Urbino, nonna superdottoressa: è alla quarta laurea


A 94 anni suonati, Adriana Iannilli, si e’ laureata oggi alla facoltà di Scienze giuridiche dell’Università di Urbino in consulenza del lavoro, con il prof. Paolo Pascucci. La signora romana che aveva già battuto il record di matricola più anziana d’Italia. Solo un anno fa, la facoltà di Giurisprudenza dell’Ateneo le aveva consegnato l’alloro (voto finale 110 e lode) per una tesi sulla violenza alle donne. La supernonna – anzi, la ’superdottoressa’ -, che sembra annoveri nel suo passato anche qualche esperienza da modella, e’ laureata pure in Lingue orientali e Scienze politiche. Il suo personalissimo cammino di conoscenza inizia nel 2004, quando il vuoto lasciato dalla morte del marito la spinge a frequentare l’Università della terza età. Ma i corsi non la soddisfano e allora ecco che, alla bella età di 88 anni, si iscrive all’Università ‘vera’, e precisamente alla facoltà di Scienze politiche di Viterbo, sobbarcandosi peraltro la spola tra Roma e la sede universitaria. Il resto della strada e’ tutto in discesa, e oggi eccola di nuovo a raccogliere i frutti della sua eccezionale ‘carriera’ da studentessa. Vestita in turchese (evidentemente il suo colore portafortuna), come le volte precedenti, Adriana ha annunciato che non c’e’ quattro senza cinque, e che è pronta a farsi di nuovo sotto per il quinto titolo accademico.

da www.blitzquotidiano.it

“Luci e colori del paesaggio augustano”


di Daniela Domenici

Ha appena avuto luogo, presso la sede della Stella Maris in via Umberto ad Augusta, l’inaugurazione della mostra di quadri, dal tema “Luci e colori del paesaggio augustano”, organizzata dal circolo culturale “Officina d’arte”.

Dieci gli autori le cui opere potranno essere ammirate fino al 19 maggio, otto uomini e due donne e, per una sorta di cavalleria al contrario, nell’elencare i loro nomi inizierò proprio da loro: Grazia Urzì, Cinzia Sciolto, Antonio Cammarata, Palmino Cipriano, Salvo Di Grande, Franco Di Maura, Carmelo Fazio, Giuseppe Guerriero, Salvo Pugliares e Salvo Tringali.

Ha presentato la serata con la solita garbata ironia con cui condisce il suo eloquio sempre vario e pregnante Giorgio Càsole, docente, giornalista e poeta, che ha voluto accanto alcuni dei suoi allievi per leggere alcune poesie e un brano che ricorda il bombardamento della città di Augusta nel maggio del 1943.

Durante la serata è stato anche premiato un atleta augustano, Gianfranco Nasti, per cui l’età anagrafica è solo un dettaglio perché ama ancora mettersi alla prova per superare record nella specialità del nuoto.

La situazione: dodici suicidi dall’inizio dell’anno. Storie di ordinaria emergenza. Una quotidiana strage di legalità, diritto, vite umane


 di Valter Vecellio 

La strage di legalità e di diritto, e dunque di vite umane è particolarmente pesante in carcere. C’è chi prende un lenzuolo, ne fa una corda e si impicca, succede nel penitenziario di Padova, dove un detenuto di 27 anni, tunisino, è evaso così, dal carcere. Oppure, come ha fatto un altro detenuto a Siracusa, dopo il colloquio si butta dalla tromba delle scale del carcere, e ora è in coma. Nelle stesse ore, nel carcere romano di Rebibbia un detenuto in italiano si impiccava. Come ha fatto l’altro giorno un detenuto a Brescia. Sempre nelle stesse ore, nel carcere perugino di Capanne, dove a causa del sovraffollamento alcuni detenuti non hanno neppure una branda e devono dormire su dei materassi a terra, nelle ultime ore ci sono stati due tentativi di suicidio; un terzo detenuto ha minacciato di ferirsi con dei vetri. Protagonisti di tentativi di suicidio sono stati un nordafricano, che ha ingoiato delle lamette, ed un tossicodipendente italiano, che ha infilato la testa in un sacchetto di nylon per inalare il gas contenuto all’interno di alcune bombolette. Del terzo episodio è stato protagonista un detenuto per questioni di droga italiano, che dopo aver rotto lo specchio del bagno, ha minacciato di tagliarsi la gola perché i giudici – ha spiegato – non l’hanno scarcerato.

 Per quello che è dato sapere, dall’inizio dell’anno sono dodici i detenuti che si sono tolti la vita. Erano in prevalenza persone giovani (6 con meno di 30 anni) e in carcere per reati non gravi, alcuni appena arrestati ed altri prossimi alla scarcerazione. Solo in 3 casi si prospettavano detenzioni lunghe.

 Vincenzo Balsamo, suicida a Fermo martedì scorso, prima di morire aveva presentato un ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo contro il sovraffollamento del carcere dove era ristretto.

 Confrontando il tasso di sovraffollamento delle carceri dove sono avvenuti i suicidi di quest’anno con il numero totale dei suicidi registrativi negli ultimi cinque anni emerge che la frequenza dei suicidi arriva a triplicare nelle condizioni di maggiore affollamento, ma anche di particolare fatiscenza delle celle.

 Il “primato negativo” spetta al Carcere di Cagliari, con 506 detenuti (affollamento al 146%) e 11 suicidi in 5 anni, con la frequenza di 1 suicidio ogni 46 detenuti. A San Vittore, con 1.127 detenuti (affollamento al 242%) e 13 suicidi in 5 anni, la frequenza è di 1 suicidio ogni 86 detenuti; quindi l’affollamento è quasi doppio, ma ci si suicida la metà!

 Sulmona, che ha la triste nomea di “carcere dei suicidi”, si colloca al secondo posto: con 481 detenuti, affollamento al 159% e 6 suicidi negli ultimi 5 anni registra una frequenza di un suicidio ogni 80 detenuti.

 Il carcere meno affollato è Spoleto: 565 detenuti e affollamento al 124%; in 5 anni vi sono avvenuti 5 suicidi, 1 suicidio ogni 113 detenuti (la metà di San Vittore e 1/3 del Buoncammino di Cagliari).

 Il carcere con la minore frequenza di suicidi è Verona, nonostante un affollamento del 162% (956 detenuti e 3 suicidi in 5 anni, pari alla frequenza di 1 suicidio ogni 318 detenuti). Questo risultato positivo è probabilmente in relazione con le numerose attività lavorative, culturali e sportive che vi si svolgono e che consentono ai detenuti di trascorrere parte della giornata fuori dalla cella.

 Torniamo a Roma, Rebibbia, per una storia che lascia perlomeno perplessi. C’è un detenuto, Antonio: non riesce a parlare perché a tratti la parola gli si inceppa, non può articolarla, gli si blocca il respiro, i tratti del viso e del corpo appaiono deformati dagli spasmi della malattia. Antonio dice che dall’82-83 si sono manifestati i primi sintomi della malattia, una patologia che impedisce una postura normale, condiziona i movimenti del viso e del corpo, che appaiono tipici degli spastici, e dà dolori diffusi; era quasi scomparsa per ricomparire nel ‘97, in forma leggera. Ma di nuovo, dal 2007 è andata via via peggiorando.

 Dal ‘98 Antonio è detenuto, è stato in vari istituti del Lazio, gli hanno fatto alcune analisi e poi lo hanno mandato ad Opera, a Milano, dove un medico lo ha inviato al “Carlo Besta”, un centro di alta specializzazione, dove gli hanno definitivamente diagnosticato la malattia.

 Successivamente è stato trasferito a Rebibbia, nel 2007 nell’infermeria del carcere. Da circa un mese è però in un reparto “normale”, in una cella con la porta blindata, dove la carrozzina non passava dalla porta; gli è stato lasciato il catetere, che dava meno problemi perché le dimensioni della cella rendevano l’accesso al water troppo complicato per chi ce lo doveva portare, ma così non poteva mai uscire e restava chiuso, a letto, 24 ore su 24, salvo che per i colloqui, quando veniva preso in braccio per passare dalla porta. Da qualche giorno gli è stata assegnata una cella più larga, dove, almeno, la carrozzina può passare

da www.radicali.it

Carceri: Hiv, Lazio maglia nera: è malato il 3,33% dei detenuti


Il Lazio detiene il record di detenuti con Hiv: sono il 3,33%, quasi il doppio rispetto alla media italiana dell’1,98%. E’ quanto emerso dal convegno “L’emergenza sanitaria nei penitenziari italiani”, che si è svolto oggi nel carcere di Regina Coeli a Roma. L’iniziativa, organizzata dal centro studi Cappella Orsini, si è svolta nella rotonda centrale del penitenziario. Dei 2.500 detenuti sieropositivi che vivono nelle carceri italiane circa 200 si trovano negli istituti penitenziari del Lazio. Ma non è solo l’hiv a colpire i carcerati. Dilaga l’epatite, con oltre 2mila detenuti affetti da epatite virale cronica B e C, soprattutto tra i tossicodipendenti (71% dei casi) che rappresentano il 26,8% del totale, mentre sono in forte aumento i casi di tubercolosi. Il 27% dei detenuti soffre di problemi di carattere psicologico o psichiatrico e uno su due è stato almeno una volta trattato con psicofarmaci.

da notizie.virgilio.it

fonte APCOM

Anziani: a 65 anni in bilico sopra un burrone per far festa


Davvero originale ma in perfetta linea con la sua vita da equilibrista, Henry Rochatin ha deciso di sfidare il pericolo ancora una volta a 65 anni. Per festeggiare i suoi 60 anni di attività iniziata a 5 anni in un circo, Henry si è seduto sopra una sedia appoggiata su due bicchieri, poggiati a loro volta sopra un’altra sedia in bilico su altri quattro bicchieri. E tutto questo sopra un precipizio alto 3.842 metri. Location: la cima di Aiguille du midi, a Les Alpes in Francia. Dopo la prodezza, documentata secondo per secondo in un video disponibile on line e indicato sotto, ha deciso di fare qualcosa in più. Mettersi a cavallo della sua motocicletta e attraversare il burrone sopra una fune. Così, con la sua arte da trapezista, funambolo e stunt man con molti record alle spalle, il coraggioso Henry ha conquistato tutti, ancora una volta.

da www.intrage.it

il video delle acrobazie di Henry Rochatin

http://www.youtube.com/watch?v=mbTYtJxHJwM&feature=player_embedded

Sesso e razzismo: Caster Semenya e la Venere ottentotta


, l’atleta sudafricana diciottenne che l’estate scorsa ai mondiali di atletica di Berlino vinse il titolo negli 800 metri, è ancora nel limbo degli esami che devono accertare la sua appartenenza sessuale: è una donna? È un uomo? È un ermafrodito? Può continuare a correre con le donne?

Caster Semeya vincitrice a Berlino 
…e vestita chic 

La sua vicenda è sospesa nella nebbia degli organismi sportivi internazionali, dove, non solo nell’atletica, la certezza del diritto in un caso come questo si impasta con più complesse considerazioni: certo non aiuta che sia una ragazza nera che viene da un villaggio sperduto del Sud Africa e che intorno a lei siano scatenati i giochi e gli interessi, politici e economici) dei sud africani non bianchi ( cioè neri e “colorati”) del post apartheid.

Ancora negli ultimi giorni intorno al suo nome si è accesa la polemica, perché il suo allenatore, Michael Seme, ha detto che avrebbe continuato a correre nelle gare femminili in Sud Africa, ma subito gli organismi federali sudafricani gli sono saltati in testa, definendo incaute le sue parole e inibendo a Caster di gareggiare fino a quando le supreme autorità internazionali dell’atletica non si pronunceranno.

Quando? Nessuno lo sa, anche se le Olimpiadi sono ormai domani e comunque i soloni che stanno in Europa giocano con il destino e i sentimenti di una ragazza di 18 anni.

Ve la ricordate ? Quando vinse gli 800 metri ai mondiali di Berlino,in realtà, più che per la prestazione, l’evento fu memorabile per quello che successo dopo. All’indomani della vittoria cominciarono a piovere strane insinuazioni su la ragazza. Le stesse atlete che con lei avevano gareggiato lanciarono in pubblica piazza il terribile interrogativo: e se la non fosse una donna?

E allora apriti cielo. Ne cominciò una querelle, a tratti grottesca, sulla condizione ormonale, fisica, atletica della ragazza (o ragazzo?) e sulle ripercussioni di questa da un punto di vista filosofico, politico, femminista. Il Sun, quotidiano noto per le sue posizioni scandalistiche, rivelò che l’atleta era in realtà un’. La federazione mondiale di Atletica stabilì in fretta e furia nuove misure per l’accertamento del sesso dei concorrenti. Di che far gongolare i profeti dei gender studies.

Il problema è che la vicenda di Semeya è intimamente intrecciata con le cicatrici del razzismo nell’animo collettivo e individuale della maggioranza non bianca del Sud Africa e così quello che altrove sarebbe un semplice caso di attribuzione di sesso assume i tratti di un ritorno alle vecchie leggi della separazione razziale.

A proposito di c’è anche chi riesuma, come parallela vicenda di razzismo, la storia di , nota come la in Europa, dove fu portata, come un trofeo, nel 1810, all’età di 21 anni, e dove morì, in Francia, cinque anni dopo, prostituta e alcolizzata. Era stata esibita davanti a schiere di pittori, naturalisti e presumibilmente maniaci travestiti da scienziati, tutti attratti dal suo sedere fuori ordinanza e da labbra vaginali eccezionalmente grande e protese. Il suo scheletro e i suoi genitali furono conservati fino al 1974 al Museo dell’uomo di Parigi e ora, scrive Ariel Levy sul New Yorker, “molti in Sud Africa hanno la sensazione che i bianchi non sud africani stiano ancora scrutando un corpo femminile nero come se non contenesse un essere umano”.

, la dei primi dell’ottocento 

Anche l’atteggiamento assunto dalle autorità internazionali dell’atletica, in fondo, suona sinistro in questo angolo dell’Africa: e se fosse successo a una del Massachusetts? Ci sarebbe lo stesso atteggiamento altezzoso? Il comportamento delle autorità atletiche sudafricane, inoltre, non risente un po’ anch’esso di un complesso di inferiorità, magari intrecciato con l’0pportunismo di qualche piccolo boss locale che vuole fare carriera nel partito del presidente Zuma.

Non aiuta il fatto che la vicenda di abbia le sue radici in una delle zone più povere del paese, e anche del mondo, dove se una bambina nasce con il clitoride troppo lungo glielo tagliano; dove si verifica una elevata concentrazione di nati o nate che possono presentare tratti incerti di identità sessuale; dove, come dice un’amica di , “ per definire se una è donna basta che faccia pipì seduta”, dove non c’è spazio per scelte sessuali diverse come essere lesbica. A farlo si rischia lo stupro educativo.

Non aiuta che le vicende sessuali siano ammantate dall’amore della riservatezza e del perbenismo, dal timore dello scandalo, che, causa anche l’ignoranza del poverissimo ambiente in cui è nata, non ha certo aiutato Caster e i suoi allenatori a avere idee più chiare. Caster non ha seno, non ha le mestruazioni, ma questo, spiegano gli esperti di atletica, non vuole dire molto, perché pare che altre ragazze sottoposte alla intensa tensione agonistica e all’immenso sforzo di preparazione dell’atletica non ne abbiano. Si porta l’esempio di Maria Mutola, del Mozambico, idolo di , anche lei dall’aspetto fortemente mascolino.

Fin da quando ha cominciato a vincere le rivali e i loro allenatori e genitori hanno cominciato a seminare dubbi sulla femminilità di , la quale si è abituata, fin da giovanissima, a farsi accompagnare da un “testimone” al bagno per mostrare con i propri genitali che tutto è in regola.

La storia si è complicata con la vittoria di Berlino, perché questa ha proiettato la ragazza sulla grande piattaforma mondiale, come possibile candidata all’oro olimpico. Qui sono entrati in ballo, al di là delle apparenze dei genitali, i livelli di . E sono anche entrate in ballo le deficienze, le ingenuità, le debolezze dei responsabili dell’atletica sud africana che hanno comunque mandato a correre in Germania, accettando preventivamente, ma senza dirglielo, di sottoporla all’esame sulla sessualità di cui ancora nulla si sa, almeno ufficialmente, anche se in Australia sono già uscite indiscrezioni secondo le quali Caster sarebbe, nel migliore dei casi, un ermafrodito, categoria peraltro non contemplata dalle tabelle internazionali.

Angel Fershgenet, in arte Angel Lola Luv: secondo un blog potrebbe reincarnare la , edizione duemila Anche qui entrano in ballo le questioni razziali. Sostengono a Johannesburg: certo, le voci partono dall’Australia, perché lì c’è un altra concentrazione di razzisti bianchi, emigrati dopo la fine dell’appartheid, che mai hanno perdonato ai neri di avere conquistato la libertà.

 Recentemente, il New Yorker, che è giornale di altra caratura rispetto ai cugini di campagna del Sun, propone un bel reportage sul retroterra culturale della . E « retroterra » non è parola scelta a caso, perché rimanda a un mondo al di fuori, dietro, dopo l’ultima stazione di ferrovia. Un mondo di frontiera come il « Cristo si è fermato a Eboli » del libro di Carlo Levi.

 Quando in Sud Africa le gente dice «Limpopo», si vuole dire la terra del nulla. Non parlano di una condizione metafisica o della contea di un libro fantasy, bensì di una regione ben definita nelle carte geografiche, la zona nel nord del paese che fa da frontiera col Botswana, lo Zimbabwe e il Mozambico. Qui di macchine non se ne vedono e l’acqua corrente e l’elettricità sono lussi che non si hanno. Ed è qui che in condizioni di rara precarietà si allenano i membri del Moletjie Athletics Club, club di cui ha fatto parte fino ad un anno fa.

 Gli atleti del club vivono tutti nei villaggi in case di fango, mattoni e lamiere. Per arrivare agli allenamenti devono camminare a lungo attraverso i campi di grano, incrociando le capre e gli asini che brucano l’erba e che padroneggiano questi sentieri non asfaltati. Davanti ad una scuola li aspetta ogni volta il loro allenatore Jeremiah Mokaba che precisa: «In questo periodo gli allenamenti si possono fare perché la stagione della pioggia è passata». Non esistono infatti strutture coperte.

 Mokaba allena i suoi allievi nella boscaglia coperta di rovi che si distende dietro il sentiero e che va lontano verso le montagne. Gli atleti corrono a pieni nudi e spesso vengono feriti dalle spine. Un giovane ragazzo spiega la situazione: «Non possiamo fermarci e dire che non abbiamo scarpe perché non abbiamo soldi. I nostri genitori non hanno soldi. Allora che possiamo fare? Continuiamo a correre».

 Joyce ha diciotto anni ma sembra molto più giovane. È magra, avvolta in una felpa rosa e nemmeno lei ha perso la speranza. «Voglio diventare campione del mondo – dice con una voce soffice, quasi un sospiro – Diventerò campione del mondo. Caster mi ha reso orgogliosa. Lei ha vinto. Lei ha mostrato il nostro club sulla mappa».

 da www.blitzquotidiano.it

Nuovo suicidio in carcere: eguagliato il “record” nella storia della Repubblica


Marco Toriello, 45 anni, tossicodipendente, gravemente ammalato, venerdì scorso si è ucciso impiccandosi nella sua cella del carcere di Salerno. Si tratta del sessantanovesimo recluso che si toglie la vita dall’inizio dell’anno. Viene così eguagliato il triste “record” del 2001: il numero più alto di detenuti suicidi nella storia della Repubblica. Il totale dei detenuti morti nel 2009 sale così a 171.

Anche per Marco, come in altri casi recenti, i famigliari non credono al suicidio e vogliono che la magistratura intervenga, disponendo un’indagine. E se è vero che ogni nuova morte in carcere si presta ad alimentare sospetti e polemiche (e i parenti hanno il sacrosanto diritto di chiedere e ottenere una verità certa), l’attenzione alla singola vicenda non deve far dimenticare che le “morti di carcere” rappresentano sempre e comunque una sconfitta per la società civile.

Negli ultimi 10 anni nelle carceri italiane sono morte 1.560 persone, di queste 558 si sono suicidate. Per la maggior parte si trattava di persone giovani, spesso con problemi di salute fisica e psichica, spesso tossicodipendenti.

Ma è davvero scontato ed inevitabile che i detenuti muoiano, seppur giovani, con questa agghiacciante frequenza di 1 ogni 2 giorni? No, assolutamente no!

I morti sarebbero molti meno se nel carcere non fossero rinchiuse decine di migliaia di persone che, ben lontane dall’essere “criminali professionali”, provengono piuttosto da realtà di emarginazione sociale, da storie decennali di tossicodipendenza, spesso affette da malattie mentali e fisiche gravi, spesso poverissime.

Oggi il carcere è pieno zeppo di queste persone e il numero elevatissimo di morti ne è conseguenza diretta: negli anni 60, come dimostra la ricerca allegata, i suicidi in carcere erano 3 volte meno frequenti di oggi, i tentativi di suicidio addirittura 15 volte meno frequenti…  e non certamente perché a quell’epoca i detenuti vivessero meglio.

Oggi il 30% dei detenuti è tossicodipendente, il 10% ha una malattia mentale, il 5% è sieropositivo hiv, il 60% una qualche forma di epatite, in carcere ci sono paraplegici e mutilati, a Parma c’è una sezione detentiva per “minorati fisici”… e si potrebbe continuare.

Le misure alternative alla detenzione vengono concesse con il contagocce: prima dell’indulto del 2006 c’erano 60.000 detenuti e 50.000 condannati in misura alternativa; oggi ci sono 66.000 detenuti e soltanto 12.000 persone in misura alternativa.

Più della metà dei detenuti sono in attesa di giudizio, mentre 30.500 stanno scontando una condanna (vedi allegato): di questi quasi 10.000 hanno un residuo pena inferiore a 1 anno e altri 10.000 compreso tra 1 e 3 anni.

Molti di loro potrebbero essere affidati ai Servizi Sociali, anziché stare in cella: ne gioverebbero le sovraffollate galere e, forse, anche la conta dei “morti di carcere” registrerebbe una pausa

da www.innocentievasioni.net