Giustizia:carcere come luogo reinserimento? pochi ci credono


  di Daniela De Robert

Scandalo nel carcere di Bollate, l’unico in tutta Italia in cui gli uomini e le donne detenute svolgono attività comuni. Lo scandalo consiste nel fatto che una donna e un uomo abbiano iniziato una storia d’amore in un luogo in cui i sentimenti sono banditi e che questa storia abbia portato al concepimento di una vita.

 Come succedeva nei manicomi, aboliti con la legge 180, l’idea di una vita concepita dietro le sbarre non è ammissibile. Quei corpi sono corpi reclusi. Quelle vite, anche se sono di persone adulte, sono vite prigioniere e pertanto private dell’autonomia propria delle persone adulte. Quei sentimenti vissuti in un carcere sono avvertiti come una minaccia.

 La vita in un carcere fa più paura della morte. I sentimenti di amore possono trovare spazio solo se mutilati dalle sbarre, dalla divisione, dalla castità coatta. Solo se si esprimono per lettera o nei colloqui in mezzo a tutti gli altri. Eppure la pena a cui sono stati condannati quell’uomo e quella donna prevede solo la privazione della libertà, non il divieto dell’amore, dell’affettività, della sessualità, della vita che nasce.

 In due mesi sono morti suicidi in carcere 12 persone. Più di uno a settimana. Ma quelle morti non fanno rumore. In fondo la morte, la violenza, il dolore sono considerate parte integrante del carcere. In fondo, potevano pensarci prima di delinquere. In fondo, è solo un delinquente in meno.

 Il concepimento di un bambino invece scatena sentimenti di indignazione: si sono amati mentre stavano scontando un pena! Per questo si chiede che siano puniti e insieme a loro anche la direttrice che consente che succedano fatti così riprovevoli dentro un carcere, anche se è un carcere modello. Perché al carcere come luogo di reinserimento credono davvero poche persone. Basta un seme di vita per fare cadere la maschera.

da www.radicali.it

Che i giornalisti raccontino le nostre carceri. Perché nessuno possa fare finta di niente


di Marta Bonafoni
“Ristretto”. Nel dizionario di italiano si legge: “racchiuso, stretto, limitato, angusto”. Ristretto è anche uno dei sinonimi che gli stessi detenuti usano per definire la propria condizione di reclusi. Limitati, appunto. Ristretta e limitata sempre di più è oggi la possibilità per i giornalisti di entrare nelle carceri. Per raccontare. Fare sapere.

Mica solo i fatti tragici che si consumano lì dentro, cosa peraltro fondamentale – quel racconto – alla salute stessa di una democrazia.

Ma la quotidianità dei penitenziari, la vita dei reclusi.Perché stare dentro non può e non deve significare essere fuori: dalla realtà  e dal racconto della stessa.

Non so se vi è  capitato durante le feste appena passate di guardare qualche tg in cui, improvvisamente, si sono in effetti aperti i cancelli di un carcere romano. Era arrivata la Befana – si diceva – in quei giorni in cui la retorica (capitanata dai mass-media) dice che bisogna “essere tutti più buoni”! A me è capitato di vedere un paio di quei servizi: le telecamere indugiavano sui visi dei figli dei detenuti, sulle facce dei reclusi. Un pezzo di colore – come si dice – confezionato su quei volti grigi e su sorrisi rari. Marziani, sembravano, quegli uomini e quelle donne inquadrati sul piccolo schermo.

Specie rare, come ti può capitare di vederle al Bioparco. Anzi no, perché i servizi sulle bestie nelle gabbie del Bioparco sono decisamente di più di quelli che passano in televisione per raccontare le carceri italiane.

Una delle emozioni più forti fino ad oggi provate facendo la giornalista mi ha investito alcuni anni fa ascoltando Radio Popolare di Milano e la sua trasmissione Fuori di cella, con i familiari dei detenuti a salutare i loro parenti reclusi: quelli da una parte al telefono, gli altri in cella con le radioline accese.

Era, quella, l’emozione di una possibilità. Per i diretti interessati, che per un attimo potevano entrare in comunicazione tra loro oltre alla restrizione. Per i giornalisti, che troppo spesso dimenticano che si può – o si deve – svolgere questo mestiere non per fare da megafono ai forti ma per dare voce ai deboli. Per la politica e le istituzioni (anche quelle penitenziarie), perché la conoscenza e la trasparenza dovrebbero essere sempre amiche del buon governo.

Poi c’è il dramma delle carceri, come quello vissuto fino a esserne ucciso da Stefano Cucchi. Anche in quel caso Stefano sarebbe rimasto solo un numero, se non ci fosse stato il coraggio della sua famiglia a mostrarne le foto del supplizio.

Prima di quelle immagini la morte di Stefano non era una notizia. Dopo, sono arrivate le prime pagine. Abbiamo visto: per nessuno è stato più possibile fare finta di niente.

Dovrebbe essere sempre così, e non solo quando ormai è troppo tardi.

da www.linkontro.info

Troppi detenuti meridionali? Federalismo carcerario


di Gilberto Oneto

Secondo il ministero della Giustizia al 30 giugno 2009 c’erano nelle patrie galere a vario titolo 63.630 detenuti. Le informazioni sulla distribuzione dei reclusi per luogo di nascita permettono di fare qualche considerazione poco politicamente corretta ma piuttosto significativa. Gli “indigeni” (in totale 39.389) sono in prigione nella misura di 0,68 persone ogni mille abitanti, o – se si preferisce – c’è un recluso ogni 1.463 cittadini italiani. I nati all’estero sono 24.241: basandosi su quanto diffuso dalla Caritas risulta che ci sono 6,21 reclusi ogni mille stranieri regolari, e uno ogni 161 persone. In realtà la loro incidenza è falsata dal numero di irregolari e clandestini che può essere solo stimato con ampia approssimazione: in ogni caso si tratta di percentuali inquietanti.

Ancora più interessante è analizzare la provenienza. I reclusi europei sono 8.741 (di cui 4.525 extracomunitari), gli africani 12.348, gli asiatici 1.177 e gli americani 1.323. Il primo dato che emerge è che i meno propensi a violare la legge sarebbero gli asiatici (1,88 reclusi ogni 1.000 regolari e un recluso ogni 532 immigrati), seguiti da europei e americani (4,2 per mille e un recluso ogni 236). Quelli che con più facilità incorrono nei rigori della giustizia sono invece gli africani: 14 ogni mille e uno ogni 69 immigrati regolari. Neppure i dati complessivi sui musulmani sono molto tranquillizzanti: 11,9 ogni mille e uno ogni 84 sono ospiti delle (nostre) patrie galere.

Le informazioni sulle singole nazionalità permettono di stilare una poco edificante classifica che vede presenti in gattabuia ben 30 tunisini, 25 nigeriani, 13 marocchini e “solo” 6 albanesi, sempre ogni mille immigrati regolari. I cinesi, che pure sono una delle comunità più numerose (170.265 regolari), sono pressoché assenti da questa hit parade a strisce perché se ne stanno per i fatti loro, cercando di farsi vedere il meno possibile: sorge però il sospetto che dispongano, oltre che di strutture sanitarie e commerciali, anche di un sistema giudiziario tutto loro. Gli zingari invece scompaiono fra le pieghe delle statistiche, infrattandosi sotto denominazioni nazionali diverse che non permettono un accorpamento di dati che sarebbe invece illuminante.

Il primo commento che viene da fare è che senza l’immigrazione straniera ci sarebbero il 38,1% di galeotti in meno e – visti i costi astronomici del loro mantenimento – un bel risparmio. Il dato sui reclusi non ha un rapporto diretto con quello dei reati perché lo stesso reo è spesso condannato per più di una azione criminosa, perché il 74% dei reati resta impunito e un numero imprecisato non viene neppure denunciato ma è del tutto legittimo pensare che, in assenza di immigrati stranieri, i reati diminuirebbero almeno della stessa percentuale, e di più considerando che gli stranieri facilmente sfuggono ai controlli (a maggior ragione se sono clandestini) e che si dedicano principalmente proprio a quelle tipologie di reato che vengono denunciate di meno.

Le statistiche ministeriali riguardano anche la provenienza regionale dei galeotti autoctoni e consentono altre interessanti considerazioni. Anche fra gli italiani ci sono notevoli diversità: le percentuali più alte di reclusi riguardano i nati in Campania (1,86 per mille e uno ogni 538 abitanti), poi quelli in Sicilia (1,53 e 653) e in Calabria (1,50 e 665), che si avvicinano ai dati degli immigrati asiatici e superano le percentuali di parecchie etnie prese singolarmente. Le regioni più virtuose sono la Valle d’Aosta (un recluso ogni 8.570 abitanti) e poi l’Umbria (7.855), le Marche (6.328) e l’Emilia (uno ogni 5.577 abitanti).

Solo l’11,23% di tutti i galeotti è nato nelle regioni padano-alpine, che – nel loro complesso – hanno 0,27 reclusi per mille abitanti e un galeotto ogni 3.588 cittadini: i dati del resto d’Italia sono rispettivamente 1,01 e 992, quelli del solo territorio del vecchio Regno delle Due Sicilie 1,4 e 701.

Considerando tutti i reclusi, nazionali e foresti, l’Italia si colloca nella classifica dei 20 Paesi del Consiglio d’Europa al 13° posto nel rapporto reclusi-abitanti; senza gli stranieri balzerebbe invece al quinto posto, dopo Slovenia, Finlandia, Danimarca e Malta. È un altro dato che dovrebbe fare riflettere molti salmodiatori del mantra che equipara gli immigrati a una risorsa.

Spingendo in avanti lo stesso semplice ma efficace ragionamento che si è fatto sullo stato della legalità in assenza di immigrati, scappa anche da considerare che in una condizione di reale autonomia e di controllo severo dell’importazione della criminalità, la Padania si troverebbe con facilità ad affrontare un bel 75% di reati in meno ed essere il Paese più sicuro d’Europa. Un buon motivo per cominciare a pensare a un serio progetto di “federalismo giudiziario”.

da www.ristretti.it