“Disagio mentale” dal carcere di Opera (MI)


di Alfredo Sole

Scontare una lunga carcerazione, più spesso di quanto si pensi, non solo non “rieduca” il detenuto ma lo scaraventa in una dimensione tra lucidità e follia. Un punto di non ritorno che trasforma un essere umano nell’ombra di se stesso.
Ogni mattina alle 7.30 inizia la giornata di disagio mentale di un nostro compagno: “Non sono infame! Non sono confidente! Non sono appuntato! Sono esaurito! Sono esaurito! Sono esaurito! Vattene diavolo maledetto! Vattene diavolo maledetto! Ammazzati tu! Ammazzati tu! Nel nome del padre del figlio e dello spirito santo, amen! Nel nome del padre del figlio e dello spirito santo, amen!”.
Queste sono le parole che grida dalla mattina alla sera. Più di dodici ore quasi ininterrottamente con delle pause che variano da 10 minuti a 30 al massimo. L’unica cura a sua disposizione è il continuo tentare di sederlo. Dico tentare perchè nulla di quello che gli danno gli fa più effetto. Il suo corpo è così assuefatto da non sentire i calmanti che gli somministrano.
La sua voce rimbomba continuamente nel corridoio. Ci rendiamo conto che è un disagio, che è una persona malata. Ma ognuno di noi è “esaurito” a modo suo e quel gridare continuo rompe quella voglia e bisogno di tranquillità e silenzio che ognuno di noi necessità. Nonostante tutto cerchiamo di non fare pesare a questa persona disagiata che il suo continuo gridare e a volte anche insultare i compagni, crea così tanto fastidio da maledire il momento in cui hanno deciso di assegnarlo in queste sezioni. Ma che fare? Non è abbastanza malato (a dire dei dottori) da poter essere ricoverato in un ospedale di igiene mentale, ma lo è abbastanza da non poter stare in una normale struttura carceraria, ma visto che non ci sono strutture adatte per lui, allora bisogna tenerlo in una normale struttura.
Ha scontato 20 anni dei suoi 30 di condanna. Non ha dato solo 20 di vita alla giustizia, ha dato anche ciò che non potrà mai più recuperare, la ragione! Cosa possono volere ancora da lui? La sua vita? A cosa potrebbe servire e a chi? Lo scontare di una condanna deve essere recepita da chi la sconta, ma nel momento in cui una persona come Leo (è così che si chiama), non percepisce più il suo trascorrere del tempo e quello che ancora ne dovrà trascorrere, a che serve perseverare ed ostinarsi nel tenerlo inchiodato a una realtà che lui non percepisce? 20 anni di carcere, se la sua mente avesse retto sarebbe già libero così come lo sono i suoi coimputati. Invece, eccolo! Con la sua lunga barba bianca, non curante del proprio corpo, immergersi giorno dopo giorno in una realtà onirica che lo trascina sempre più in un abisso senza ritorno.
Opera, per Leo, non è altro che l’ennesimo carcere che cercherà di ammansirlo con litri e litri di Valium, con pillole e punture. Dopodichè come tutti gli altri carceri dove è stato, verrà scaricato in un altro carcere ancora, dove tutto ricomincerà. Le sue grida di disagio rimbomberanno per tutta la sezione e dopo un po’, di nuovo in viaggio in un altro carcere…

da www.informacarcere.it

Carceri: Hiv, Lazio maglia nera: è malato il 3,33% dei detenuti


Il Lazio detiene il record di detenuti con Hiv: sono il 3,33%, quasi il doppio rispetto alla media italiana dell’1,98%. E’ quanto emerso dal convegno “L’emergenza sanitaria nei penitenziari italiani”, che si è svolto oggi nel carcere di Regina Coeli a Roma. L’iniziativa, organizzata dal centro studi Cappella Orsini, si è svolta nella rotonda centrale del penitenziario. Dei 2.500 detenuti sieropositivi che vivono nelle carceri italiane circa 200 si trovano negli istituti penitenziari del Lazio. Ma non è solo l’hiv a colpire i carcerati. Dilaga l’epatite, con oltre 2mila detenuti affetti da epatite virale cronica B e C, soprattutto tra i tossicodipendenti (71% dei casi) che rappresentano il 26,8% del totale, mentre sono in forte aumento i casi di tubercolosi. Il 27% dei detenuti soffre di problemi di carattere psicologico o psichiatrico e uno su due è stato almeno una volta trattato con psicofarmaci.

da notizie.virgilio.it

fonte APCOM

“Legato al letto in manicomio”: così hanno ucciso mio figlio


di Francesco Alberti – Corriere della Sera

letto di un manicomioPARMA — Giuseppe Saladi­no, detto Geppo, 32 anni, elet­tricista, tossicomane in cura al Sert e ladruncolo, crollato di schianto in una cella del car­cere di Parma, dove era stato portato poche ore prima, ave­va il terrore della galera. Scri­veva lettere disperate alla ma­dre Rosa e alla fidanzata Anna­lisa, lui condannato a un anno e 2 mesi per aver scassinato al­cuni parchimetri del centro: «Aiutatemi, ho paura, qui c’è gente terribile, assassini, rapi­natori, mi sento guardato, non riesco a dormire…».

Era sempre sul chi vive: «Ho preso l’abitudine di anda­re per ultimo a fare la doccia, aspetto che gli altri siano usci­ti, speriamo…». E quando poi l’avevano trasferito dal carce­re di Parma all’ospedale psi­chiatrico di Reggio Emilia, dia­gnosticandogli «uno scom­penso psichico in disturbo psi­cotico », il terrore era diventa­to panico.

«Mi raccontava — afferma il legale della famiglia, Letizia Tonoletti — che lo tenevano ‘contenuto’, cioè legato, oltre a sottoporlo ad un trattamen­to di psicofarmaci. L’hanno cu­rato come se fosse un pazien­te psichiatrico, ma lui non lo era e per questo avevo chiesto di ricoverarlo in un ospedale civile, ma inutilmente…».

Ottenuti gli arresti domici­­liari, Geppo è evaso. Solo po­che ore (l’hanno ripreso subi­to), sufficienti però, così ipo­tizzano gli inquirenti, per tor­nare al vecchio vizio della dro­ga: una dose, magari anche piccola, ma che potrebbe esse­re stata fatale per un organi­smo già debilitato dagli psico­farmaci.

Non ci sono ancora indaga­ti nell’inchiesta per omicidio colposo aperta dal pm Rober­ta Licci. E nemmeno risposte sull’improvvisa scomparsa di Geppo. I verbali della questu­ra parlano di «overdose da stu­pefacenti ». La direzione del carcere di Parma di «arresto cardiaco». Il legale della famiglia è inve­ce convinto che «i medicinali prescritti all’ospedale psichia­trico, che Giuseppe ha conti­nuato regolarmente a prende­re anche dopo aver lasciato la struttura, abbiano avuto un peso nel decesso». L’unica pi­sta che sembra scartata è quel­la del pestaggio o dei maltrat­tamenti.

L’attenzione degli inquiren­ti è concentrata sull’iter carce­rario al quale è stato sottopo­sto il giovane per capire se era compatibile con il suo stato di tossicodipendenza: dall’effetti­va necessità del trasferimento all’ospedale psichiatrico, alla congruità della terapia di psi­cofarmaci, fino ad eventuali la­cune o sottovalutazioni da par­te della componente sanitaria. La madre del ragazzo, Rosa Martirano, non si dà pace, ne ha per tutti: «Mio figlio era sa­no, me l’hanno ridato morto. Non era un assassino, solo un ladro di polli… Mi devono spiegare perché l’hanno man­dato in quel manicomio (l’ospedale psichiatrico di Reg­gio, ndr.), è lì che me l’hanno rovinato: quando l’ho rivisto era sempre intontito, assente, terrorizzato…».

Le ultime ore di Geppo so­no un mix di incoscienza e in­genuità. Il 6 ottobre scorso, dopo aver scontato una parte della pena, ottiene gli arresti domiciliari. Arriva a casa e do­po un’ora ecco comparire la sua fidanzata Annalisa. I due abbandonano l’appartamen­to, non si sa quanto consape­voli di commettere il reato di evasione. Quando tornano, ci sono i poliziotti ad aspettarli. Geppo viene prima portato in questura e poi di nuovo in car­cere. Nella notte muore. Il mondo della politica, già scos­so dal caso Cucchi, torna ad in­terrogarsi. I radicali chiedono al ministro Alfano un’ispezio­ne nel carcere di Parma. La Cgil parla di «situazione intol­lerabile ». I dipietristi annota­no amari: «La morte di Cucchi non è servita a niente».

da www.innocentievasioni.net