Una piantina


di Alfredo Sole dal carcere di Opera Milano

L’uomo riesce a sopravvivere e adattarsi nei luoghi più impensabili e ostili di questo pianeta traendo la sua forza dalla necessità, ma anche dal piacere di immergersi nell’ignoto. Anche se spesso è solo necessità di sopravvivenza. Quel bisogno biologico di completare il proprio ciclo della vita. A tutti i costi! Tutto ciò che è in natura sente quel bisogno innato di continuare ad esistere.
Ho una piantina di basilico immersa in un bicchiere d’acqua sul davanzale della finestra. All’inizio era un intero mazzetto ma lentamente è appassito a morte tranne una rametta. La sua forza di sopravvivenza è stata così forte da mettere radici pur non essendo una pianta acquatica. Si è adattata! Tra molte è stata la più forte e il suo premio è stato la fioritura. Sì perchè non solo si è ostinata a vivere ma è anche fiorita. Ha perso il suo bel colore verde lasciando il posto a un verde pallido ma è il prezzo da pagare per vivere in un ambiente che non è di certo il suo.
Stavo per staccargli alcune foglie per insaporire la mia pietanza quando ho visto i suoi fiori bianchi appena sbocciati, così ho deciso che tutto sommato la mia pietanza non necessitava di foglie di basilico. Quella sua grande forza e ostinazione a sopravvivere mi hanno impedito di “farle del male”. È incredibile, ma senza volerlo la piccola e ostinata piantina mi ha comunicato tanta forza. Ammiro la sua capacità di continuare il suo ciclo vitale immersa in un elemento che non è il suo. È riuscita a farsi crescere delle radici capaci di assorbire nutrimento solo dall’acqua. Sembra dire (se potesse parlare…): “non importa dove mi trovo adesso, il mio scopo è vivere ed io vivrò!”.
Come non ammirare tanta forza, come non invidiare tanto spirito di sopravvivenza.
Le mie radici sono state tranciate da molto tempo ma quasi senza rendermene conto ne sono spuntate altre capaci di prelevare e filtrare linfa vitale dal cemento armato.
Un concetto cupo per definire l’ostilità a continuare ad esistere ma attorno a me c’è solo cemento e ferro, non posso attingere ad altro.
Farò in modo che, al pari della mia piantina, possano in me germogliare anche i fiori. Il mio premio alla sopravvivenza sarà la fioritura della conoscenza.
Sarò pur sempre immerso in un bicchiere di cemento armato, ma ostinato a completare il ciclo della vita.
Se una debole piantina può diventare così forte da fiorire in un bicchier d’acqua, l’uomo può essere capace di innalzarsi a un livello superiore della sua mera esistenza. E con la fioritura del proprio essere può dar vita a una radicale trasformazione del proprio IO.
E tutto questo solo osservando una piantina? Sì, cerco di trarre insegnamento da tutto ciò che mi circonda. Se l’uomo imparasse a osservare meglio sarebbe migliore. Ma purtroppo si limita a guardare senza vedere e con la presunzione di essere migliore si pone al centro dell’universo.

da http://www.informacarcere.it

Il gatto e le rose


di Alfredo Sole dal carcere di Opera – Milano

C’è un vecchio detto: “Non tutto il male viene per nuocere”. Beh, non è che io sia d’accordo con questo, tutti i mali nuocciano ma a volte si può ottenere, insieme al male, qualcosa di buono, nel caso che racconterò, qualcosa di bello.
Per un paio di settimane ho sofferto di un gran mal di stomaco da costringermi a una visita specialistica (niente di grave, adesso sto bene). Il Centro Clinico si trova dentro il carcere, in uno stabilimento separato. Ero già quasi guarito dai miei dolori quando mi avvisano che dovevo recarmi al Centro Clinico per una gastroscopia. Sia io che un altro compagno, anche lui per una visita, siamo stati accompagnati da un agente. Pensavo, non avendolo visto prima, che ci si recasse attraverso un qualche lungo corridoio, invece siamo usciti fuori dallo stabile. Circa duecento metri da percorrere all’aria aperta! La mia paura che di lì a poco una sonda avrebbe attraversato il mio apparato digerente entrando dalla gola, svanì alla vista di quel lungo viale costeggiato da un roseto. Siamo a maggio, il mese delle rose. Ero pur sempre dentro il carcere ma quelle rose, quel profumo, erano un pezzetto di natura così bella ai miei occhi che rallentai il passo per poterne godere il più possibile. Non fu solo il roseto a rendere quella mattina così stranamente piacevole. Stavo camminando in senso rettilineo! E non il solito avanti e indietro in pochi metri di cortile. Mi venne da ridere perchè mi accorsi che non riuscivo a camminare in modo fluido. Perdevo un po’ di equilibrio. Troppo spazio aperto davanti a me. Per la prima volta in quasi 20 anni le suole delle mie scarpe erano sporche per aver camminato su una strada seppur una strada dentro il carcere.
Cos’è la bellezza della natura senza animali. Quella mattina ci fu anche quello. Usciti dal Centro Clinico, appena fuori dalla porta, l’agente che ci accompagnava si fermò a parlare con un dottore, credo. Io e il mio compagno di conseguenza, ci fermammo ad aspettare. Incrociai lo sguardo con un grosso e bellissimo gatto dal pelo lungo. Era a una ventina di metri da noi. Mi chinai e lo chiamai. Con mio stupore vidi che si avvicinava a passo lesto, senza timore. I gatti che vivono dentro le mura dei carceri di solito non sono affettuosi, sono per lo più dei vagabondi senza nessun padrone e diffidenti. Questo invece si avvicinava fino a farsi accarezzare e si mise pure a fare le fusa. Mentre io lo accarezzavo, lui con la sua pancia gonfia me lo confermava visto che sicuramente era incinta. Istintivamente gli toccai la pancia, ma fu uno sbaglio. Fece un salto da felino all’indietro e mi diede una zampata sulla mano, ma non volle farmi del male, non aveva tirato fuori gli artigli, fu come se volesse dirmi: “ehi, vabbè che lascio che mi accarezzi, ma vedi di non esagerare o la prossima volta tiro fuori gli artigli”. Capii il messaggio, gli avvicinai di nuovo la mano sotto il musetto e lui tornò a leccarmi e a darmi piccoli morsi ma senza farmi male. Si avvicinò l’agente e l’incanto svanì in un momento. Il felino scappò via.
Beh, tutto sommato quel mal di stomaco mi ha regalato una bella giornata…

da www.informacarcere.it

Michele in autobus


 di Alessandro Mascia

Ci sono bambini che si innamorano dei carabinieri, altri dell’ambulanza. Io ero innamorato delle navi, le sognavo, realizzavo scafi anche con poco: mi bastava una foglia di oleandro e un rigagnolo d’acqua per sottrarmi dal mondo per buone ore. Mio figlio, invece, si è innamorato degli autobus, quindi, ultimamente, ci siamo ritrovati a una fermata per fare un giro della città. Una mano al bambino che, con sguardo attento, scrutava l’orizzonte in attesa dell’autobus e nell’altra una copia di Diario clandestino, un’eccezionale cronaca umoristica degli anni trascorsi dentro un lager da Giovanni Guareschi. Quando viaggio in autobus, di solito, leggo pagine e pagine. Il problema è che al servizio di trasporto pubblico, che ritengo non affidabile, preferisco la macchina e il tempo che potrei dedicare alla lettura è sottratto dalla guida. Sarà per questo che nel Nord Europa, dove i servizi di trasporto pubblico funzionano bene, si legge di più? Guidare meno e leggere di più. Ottimo tandem pubblicitario per Trenitalia e Mondadori. Dovrei proporglielo. C’è da dire che anche il clima soleggiato della nostra terra gioca a sfavore della carta stampata. Aprendo i battenti la mattina, alle nostre latitudini, siamo investiti da una gagliarda giornata fatta di luce, di chiacchiericcio, di profumi. Io, poi, che vivo sopra un panificio…! Da noi si esce per strada, si va al mercato, si incontra un sacco di gente e il tempo che il nord europeo dedica alla lettura, noi lo si dedica al ‘cuttigghio’, una forma meno nobile, certamente, ma ugualmente appagante di lavorìo cerebrale. Di qui il nostro inclito vezzo a socializzare anche con gli sconosciuti.

Un luogo dove si attacca facilmente bottone è proprio sull’autobus. Non fosse che io preferirei leggere, ci sarebbe da fare edificanti chiacchierate. Nell’ultimo viaggio, però, mi sono fatto distrarre dalla biodiversità che transitava sul pianale del mezzo, fuoriuscita dalle proprie dimore per spostarsi, a buon prezzo, dal punto A al punto B della città. Quando ho visto l’autobus sbucare dall’angolo e dondolare la testa verso gli astanti alla fermata, mi sono ricordato del dragobruco, un divertente traslato dell’autobus urbano, descritto da Stefano Benni nel suo Achille piè veloce. Il dragobruco ha accostato pesante alla pensilina con quell’occhietto laterale che fiammeggia ammiccante verso gli utenti sempre più addensati nell’intento di varcare per primi la soglia della sua bocca famelica. E a ogni fermata è così, il dragobruco aspira ed espira gente. Siccome mio figlio pretende sempre di compiere un viaggio da capolinea a capolinea, ho avuto un bel daffare a studiare le varietà di homo sapiens che si sono presentate alla mia analisi informale.

Nel viaggio a cui si ispira questa mia cronaca c’era un tizio smilzo e malvestito che dormiva già prima della nostra salita a bordo con la testa reclinata sul vetro del finestrino. Ha dormito durante il tragitto e anche dopo la nostra discesa. No, non era morto e dopo spiego il perché.

La vignetta più dolce e universale, a ogni modo, è quella della caratteristica coppia di anziani. Lui sui 70, giacca, cravatta, pochette candida, loden verde oliva, i capelli residui piegati all’indietro. Lei, poco più giovane, legata a braccetto al suo uomo, distinta, un velo di rossetto sulle labbra. Sono saliti sorridenti sul mezzo, portando un saluto cordiale. Due personcine a modo, d’altri tempi, tutte rappresentanza e buon cuore.

A una fermata centrale, in una boccata di gente inspirata dal dragobruco, è salito un ragazzo invecchiato dall’evidente abuso di sostanze esogene. In mano stringeva gelosamente una bottiglietta di birra marrone malcelata in una busta di cartone, a cui si aggrappava nei frequenti momenti di scoramento. E parlava a voce altissima, arrabbiato, di cose sue che, non fosse stato per l’inintelligibilità di una pronuncia approssimata e pastosa, sarebbero diventate cose anche nostre. Questo tale, che mal si reggeva sui suoi propri piedi, ha ritenuto socialmente utile risvegliare quell’altro tale che dormiva con il capo riverso. E grida che ti grida il risveglio è avvenuto, ma i due, che dovevano essere imparentati dall’uso smodato di xenosostanze, dopo poco, si sono abbandonati entrambi a un sonno tenebroso che nessuno ha osato perturbare.

Davanti a noi era seduta una signora sui 50 che non dava l’impressione di avere tutte le rotelle al posto giusto. Sarà stato l’abbigliamento bizzarro o l’acconciatura arruffata, insomma, qualcosa non andava. Ho avuto certezza quando si è rivolta di scatto all’indietro, con occhi sbarrati, chiedendomi se mio figlio, ormai rapito dall’incedere del dragobruco, fosse maschio o femmina. Sbigottito e tachicardico ho risposto alla sua domanda, dopo di che è ritornata nella posizione originaria come fosse una di quelle statue viventi che stazionano nelle piazze delle città. A pensare che la gente è pazza ci vuol poco se ti fai un paio di fermate sull’autobus urbano.

Alla fine è entrata una zaffata di sporco che si è fatta spazio tra la gente prima di manifestarsi sotto forma di passeggera. Si trattava di una signora attempata, grassa, che dico grassa?, ridondante. Le carni esondavano dalle fessure delle vesti, volevano scappare da quel corpo evidentemente mal lavato che olezzava di giorni e giorni trascorsi senza il bene dell’acqua. Ho proposto a mio figlio di imboccare l’uscita alla fermata immediatamente successiva, ma al suo candido perché? ho fatto spallucce, non volendo condizionarlo con una considerazione che, probabilmente, era soltanto mia.

Finalmente siamo scesi al capolinea del dragobruco. Io non avevo sfogliato neppure una pagina del libro che avevo tra le mani, mi sentivo, tuttavia, in grado di scriverne uno. Un tuffo tra la gente. Tra normali e stravaganti, ordinari e straordinari, lindi e puzzoni. Anche questo è Augusta.

Dal carcere di Spoleto: “La luce degli Uomini Ombra” di Carmelo Musumeci


Premessa: in carcere tutte le storie finiscono male. I miei racconti non hanno mai un fine lieto, ma spero con tutto il cuore che questa storia finisca bene. Dedicata a Maria Luce affinché continui ad illuminare i cuori degli uomini ombra. Nino era un ergastolano. Non scherzava e non sorrideva mai. Non faceva colloquio con nessuno perché non aveva parenti. Scontava la sua pena senza fine nel carcere di Spoleto in provincia di Perugia. Non aveva amici né fuori nè dentro. Nel cortile del carcere passeggiava sempre da solo. Non dava confidenza a nessuno. “Buongiorno e buonasera” con tutti e mai un “Ciao” con nessuno. Era un lupo di mare, fuori faceva il pescatore. Ora era un lupo di carcere. Era in cella da solo e non mangiava mai con nessuno. Non accendeva mai la luce nella stanza. Gli piaceva stare al buio, perché nel buio poteva immaginare di vedere quello che voleva. Non ascoltava mai la televisione. Non accendeva mai la radio. Non scriveva e non leggeva. Era un Uomo Ombra. Sia i compagni, sia le guardie lo evitavano. Tutti pensavano che fosse un po’ matto e lui era contento che credessero questo. Nino non era alto, non era robusto, era normale. Portava la barba e i capelli lunghi. Aveva occhi scuri, seri e pieni di dolore. L’avevano arrestato che aveva ventinove anni, ora ne aveva sessanta. Aveva consumato quasi tutta la sua vita dentro l’Assassino dei Sogni.
Dopo la condanna all’ergastolo pianse per notti e giorni interi. Poi all’improvviso smise e decise di non piangere più. Accettò con impotenza che non sarebbe mai più uscito.
Mai più! E decise di non vivere più da uomo vivo. Un giorno la guardia venne davanti alla sua cella a portargli una lettera. La guardia era più meravigliata di lui perché Nino non aveva ricevuto mai una lettera da quando era a Spoleto. E Nino era a Spoleto da dieci anni. Lui prima di prendere la lettera la guardò e controllò se c’era il suo nome. C‘era, ed era proprio il suo nome. L’appoggiò nello sgabello che teneva accanto alla branda. E continuò a camminare avanti e indietro per la cella come faceva sempre a quell’ora per aiutare la digestione. Ogni tanto lanciava un’occhiata alla lettera con aria indagatrice, domandandosi chi poteva essere.
Lui non scriveva mai a nessuno e fuori non conosceva più nessuno. Non aveva e non aspettava nulla dalla sua vita. Finalmente si decise. Prese in mano la lettera e lesse il mittente. La lettera veniva da Torino ed era di una donna. Aveva uno strano nome, Maria Luce. Non conosceva nessuno con questo nome. Riposò la lettera senza leggerla e continuò a camminare avanti e indietro. Su e giù. Quella notte camminò più a lungo del solito. Poi Nino prese una decisione.
All’improvviso accese la luce e lesse la lettera. – Ciao Nino, ho avuto il tuo indirizzo da un tuo compagno, che vuole rimanere anonimo, che mi ha detto che non ti scrive mai nessuno e allora ho pensato di farlo io. Spero che mi risponderai. Maria luce. Lui aveva paura delle persone, dell’amore e dell’amicizia, ma sentì una forza che lo convinse a rispondere. E Nino e Maria luce cominciarono a scriversi. Lei: – Sii sempre come il mare che infrangendosi contro gli scogli trova sempre la forza per riprovarci. Lui:- Il sole tramonta senza speranza, in attesa di un’alba che arriverà troppo presto, per dimostrare che oggi sarà uguale a ieri.
E lei:- In riva al mare un gabbiano mi guarda e mi chiede: ”E tu che pensi?” Ed io gli rispondo: “Penso a te che sai volare.” E lui: – Giorni uguali, come notti, per giorni inesistenti, per notti inutili, per sempre. Il buio, il nulla, fino all’ultimo dei giorni. Ancora lei:- Non perdere mai la speranza. Ancora lui: – La pena dell’ergastolo ti abbraccia in una morsa mortale e non puoi fare nulla per liberartene. Divennero presto buoni amici. Nino non aveva mai avuto un’amica e Maria Luce gli aveva portato il sole nel cuore. Iniziò a pensare di essere ancora in tempo per amare la vita. Lui ora era molto cambiato. Salutava, sorrideva e parlava con tutti.
Leggeva, scriveva, ascoltava la televisione e sentiva la musica. Nino ora era contento come non lo era mai stato. Maria Luce gli aveva illuminato il cuore. Ora a Nino gli capitava spesso di ridere. Dopo molti mesi le lettere di Maria Luce diminuirono. Lui non ci fece caso perché ormai portava la sua amica nel cuore e anche quando non riceveva le sue lettere, la sentiva vicino.
Un giorno lei gli scrisse che stava male, molto male, e che non poteva fare nulla per guarire.
Lui voleva fare qualcosa per aiutarla, ma non sapeva come fare.
Era molto preoccupato. Nino non conosceva la malattia che aveva colpito Maria Luce, ma sapeva che lei stava soffrendo senza che lui potesse fare qualcosa. Questo non era giusto e per solidarietà con la sua amica incominciò ad ammalarsi anche lui. Iniziò a non uscire più dalla cella, smise di mangiare, di pensare e di esistere. Nino piombò nel buio e nella tristezza più assoluta. Maria Luce a sua volta sentì che il suo amico stava spegnendosi come una candela.
Intuì che per colpa della sua malattia Nino stava morendo. Questo non lo poteva permettere e pensò di iniziare a guarire per salvare il suo amico. L’idea che Nino potesse guarire grazie a lei la fece sentire subito un po’ meglio. Maria Luce, con tutte le forze, si scrollò la malattia di dosso. Nessuno c’era mai riuscito. Lei per amicizia ci riuscì. Presto entrambi guarirono e Maria Luce ritornò a essere il sole nel cuore di Nino. Dopo tanti anni Nino ottenne la grazia e uscì dal carcere. Fuori dal portone c’era lei ad aspettarlo. Si afferrarono per mano senza dirsi nulla.
Maria Luce lo portò nella prima gelateria che incontrarono. Gli comprò un gelato alla fragola come gli aveva sempre promesso nelle sue lettere. Nino era trentacinque anni che non mangiava un gelato e si sentì l’uomo più felice della terra.

“Quel giorno tornai a casa prima del solito…”


Ricevo e volentieri pubblico questo raccontino con poesia:

di Emidio Giardina

QUEL GIORNO TORNAI A CASA PRIMA DEL SOLITO. INSERI LA CHIAVE NELLA SERRATURA DELLA PORTA D’INGRESSO LA GIRAI  MOLTO LENTAMENTE  FACENDO ATTENZIONE A NON FARE IL MINIMO RUMORE . E‘ MI INTRODUSSI  DENTRO.

DEI SUONI FAMILIARI PROVENIVONO DALLA CUCINA  LO SCIACQUETTIO DELL’ACQUA CHE SBATTEVA SULLE STOVIGLIE SI FRAMMISCHIAVA AL CANTO DI UNA DONNA .

MI STAVO AVVICINANDO PIANO PIANO PER FARGLI UNO DEI MIEI SOLITI SCHERZI QUANDO VIDI ADAGIATO SULLA SUA SPALLA CHE RIPOSAVA UNA MATASSINA GIALLA NEL BECCO AVEVA UN RICCIOLO DI CAPELLO NERO ERA: “ CIOCCIO’ “.

LO AVEVO ACQUISTATO ALCUNI ANNI FA. CAPITATO PER CASO,- IN OCCASIONE DEI MIEI FREQUENTI GIROVAGARE NEI PAESINI -, VICINO UN NEGOZIETTO PER ANIMALI , PER  INGANNARE IL TEMPO IN ATTESA DI UN APPUNTAMENTO DI LAVORO, ENTRAI  DENTRO E FUI SUBITO ATTIRATO ED INCURIOSITO DA UNA GABBIETTA CON DENTRO DEGLI UCCELLINI GIALLI .

SONO DEI CANARINI MALINOIS , SONO STATI PORTATI PROPRIO OGGI DA UN ALLEVATORE , SA’ SONO I PRIMI NATI DI QUEST’ANNO “  ERA LA VOCE DEL NEGOZIANTE.

“ QUANTO COSTANO” DOMANDO PER NON ESSERE SCORTESE E PER DARE UN SENSO ALLA MIA PRESENZA .

“ NON SI PREOCCUPI LE FACCIO UN PREZZO PARTICOLARE, NE PRENDA QUALCUNO VEDRA’ CHE NON SE NE PENTIRA’ , LO SCELGA , SE VUOLE, LO PUO’ ANCHE PRENDERE. “

M RITROVAI CON LA MANO DENTRO LA GABBIA , IN MEZZO AD UN NUGOLO SVOLAZZANTE DI UCCELLINI IMPAURITI, QUASI  INAVVERTITAMENTE NE AFFERRAI UNO ERA IL MENO IMPAURITO DEGLI ALTRI, ANCHE SE STRETTO NELLA MIA MANO SENTIVO IL BATTITO TUMULTUOSO DEL SUO CUORICINO , IL BATTITO DI UN BATUFFOLINO GIALLO CON UNA MACCHIETTA NERA SUL CAPO CHE MI GUARDAVA.

PER  CHI NON LO SAPESSE  I CANARINI MALINOIS SONO DEGLI UCCELLINI ALLEVATI NELLA OMONIMA LOCALITA’ BELGA  DA CUI PRENDONO IL NOME , HANNO SUBITO NEL CORSO DEL TEMPO UNA SELEZIONE  CHE NE HA FATTO UNO DEI PIU’ APPREZZATI CANTORI DELLA RAZZA , IL CANTO ASSOMIGLIA AD UNA CASCATA GORGHEGGIANTE D’ACQUA , LE MELODIE  CHE QUESTI PICCOLI ESSERI RIESCONO AD ESPRIMERE E LE VARIAZIONI  DEL CANTO NE FANNO UNA DELLE MERAVIGLIE ORNITOLOGICHE.

TUTTO QUESTO L’HO APPRESO POCO TEMPO DOPO.

“ CIOCCIO ”  DIMOSTRO’ FIN DA SUBITO UNA VIVACITA’ E UNA CURIOSITA’ ECCEZIONALE , QUALITA’ CHE LO AIUTARONO A VINCERE LA RITROSIA E LA PAURA INNATA CHE GLI UCCELLINI HANNO PER GLI UMANI , COSI’ UN GIORNO QUASI PER CASO APRI’ LO SPORTELLINO DELLA GABBIETTA ; DOPO UN PO’ VIDI  “ CIOCCIO “ FARE CAPOLINO CON LA TESTOLINA FUORI DALLO SPORTELLO , QUINDI CON UN SALTINO VI SI POSO’ SOPRA  E’ DOPO AVER TENTATO UN PAIO DI VOLTE DI STACCARSI  SI DECISE E  FECE IL SUO PRIMO VOLO NELLA STANZA.

VOLTEGGIO E SI POSO’ DAPPERTUTTO SI VEDEVA CHE ERA SPAESATO NON AVEVA LA SENSAZIONE DI SPAZIO E DI LIBERTA’ NON AVENDOLA MAI CONOSCIUTA., CIO’ NONOSTANTE CINQUETTO’ FELICE ; E’ CURIOSO COME ERA, PICCHIETTO’ SU TANTE COSE  E’ SOLO DOPO TANTO TEMPO INGOLOSITO DA UNA FOGLIOLINA DI LATTUGA CHE AVEVO MESSO DENTRO LA GABBIETTA SI  DECISE A RIENTRARE .

CON IL PASSARE DEL TEMPO LE SUE SORTITE  DIVENTARONO COSI’ USUALI CHE MI PARVE  NATURALE LASCIARE APERTO LO SPORTELLINO , “ CIOCCIO’ “ ERA LIBERO DI ENTRARE ED USCIRE  TANTO CHE LA GABBIA LA ADOPERAVA SOLO PER POGGIARSI SUI POSATOI  O BECCARE UN PO’ DI MANGIME , LUI ORMAI PASSAVA QUASI TUTTO IL SUO TEMPO CON NOI PRENDEVA IL CIBO DALLE  NOSTRE  MANI, PILUCCAVA LE DITA ,GIOCAVA CON I CAPELLI  PASSANDOSELI  CONTINUAMENTE IN MEZZO AL BECCO FINO A RIDURLI IN PICCOLI RICCIOLINI , POI STANCO SI RIPOSAVA SULLE NOSTRE SPALLE DISDEGNANDO ANCHE I POSATOI .

NATURALMENTE OGNI QUALVOLTA CHE SENTIVA L’ACQUA USCIRE DAI RUBINETTI , LA SUA PREDISPOSIZIONE AL CANTO PRENDEVA IL SOPRAVVENTO: ED ALLORA SI SOLLEVA IN ALTO SI STIRACCHIAVA PER TUTTA LA SUA LUNGHEZZA ED INCOMINCIAVA A CANTARE : IL GARGAROZZO SI GONFIAVA A SDISMISURA  ED IL CANTO ERA UN CRESCENDO VIA VIA SEMPRE PIU’ INTENSO E POTENTE  ESIBIVA GORGHEGGI , VARIAZIONI CANORE E  VIRTUOSISMI DEGNI DEI MIGLIORI RAPPRESENTANTI DELLA SUA RAZZA ERA SEMPLICEMENTE MERAVIGLIOSO; SE NON FOSSE CHE AL TERMINE TUTTO VENISSE ROVINATO CON DELLE NOTE FINALI  SGRAZIATE E STONATE  CHE INVALIDAVONO   LA BELLEZZA  DELLA  MELODIA.

QUESTE NOTE AVEVONO UN SUONO DI QUESTO TIPO:  CIO’ , CIO’, CIOCCIO’, E POI ANCORA CIO’,CIO’ A MORIRE  DA QUI’ NACQUE IL SUO NOME.

 TANTI EPISODI E’ UNO SU TUTTI VALGONO A FARMELO RICORDARE ADESSO CHE NON C’E’ PIU’.

ERA UN POMERIGGIO INVERNALE , IL SOLE  INVOGLIAVA A RESTARE  ALL’APERTO, ERO AFFACCIATO  SUL BALCONE DI CASA CON “ CIOCCIO’” SULLE SPALLE, LUI STAVA BEATO E SONNECCHIOSO RISCALDATO DAI TIMIDI RAGGI , QUANDO UN RUMORE IMPROVVISO , ASSORDANTE , INASPETTATO LO FA’ TRASALIRE E SPAVENTARE ,CADE DALLE MIE SPALLE  E’ PRECIPITA GIU’. 

ALLORA ABITAVO VICINO AL MARE ACCANTO CORREVA UN MURO PERIMETRALE CHE DELIMITAVA LA  ZONA  ABITATIVA DA UN’AREA MILITARE DEMANIALE L’AREA ERA RICOPERTA DA UN VASTO CANNETO ,INTERROTTO QUA’ E LA’ DA MACCHIE DI VEGETAZIONE SPONTANEA , TUTTA LA ZONA  DAVA SU UNA BATTIGGIA PORTANTE I CUMULI DI ALGHE STRAPPATE DAI FONDALI NEL CORSO DELLE INUMEREVOLI  MAREGGIATE CHE SI ERANO SUCCEDUTE DURANTE QUEI MESI INVERNALI.

SCENDO GIU’ SCAVALCO IL MURO MI INFILO NEL CANNETO , NEI STERRATI E NELLE MACCHIE DI VEGETAZIONE ,LO CERCO INUTILMENTE, IL BUIO SI AFFACCIA ,ED UNA LEGGERA PIOGGERELLINA INIZIA A CADERE E’ SI FA’ SEMPRE PIU’ INTENSA ED INSISTENTE NON VEDO PIU’ NIENTE SONO BAGNATO DALLA TESTA AI PIEDI INCOMINCIO A DUBITARE CHE AVREI  POTUTO PIU’ RIVEDERLO .  LO CHIAMO , LO URLO CON VOCE COSI ALTA COME  NON  AVEVO MAI  FATTO PRIMA ,MENTRE INCESPICO AD OGNI PASSO , L’ANGOSCIA ,L’ANSIA DI NON VEDERLO PIU’ UCCIDE VIA VIA ANCHE LA SPERANZA ,POI  SENTO UN FLEBILE  “CIOCCIO’” “ CIOCCIO’” , TRASALISCO NON SPERAVO PIU’ DI SENTIRLO MI DIRIGO DOVE PENSO SIA PROVENUTO QUEL SUONO , CHE UNA VOLTA MI SEMBRAVA COSI’ SGRAZIATO E DEFORMANTE  ED ORA MI SEMBRA IL VERSO PIU’ BELLO CHE  LE MIE ORECCHIE POTESSERO ASCOLTARE , SPERO CHE NON SIA IL FRUTTO DI UN ABBAGLIO ,INTANTO IL BUIO SI FA’PIU’ INTENSO NON VEDO QUASI  NIENTE ; MA IL “ CIOCCIO’ “ “ CIOCCIO’ “  SI RIPRESENTA DI NUOVO E DI NUOVO CONTINUA INSISTENTEMENTE , POI E POI, AD UN TRATTO DAL FOLTO DI UN MACCHIA NERA COMPARE UNA MACCHIETTA GIALLA TUTTO BAGNATA E TREMANTE ERA “CIOCCIO’” MI STAVA D’AVANTI ALLUNGO IL BRACCIO ,LUI  FA ‘ UN SALTO E’ VI E’ SOPRA , INSIEME SIAMO TORNATI A CASA.

DISPIEGA LE ALI VERSO IL CIELO

AMICO MIO

VAI DOVE TI PORTA LA TUA VOGLIA DI LIBERTA’

FA’

CHE POSSA VEDERE UN PUNTINO GIALLO

SEMPRE PIU’IN ALTO E PIU’ LONTANO

FINO A SPARIRE AL MIO SGUARDO.

DI TE

MI RIMARRA’ IL BATTITO DEL TUO CUORICINO

I TUOI OCCHI CHE SI FONDONO CON I MIEI

E LA MIA MANO CHE SI APRE E TI LASCIA

ANDARE VERSO UN DESTINO CHE PER UN ISTATNTE

E’ STATO ANCHE IL MIO

VA’ AMICO MIO

CANTA AL MONDO LA FELICITA’

CON I SUONI PIU’ BELLI

CHE MAI NESSUNO A SENTITO

VA’ E’ PARLA DI ME’ SE PUOI

AFFINCHE’

POSSO ANCH’IO VIVERE

CON TE.

“Sonny”


di Giovanni Tropea

Era il 1970, avevo circa12 anni e già lavoravo in una segheria: Assemblavamo imballaggi in legno per prodotti ortofrutticoli.
La mia famiglia era molto numerosa; siamo arrivati a contarci in dodici tra fratelli e sorelle: I miei genitori si sono fermati soltanto quando hanno comprato il televisore!
Mio padre, di mestiere, faceva il carrettiere. Allora, il trasporto delle merci, soprattutto nell’ambito della stessa città, si faceva con carretto e cavallo da tiro. Anche i rari traslochi da un’abitazione ad un’altra erano effettuati allo stesso modo.
Noi ne avevamo quattro di cavalli da tiro. erano enormi. Ciascuno di essi, da solo, era capace di tirare un carretto carico di merce dal peso di tre tonnellate. Si trasportavano agrumi, dai magazzini alla stazione ferroviaria da dove, in seguito, partivano per il nord. Oppure, al porto, dalle navi si scaricavano grossi tronchi di legname della Romania e si trasportavano fino ai depositi o alle segherie di Catania.
Un cavallo, col relativo carretto, era usualmente condotto da Nuccio, il mio fratello maggiore. Il giorno, però, che Nuccio venne ricoverato d’urgenza in ospedale per una peritonite, mio padre mi fece sedere sul carretto, mi mise le redini in mano e mi disse:
“Gianni, devi sostituire Nuccio fino a quando non guarirà. Ce la farai. Ormai sei grande!”
Credo sia del tutto inutile descrivere la mia miopia. Ero eccitato per quell’inaspettato giocattolo ( è in tal modo, almeno, che io consideravo, allora, cavallo e carretto!) che avevo ricevuto, ma ero in special modo felice per il fatto che mio padre mi ritenesse più grande e meritevole della sua fiducia!
Il cavallo era un pacifico, imponente roano molto in là con gli anni. Ai carrettieri piaceva molto questo tipo di cavalli, vuoi per il loro mite carattere, vuoi anche perché imparavano in fretta: Anche a lasciarli senza conducente, avrebbero ugualmente compiuto lo stesso tragitto fino a destinazione.
Al nostro passare, si soffermavano tutti a guardarci: Certo doveva essere molto curioso vedere un ragazzino così esile e mingherlino condurre un tale mastodontico animale1 Nei pressi della stazione ferroviaria, i turisti americani, inglesi e tedeschi, si affrettavano a scattarmi alcune fotografie.
[Vi chiederete come facevo io a sapere che erano americani, inglesi e tedeschi? Ebbene, la mia città è cullata dal mare e accarezzata dal sole, e non catanesi, di conseguenza, , siamo tutti ( o, almeno in gran parte ) abbruniti. A quelli, invece, il sole faceva uno strano effetto: Tingeva la loro carnagione dello stesso colore dei pomodori maturi della nostra piana!]

Il lavoro del carrettiere era molto faticoso. Alle due di notte, mio padre col suo carretto ed io col mio, eravamo già al porto o davanti alla stazione, in fila con gli altri carrettieri, ad aspettare il nostro turno di carico. Poi, davanti alle segherie o ai magazzini, altra fila per scaricare. Si andavaavanti così fino a mezzogiorno, quando, senza nemmeno scendere dal carretto, facevamo una breve pausa per mangiare il cibo che, con cura e dedizione, mia madre aveva preparato la sera precedente. Subito dopo si riprendeva il lavoro. Però tutto questo non mi pesava per nulla anzi, appena stringevatra le mani le redini del cavallo, venivo istantaneamente catapultato nel film “Ombre rosse” ed io mi trasformavo in quel Ringo che, alla guida della diligenza, veniva attaccato da un’orda di spietati pellirosse. La cruente battaglia terminava con me vincitore, è ovvio soltanto alle cinque del pomeriggio quando, sterminati tutti gli indiani, la voce di mio padre mi riportava alla realtà , nella nostra stalla:
“Gianni, sbrigati, governa il cavallo, ripuliscilo da tutto quel sudore, dagli una bella spazzolata e poi dell’acqua e anche un po’ di biada, poi lascialo a riposare, se l’è meritato! Andiamo pure noi a casa, facciamo un bagno, ceniamo e subito a letto. Domani ci aspetta una buona giornata di duro lavoro.”
Una volta a letto, per pochi minuti soltanto fantasticavo sugli inseguimenti e sugli indiani che avrei dovuto affrontare il giorno dopo, poi sprofondavo in un sonno ininterrotto, anch’esso popolato da pellirossa e cowboy.

Dimesso dall’ospedale, mio fratello Nuccio ritornò a casa e riprese a lavorare col suo cavallo, col suo carretto. Mio padre, comunque, non mi mandò più a lavorare in segheria:
“Bada alle stalle!” Mi disse “ Prenditi soprattutto cura di Polly che è malato.”
Polly era un cavallo Baio che soffriva di flebite: Aveva aveva un’infiammazione alle vene delle spalle. Poiché il sole, la sabbia e l’acqua marina sono curativi per questa patologia, tutti i giorni conducevo Polly alla Plaia, l’esteso e luminoso litorale che abbraccia Catania, gli montavo in groppa e facevamo il bagno insieme ( stavolta mi trasformavo in Lancillotto in una delle sue eroiche imprese ) oppure, a volte, mi attaccavo alla sua coda e puntando i piedi sulla sabbia mi lasciavo trainare…
Credo che sia nato così la mia viva passione per i cavalli.
Il progresso, però, avanzava e sempre più diffusamente le motoape, i furgoni e i camions rubarono il lavoro ai cavalli. I carrettieri si trasformarono, dunque, in autotrasportatori e nacquero così le prime agenzie di trasporti e traslochi e di spedizioni e viaggi. Tuttavia, mio padre volle sempre rimanere carrettiere: Si rifiutava di tradire i suoi cavalli e non riusciva anzi, a spiegarsi come gli altri, ormai ex carrettieri, avevano potuto affezionarsi a degli impersonali motori.
Rimase senza lavoro!

Per contribuire al bilancio famigliare, io andai a lavorare in una polleria. Ma la passione per i cavalli rimase.
Quando a ventitre anni, dopo una forzata assenza da casa durata sette anni ( vogliamo dire che avevo preso le ferie?) riuscii ad avere una discreta somma di denaro tutta per me, mi recai a Roma, alle Capannelle, e comprai Sonny, un purosangue irlandese, un sauro di cinque anni, dal fisico asciutto e dal carattere sensibile e nervoso, che non si sarebbe mai abituato ai rumori assordanti e al traffico cittadino. Così, per alcuni mesi, Sonny ed io facemmo solo delle lunghe vagabondate notturne per le strade allora deserte di Catania. quando lo spronavo al galoppo, il clangore del ferro degli zoccoli che batteva sul selciato provocava mille scintille e rimbalzava da un edificio all’altro. La città era tutta e soltanto nostra, in quei momenti, anche se non l’avrei mai ammesso, ridiventavo Ringo.
Spesso, di giorno, io facevo salire su di un furgone che avevo modificato e adibito al trasporto dei cavalli, e lo portavo alla Plaia. Dopo estenuanti cavalcate sulla battigia ( quando mi trasformavo in Lancillotto ), entrambi stanchi e sudati, ci allungavamo a riposare sulla fina sabbia dorata.. Mi sembrava che io e Sonny fossimo diventati una cosa sola: Percepivo i nostri cuori pulsare alla stessa frequenza. Era come se avessimo galoppato sulle nuvole. A volte, rimanevamo sdraiati così fino a quando le ombre si allungavano e il cielo si screziava di arancio e indaco.

Ho imparato molto da Sonny, più di quanto abbia mai imparato da qualsiasi uomo. Ho imparato che nella vita , oltre al prendere, c’è anche il dare.
Poi, un giorno, fui costretto a prendere altre ferie, stavolta durate quattro anni (già, io in ferie non ci vado tutti gli anni, ma quando le prendo è sempre per un periodo molto lungo!).
Comunque, al mio ritorno non trovo più Sonny: Mio padre l’aveva veduto. L’ho cercato dappertutto, ma invano.
Una volta, in un’occasione, qualcuno mi disse che l’avrei trovato in un determinato maneggio di Catania. Ci sono andato col cuore che scoppiava di speranza. Ma il cavallo che mi avevano indicato non era affatto Sonny, ne aveva soltanto ereditato la certificazione. capii, dunque, che Sonny era morto.
Nei tanti anni successivi, ho avuto molti cavalli. Con tutti ho fatto delle lunghe escursioni notturne per le vie, sempre meno deserte della città, ho galoppato sulla sabbia, sempre meno dorata, della Plaia, ma con nessuno di essi mi sono più sentito né Ringo, né tanto meno, Lancillotto.

dal carcere di Spoleto
da www.informacarcere.it

“Gatto”


Oggi è la giornata del gatto nero; voglio pubblicare questo racconto scritto da una persona detenuta nel carcere di Spoleto in cui il gatto del titolo è un metafora…leggetelo con attenzione

Agli inizi degli anni ’70, in un quartiere popolare di una ridente cittadina del Sud, sul tetto di una bella palazzina a tre piani, viveva beato un piccolo gatto grigio screziato di bianco. Da lassù, il suo sguardo abbracciava l’intero rione.

La mattina, ancora col buio, scrutava il proprietario del bar all’angolo aprire bottega e preparare i primi caffè: subito dopo, infatti, sarebbero arrivati i fruttaioli per fare una breve sosta prima di recarsi al mercato generale a rifornirsi di frutta e verdura: Tra di loro, due o tre, i ricchi, giungevano a bordo delle loro scintillanti motoape (le prime in circolazione!); tutti gli altri, i poveri, arrivavano su degli sgangherati carretti tirati da stanchi asini o muli.
Poi, quando cominciava ad albeggiare, al bar giungeva il muratore e, quindi, il calzolaio del quartiere.
Il gattino, (che in realtà non possedeva nome alcuno ma che, per comodità narrativa, d’ora in avanti chiamerò Gatto) aveva imparato a conoscere, ad uno ad uno, tutti quegli uomini e le loro pacate, regolari, abitudini!

Dopo poche ore, Gatto poteva scorgere le donnine mentre, coi secchi in mano e parlottando vivacemente tra di loro, si recavano a prendere l’acqua alla fontanella della piazza (è già! Allora, in quel rione, l’acqua diretta in casa era un lusso che soltanto pochissimi privilegiati potevano permettersi!).

Soltanto poco più tardi, quando fronte di bambini in grembiule blu, colletto bianco e fiocco azzurro (per i maschietti) o rosa (per le femminucce), rallegravano il quartiere col loro vociare squillante, Gatto, non prima di qualche stiracchiamento e alcuni sbadigli, finalmente si decideva a balzare giù dal suo tetto e li seguiva: era sempre (e ne può ben intuire il motivo!) fortemente attratto da quei cestini che i bambini roteavano in aria e che contenevano le loro merendine!
Davanti al portone della scuola, immancabilmente Gatto s’immalinconiva nel vedere, attraverso le finestre, che la metà dei banchi delle aule rimanevano tristemente vuoti. A quei tempi, le famiglie avevano molti figli e, fra questi, molti, anche se ancora bambini, venivano mandati a lavorare a bottega per contribuire al magro bilancio familiare. Alcuni ragazzini, addirittura, erano costretti a rubare, magari anche soltanto qualche frutto dal carretto del venditore ambulante.
Contrariato, Gatto se ne ritornava, sul suo tetto e guardava il mare. Trascorreva delle ore a contemplarlo: solo così gli passava l’arrabbiatura. Immaginava, quindi, paesi lontani, al di là di tutto quel blu. Fantasticava su città in cui tutte le abitudini avevano l’acqua corrente, in cui tutti i banchi delle aule di scuola erano occupati e in cui, soprattutto, i ragazzini non erano costretti a rubare.

Alle prime ore pomeridiane, quando, di solito, per le strade del quartiere non c’era molta gente, spesso Gatto sorprendeva una coppia di giovani fidanzatini che dietro un angolo deserto si davano un casto bacio e si scambiavano, con aria furtiva, dei fogli di carta, minutamente ripiegati, coi quali, reciprocamente, si giuravano amore eterno.

(Negli anni ’70 un bacio rubato esprimeva più amore che non dieci di oggi e un’ innocente carezza riscaldava più di cento abbracci di oggi! Negli anni ’70 una lettera racchiudeva più sentimento che non mille sms odierni! Negli anni ’70 ogni cosa aveva un suo profumo caratteristico e un significato speciale! Negli anni ’70, insomma, era tutto più magico!)

Ma ecco che un malaugurato giorno, Gatto, senza nemmeno rendersene conto, cadde giù dal tetto. Venne immediatamente catturato e rinchiuso, insieme ad altri, in una gabbia fatta di cemento e di ferro, e anche intrisa di tanta, troppa, ignorante prepotenza. Com’erano grandi, grossi e malvagi gli altri prigionieri, avrebbero potuto benissimo annientarlo anche con un’unghia soltanto del piede! Era a questo che Gatto pensava quando una notte, all’improvviso, gli apparve l’inquietante figura di un uomo che al posto delle gambe aveva come un fuoco divorante.
“Che cosa vuoi da me?” Gli chiese Gatto.
“Voglio la tua anima! … In cambio ti farò diventare fortissimo… Io ti trasformerò in un orso, in tal modo potrai lottare e vincere contro chiunque voglia sopprimerti!”
“Accetto!” Rispose Gatto con timore e qualche perplessità. Istantaneamente si trasformò in orso.
(Ma Dio dov’era negli anni ’70?)

Cominciò così la storia di Orso. Ora non aveva più timore degli altri. In quelle gabbie di cemento e ferro, più che sui tetti e le strade del quartiere, vigeva la legge della giungla, la legge del più forte. (Ma Dio dov’era negli anni ’70?) Solo che adesso Orso era tra i forti, nessuno avrebbe sperato di potersela cavare se soltanto avesse osato pensare di fargli del male.
Certo, fu una continua lotta. Feroce. (Ma Dio dov’era negli anni ’70?). In inverno, Orso non andò nemmeno in letargo: Era costretto a stare sempre vigile se voleva sopravvivere.

Col passare degli anni, nella gabbia ferro-cemento l’esistenza divenne meno brutale.
A volte Orso aveva persino il tempo di riflettere su quella che era stata la sua trascorsa esistenza. Così gli riaffiorarono alla mente i tempi in cui era un piccolo, libero, gatto grigio screziato di bianco. Con nostalgica amarezza ricordava soprattutto i banchi vuoti delle aule scolastiche.
Ma ecco che un bel giorno Orso scoprì che anche lì, nella gabbia dove viveva, vi erano delle aule con dei banchi vuoti.
“E se ne occupassi uno io? Tanto sono quasi tutti vuoti…” Pensò.
Prese il coraggio a due mani (Pardon, intendevo dire: “a due zampe”!) e senza starci a pensare troppo su, si sedette.
Incominciò così, piano piano, ad imparare a leggere e anche a scrivere. (Vuoi vedere che lì c’era Dio?!)
Col tempo Orso imparò anche qualche nozione di Storia, di Geografia e di Matematica.
Più passava il tempo e più conosceva però, maggiore diveniva il desiderio di riavere la sua anima. avrebbe voluto essere ancora Gatto. Desiderava ritornare su quel tetto della palazzina a tre piani di quel quartiere popolare della ridente città del Sud.
Non avrebbe avuto, per lui, nemmeno più importanza se alti palazzi avevano ormai del tutto ostruito la visuale del mare, se il bar all’angolo non c’era più, se i bambini si recavano a scuola senza grembiule ma con T-shirt e jeans firmati. Non importava neppure se freddi Ipermercati avevano sostituito le accoglienti botteghe del fruttivendolo, del calzolaio, del macellaio, del panettiere, ecc…
(Però che tristezza non vedere più due giovani innamorati scambiarsi una lettera d’amore!)
Orso percepiva di possedere un’anima nuova. Un’anima donatagli dall’altissimo.
Aveva scoperto che dio è in tutto il Creato. E che il Suo Amore è in tutti gli uomini: Anche se in tanti uccidono tale amore perché, erroneamente, ritengono sia più facile e vantaggioso coltivare odio e egoismo.
Aveva soprattutto intuito che per Dio lui era ritornato ad essere Gatto! (O forse, non aveva mai cessato di esserlo?!)

Giovanni Tropea
Carcere di Spoleto

da www.informacarcere.it