“Gemelli sì, ma biovulari”


di Patrizia Cimini

La favola violenta della vita in questa scrittura ha trovato una interprete di livello. L’opera “Gemelli sì, ma biovulari” di (nom de plume?) Marca Sfavilla parla di uno scorrere di eventi autobiografici. Leggendo la prefazione il lettore viene informato che questo è l’intento perfino a scopo terapeutico. Un grande, tragico evento si trasforma. La parola scritta, comunicazione del cuore, afflato della mente si stacca  dalla storia e lavora a costruire scenari, a descrivere momenti topici, a realizzare il graticcio su cui verrà messo ad essiccare il prodotto dell’operato dei protagonisti.

Si dipana una vicenda umana, con i tempi giusti, le conseguenze delle azioni, e i commenti a queste azioni, ma lo scenario che ne deriva fa pensare a certi momenti di Grandi Speranze di Dickens, lo scrittore che Manganelli indicò come uno scrittore “nero”. Manganelli infatti diceva, nel suo Letteratura come menzogna, di Dickens”…..le sue trame sono… da inseguire con il fiato in gola: non meno poderose che temerarie”. L’apparente semplicità di quello che viene raccontato viene prodotto da strati e strati di altri fatti intrecciati tra loro e sovrapposti. La vita dei due principali protagonisti è indagata con cura fin dal concepimento, per dare spazio a tutte le interpretazioni possibili dello straordinario rapporto che esiste tra soggetti gemelli. La letteratura gemellare, medica, storica, psicologica offre tanto materiale e questo si inscrive a buon diritto in quella, ma qui c’è in più la descrizione raffinata e documentata di un aspetto della gemellarità: ad ogni gemello viene offerto il dono di sentirsi unico nella duplicità ma particolarmente deprivato della possibilità di immaginarsi “specchiato”. Ci sono infiniti momenti nella vita di questi gemelli non monozigoti e anche di sesso diverso, in cui il loro “unicum” è imperscrutabile, e dei momenti in cui le divergenti strade, per scelta, per storia e educazione  non li portano ad avere una vita/favola, ma li conducono davanti allo specchio che è formato dal loro reciproco sguardo. Alice non è con loro e la fantasmizzazione delle paure non si può creare. C’è la loro spietata realtà. Sono il loro specchio/sogno, specchio/linguaggio, specchio/vita, e deve essere anche celato perché il contesto li vede ma non li guarda; gli altri non possono usarli perché sono un mondo incluso. Un mondo che verrà violato dalla malattia, dal dolore, dalla negazione.

Quel mondo è popolato da un tribù di personaggi che della loro gemellarità si fa manto e energia di propulsione. La Sfavilla, con la sua generosità di creatrice, i personaggi li porta sulla scena e li fa agire permettendoci di comprendere come  sia difficile non essere soli, come sia tragico esserlo.

In questa operazione ci aiuta l’invenzione, già praticata da altri scrittori, per esempio Saramago in Cecità, di indicare i personaggi non con nome proprio ma con il nome della loro funzione nella vita.

Il libro potrebbe essere un film documentario, ed è invece un autodafé addolorato e accusatorio, dal sapore leopardiano, dal sapore dannunziano, dal sapore di quella letteratura di quegli esseri camaleontici che vengono chiamati scrittori.

“La sfida di Adam” di Gianfranco Roggio: appunti spontanei e brevi della prof. Angela Terranova D’Angelo


Il testo evidenzia una fervida immaginazione unita a uno spirito critico (che ti fa onore), frutto di profonde riflessioni. L’uomo, assediato da mille debolezze umane o meno, vittima di queste, nel suo inconscio coltiva nel profondo del cuore l’ansia, apparentemente sopita, di un mondo migliore. La fragilità dell’ essere umano comune, che sta al centro del racconto, segue la voce della coscienza iniziando a combattere uno per uno i sette peccati capitali che tentano continuamente l’umana gente. E’ la lotta infinita tra il bene e il male. Nel tuo libro, chiaramente allegorico, dimostri la vera essenza del tuo “io” quindi, a mio parere, in questa tua intima ricerca di te stesso hai voluto rappresentare tutta l’umanità. Ma Adam, sorretto dal Tempo, alla fine comprenderà, attraverso il sacrificio della madre, che potrà aspirare alla catarsi che non si farà attendere. E’ un uomo libero finalmente!

Il teatro Brancati a Catania apre la stagione…in mutande


di Antonella Sturiale

Il 28 ottobre alle 21:00 ci troviamo al Teatro Brancati per assistere alla prima della commedia in due atti di Luigi Lunari “L’incidente”, con la regia di Giuseppe Romani e le scene ed i costumi di Giuseppe Andolfo.

Un pubblico entusiasta ma non tanto numeroso da riempire tutte le poltrone dell’accogliente teatro, molto probabilmente riconducibile al fatto che contestualmente allo stadio si svolgeva la partita interna di calcio, attende l’inizio di una commedia che sembra la parodia esasperata del momento politico e sociale che vive l’Italia negli ultimi tempi.

L’incidente” è una commedia tratta da “Die hose”, “le mutande” di Carl Sternheim, commedia dai tratti e dalle connotazioni boccaccesche, dai ritmi veloci, movimentati, a tratti esageratamente. Narra la storia dell’avvenente moglie di un umile bancario che, durante l’inaugurazione della nuova sede bancaria, perde le mutande a causa della rottura imprevista dell’elastico. Qualcuno dei presenti nota l’inconveniente e ne trae le logiche, personali conclusioni. Tutto gira nella fantasia creata negli uomini che, perversamente, tracciano ed intessono tele atte a conquistare la “de- mutandata”: dal direttore di banca al figlio – marionetta appena tornato dal militare.

Il povero marito, il ragionier Martelli, si sente travolgere dallo scandalo e lotta disperatamente per salvare il buon andamento della sua carriera. Pensa dunque ad organizzare un’orgia per il direttore risvegliato in certi “appetiti” dall’incidente accorso alla propria moglie.

I personaggi della commedia si muovono sul palcoscenico con molta disinvoltura, nel pieno possesso artistico del personaggio interpretato. Il bravissimo attore Tuccio Musumeci, alias il ragionier Martelli, appare molto calmo e fa da “cucitura” all’intera tela intessuta dalla tragicomica trama della commedia.

La malcapitata moglie, Concita Vasques, ci appare in alcune scene, un po’ sottotono, come se l’incidente avesse creato in lei una sorta di timido imbarazzo.

Agostino Zumbo interpreta egregiamente, con ironia e grande padronanza scenica il direttore della banca, Dottor Scotti, che deve nascondere sapientemente la voglia sessuale risvegliatasi in lui dopo tanto tempo.

La moglie bigotta, caricaturale, parecchio somigliante alla Olivia compagna del famosissimo Braccio di Ferro, è interpretata in modo unico da una sempre adeguata, sempre eccelsa, camaleontica Carmela Buffa Calleo. E’ la sua personale rivisitazione che ci regala le più spontanee risate, è lei che, comandando a bacchetta marito e figlio, ci fa comprendere il vero ruolo di molte mogli all’interno della famiglia. La rivalsa femminile che sfocia normalmente, in molte menti perverse e deviate di mariti infedeli, nel ricercare all’esterno del proprio nucleo familiare, sensazioni fisiche “forti” ma effimere, senza futuro dove la rivalsa sull’altra diventa necessità psicologica (è vietato innamorarsi).

Giovanni Santangelo è Guido, figlio dei coniugi Scotti. Il giovanissimo attore è frizzante, energico e coinvolgente. Con l’euforia tipica della sua età, si prefigge la sfida di conquistare la donna più matura e considerata “esperta” nelle arti amatorie.

Salvo Scuderi ed Elisabetta Alma sono i coniugi Crisafulli. Lui ragioniere presso la banca, uomo goffo e caricaturale, lei donna dalla risata ad intermittenza e insopportabilmente stridula, complice reverenziale e per nulla disinteressata della signora Scotti.

Le due “escort” sono interpretate da Egle Doria, alias Natasha, e Maria Rita Sgarlato, alias Mimosa. Entrambe esageratamente e volgarmente abbigliate, sono due povere diavole che da bombe del sesso si trasformano in crocerossine per alleviare gli acciacchi senili del partner. Egle Doria, sempre all’altezza dei diversi ruoli affrontati, parla un dialetto esasperatamente romano, mentre, Maria Rita Sgarlato una miscela tra dialetto veneto alternato con espressioni e termini tipicamente siculi. Da sottolineare il grande affiatamento scenico delle due colleghe che, alla fine, si rivelano due “brave” ragazze.


Una commedia dal tessuto molto semplice, poco consistente ma di grande attualità: dimostrazione chiara e tangibile di come l’uomo abbia sempre la testa nelle “mutande”.