la vidi (senza poter far nulla per salvarla) morire lentamente per due anni, giorno dopo giorno, il suo ultimo abbraccio è stato il mio, con lei morivo anche io e non mi diedi più pace.

Me ne andai di casa il giorno stesso che lei se ne andò e con i miei 15 anni d’età, un paio di jeans e una magliettina, niente altro, senza meta, senza soldi e vuoto nel cuore. Ce l’avevo con il mondo intero e con Dio che non ascoltò la mia unica preghiera, di lasciare mia madre in vita. La ferocia e la crudeltà torturarono me e la mia giovane vita, superai i confini del delirio ed altre realtà indefinibili; passai due anni, fino ai 17 anni, in totale auto-distruzione; poi Dio ebbe pietà di me e mi fece ritornare un essere umano: conobbi una ragazza di 10 anni più grande di me che mi amava, convivemmo per un anno fin quando non fui chiamato al servizio militare. Il 10.08.94 dovevo presentarmi alla caserma dei parà di Pisa, lasciai la ragazza e partii per questa nuova esperienza ma io ero già un uomo sofferto e cresciuto troppo in fretta; lì se ne accorsero e per un mese fui super sorvegliato perché ritenuto troppo impavido e severo. Così mi chiamarono e mi congedarono in quanto a loro dire ero “inassociabile alla vita militare”, avevano ragione. Io ero lì, in realtà solo per rimodellare, addestrandomi ad essere più potente e sofisticato: avevo troppa rabbia dentro.

All’età di 20 anni fui arrestato dietro le accuse di un altro delinquente, per omicidio, rapine, porto abusivo di armi e munizioni, ricettazione e lesioni gravi. Fui sbattuto in una cella d’isolamento nel supercarcere Le Vallette a Torino, picchiato e trattato malissimo dalle “giubbe blu” (così chiamavo io le guardie) per circa 6 mesi in un sotterraneo angusto; poi mi portarono nella sezione “comuni” insieme ad altri reclusi; lì mi accorsi subito che avevo terreno fertile per dare sfogo alla mia rabbia interiore. Le Vallette è un carcere che contiene circa 2000 reclusi d’ogni nazionalità e d’ogni specie; io ero uno dei più giovani ma sempre in assoluto un super rispettato, anche i più grandi mi temevano, non so bene ancora oggi il perché ma questo fu di certo un bene. Una continua guerra tra me e le giubbe blu, il motivo era perché mi ritenevano un indisciplinato, rispondevo sempre, non abbassavo mai la testa e se mi accerchiavano per minacciarmi, reagivo (della mia vita non mi importava più niente). Continuai così per i primi 6 anni di carcere, poi si decisero a trasferirmi in Toscana, a Volterra, perché potessi essere inserito nel contesto scolastico; lì vi passai 5 anni e studiavo come geometra ma nonostante mi trovassi bene e cercai di evitare ogni “disguido” restandomene per i fatti miei ancora una “giubba blu” di origine sarda, alcolizzato, mi prese in antipatia, così mi perseguitò per circa un anno, io evitavo e non lo pensavo minimamente ma si impuntò; così un giorno mi scagliò contro un altro detenuto arabo che era il suo zerbino, questa magrebino pensava di potercela fare con le mani ma io ebbi la meglio. Così fui immediatamente trasferito per punizione al carcere dell’Ucciardone con l’applicazione del regime di sorveglianza speciale, il cosiddetto 41bis, che consiste in un isolamento totale da tutto e tutti e viene applicato a chi è ritenuto pericoloso in carcere. In sostanza mi fecero scontare 2 anni di isolamento e poi nel 2007 mi trasferirono dall’Ucciardone al carcere di Augusta.

Ora sono 3 anni che sono qui, mi fanno frequentare da 2 anni il corso di ceramica e nient’altro. Forse questo 2010 dovrebbe portarmi un po’ di luce…

Ecco, cara Daniela…ci tenevo che tu sapessi il mio difficile percorso di vita…

Sono cresciuto solo, senza affetti e senza amore; ora sono stanco da diversi anni e voglio uscire perché del carcere ne ho la nausea…vedremo, sono ottimista e realista per carattere…

…Riconoscere il proprio passato, riaffrontarlo più volte è senz’altro il primo passo per cominciare in maniera più sana un nuovo cammino, io l’ho fatto, lo faccio e se sarà necessario lo rifarò. Ritengo inoltre che nessuno di deve far vincere dalla paura o dalla vergogna perché siamo (tutti gli esseri umani) organicamente precisi ma mentalmente imperfetti. Io ne sono l’esempio! Ciò non mi scoraggia ma bensì mi dà la forza maggiore per dire che siamo grandi per quanto grandi siano le nostre sofferenze e umili per quanto più siamo disposti a riconoscere i nostri errori. Un giorno, spero non molto lontano, avrò anche io l’occasione di mettere in atto ciò che sono e forse guardando negli occhi dei miei amici futuri e della gente in genere potrò riscoprirmi un uomo nuovo, il mio riscatto sta in essi e negli occhi di un bambino…magari il mio !…

Carcere: il “dentro” e il “fuori”, riflessioni di Francesco dal carcere di Augusta


Caro amico lettore,

la libertà di scegliere segna la vita delle persone. E fa la differenza.

Il carcere, inconsapevolmente, alimenta i miti del “fuori”: l’amore, il lavoro, la felicità domestica, la vita di relazione. Spesso, invece, libertà significa fare i conti con una vita mediocre, solitaria, povera, a volte difficile e riuscire a tenerle testa. Per chi fuori non ha nulla il carcere può diventare persino un posto dove si “desidera” rimanere o ritornare. Brooks, il detenuto bibliotecario del film “Le ali della libertà di Frank Darabont, preferisce morire: dopo aver fatto il carcerato per cinquant’anni non regge l’impatto con la libertà e si uccide. Storia di celluloide emblematica di tate vite reali segnate dal “meternage” maligno dell’istituzione totale.

Ma anche quando il carcere è “buono” gli effetti possono essere devastanti.

Il portone che si apre spaventa. Se poi si apre all’improvviso restituendo la completa libertà dopo anni, decenni di detenzione è ancora più spaventoso.

Il “dentro” e il “fuori” sono tuttora incapaci di incontrarsi sul terreno comune della realizzazione degli obiettivi.

Nel nostro paese il “fuori” di cui il carcere dovrebbe nutrirsi per produrre libertà ha diverse facce. Anzitutto quella del territorio. Regioni, province, comuni, scuola, privato sociale. Un mondo che cammina sulle gambe dei “civili”, come vengono chiamati gli operatori sociali, i volontari e tutti coloro che appartengono all’amministrazione penitenziaria. “Fuori” c’è anche la magistratura di sorveglianza alla quale un legislatore illuminato ha affidato la tutela dei diritti dei reclusi. Infine il “fuori” è il terreno su cui i detenuti muovono, grazie alla legge Gozzini, i primi passi verso la libertà.

In effetti, se applicata, la legge Gozzini è, ad oggi, la risposta più efficace alla rieducazione e al reinserimento nella società civile. La ricchezza di un territorio, le opportunità lavorative e la capacità di una città di sentire il carcere come parte integrante del proprio tessuto sociale costituiscono un enorme valore aggiunto per dare significato alla pena detentiva. Ma non è così dappertutto.

Il sistema carcerario continua a considerare “la chiave” il simbolo della sicurezza ma, più sono le mandate, più sale la recidiva. Ha rinunciato al cambiamento. Dai prigionieri pretende redenzioni miracolistiche ma non fa alcuna revisione critica su se stesso, sulla propria cultura e sul proprio modo di operare.

La verità è che, nel nostro paese, il carcere rappresenta uno strumento di straordinaria ingiustizia e di annullamento della persona umana.

L’intenzione di riabilitare si rivela solo una vuota retorica perché quel che realmente si presenta all’interno del carcere è un quadro di assoluta ingiustizia mascherata dal pretesto di fare GIUSTIZIA.

In buona sostanza è il carcere come istituzione che deve essere messo sotto accusa ove sveli il suo volto primitivo quale strumento di annullamento della persona umana, quale strumento di de-umanizzazione. In pratica il carcere è concepito come un microcosmo chiuso in cui regnano orari, regole e modus vivendi in tutto peculiari e comprensibili solo a chi, per condanna o per lavoro, è tenuto a trascorrere nel carcere buona parte del suo tempo. In un così spazio si innescano dinamiche di apprendimento troppo spesso distorte che incrementano il disadattamento sociale e cultura violenta del recluso trasmettendogli la sensazione di non poter più sperare in una vita migliore. Viceversa, in un luogo di esecuzione penale, un detenuto deve sviluppare una giusta percezione della società e acquisire una competenza idonea a procurarsi onestamente e decorosamente da vivere una volta restituito al mondo libero.

Se si vuole un carcere che non sia fabbrica di alienati, asociali, di recidivi, occorre testimoniare una maggiore stima nelle persone detenute perché possano fare un cammino di riabilitazione sociale, bisogna farsi carico dei problemi e dei vissuti delle persone detenute. Ma, ahimè, la società è sorda.

Forse è giocoforza ammettere che il carcere è esso stesso un luogo della società e non un luogo al di fuori della società. Evidentemente è ancora lontana da una coscienza civile diffusa di questa necessità di affrontare il carcere, di pensarlo non come una discarica sociale, un magazzino di carne umana, un cimitero dei vivi perduti per sempre ma come luogo sociale dal quale far partire pratiche e processi di risocializzazione sottraendo quanto più spazio possibile all’isolamento e all’afflizione per realizzare alternative socialmente utili alla reclusione.

Occorre , prima di tutto, una presa di coscienza perché sia possibile operare una revisione e una trasformazione dell’attuale cultura fondata sull’eternità del giudicato penale, sull’irreversibilità delle pene erogate che non lasciano spazi, oggi, ad altre logiche che a quella concentrazionaria, di un carcere “custodiale” come unica ed eterna risposta: perché le carceri non siano luoghi in cui il senso della vita di ciascun individuo è destinato a scomparire è necessaria una “catarsi”, una sua radicale trasformazione.

Il presepe nel carcere di Augusta


di Daniela Domenici

Da un incontro casuale tra un’artista locale e un detenuto agli arresti domiciliari nella casa-accoglienza della Caritas cittadina è nata, tra una chiacchiera e l’altra, l’idea di costruire il presepe, per la prima volta, all’interno della casa di reclusione di Augusta.

Pinina Podestà, una brava pittrice surrealista, nata a Catania ma tanto tempo residente ad Augusta, che per vari anni, su incarico del Comune di Augusta, ha costruito il presepe cittadino nell’androne del Municipio o, l’anno scorso, in una chiesa della via Garibaldi, ha scelto, questo Natale, di accettare questa nuova “sfida artistica”: con l’aiuto di alcune persone detenute a cui ha dato istruzioni mostrando loro come fare, ha costruito, in uno dei corridoi della zona “trattamentale” del carcere, uno splendido presepe di dimensioni davvero ragguardevoli in cui hanno trovato posto le stesse statuine utilizzate nel presepe municipale degli anni precedenti.

Queste statuine sono di proprietà del Museo cittadino di Storia Patria, rappresentato dall’avv. Salerno che, nonostante l’età anagrafica avanzata che non corrisponde a quella che dimostra, ha seguito da vicino, come ha fatto ogni anno, anche questo presepe dando preziosi suggerimenti all’artista in corso d’opera.

E’ superfluo sottolineare l’importanza di questo evento non tanto per l’oggetto in sé, il presepe, ma per le dinamiche di socialità, di collaborazione, di apprendimento che si sono costruite tra l’artista e le persone che hanno collaborato con lei, sempre nell’ottica dell’art.27 della nostra Costituzione che sottolinea quanto la detenzione debba servire alla rieducazione della persona ristretta in vista di un suo reinserimento nella società.

Per chi volesse dare un’occhiata ai presepi che Pinina Podestà ha costruito negli anni scorsi ecco il link:

www.pininapodesta.it

P.S. Non appena mi verranno fornite, dalla direzione del carcere, le foto del presepe sarà mia cura pubblicarle.