di Monica Maiorano
La paura è una delle emozioni più antiche, un sentimento ancestrale la cui origine coincide con la comparsa della vita animale sulla terra.
E’ un istinto primitivo indipendente da ogni forma di intelligenza, razionalità e cultura, serve ad attivare importanti meccanismi di difesa, essendo strettamente collegata all’istinto di autoconservazione di ogni specie vivente.
Molti studi e ricerche sono state condotte in merito ed è stato osservato che in situazioni di pericolo è come se si riprovasse, in embrione, quella sensazione di minaccia e di timore che accompagnava probabilmente i nostri antenati in prossimità di un pericolo.
Inoltre più è vicino il pericolo più l’attività del cervello si sposta verso zone che controllano i meccanismi più arcaici e istintivi.
In caso di pericolo viene chiamata in causa la corteccia prefrontale, regione cerebrale deputata al controllo di meccanismi molto evoluti, ma se la fonte del timore si avvicina viene attivato il mesencefalo, l’area più primitiva del cervello. Contemporaneamente viene prodotta una sostanza che è una sorta di analgesico naturale, che prepara l’essere umano a gestire e sopportare un eventuale dolore.
Uno studio condotto da John Wemmie e Michael Welsh dell‘Università dell’Iowa, conferma che la zona del cervello responsabile dell’acquisizione di paure e di episodi di panico è l’amigdala, in particolare essa è dotata di sensori chimici che fungono da innesco a un timore primordiale, quello di soffocare. Questi sensori, in particolare, rispondono al livello di acidità presente nel cervello, a sua volta legato all’eccesso di biossido di carbonio, evocando un comportamento di terrore e fuga.
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista “Cell” (The Amygdala Is a Chemosensor that Detects Carbon Dioxide and Acidosis to Elicit Fear Behavior).
I ricercatori spiegano che è come se l’evoluzione avesse piazzato un sensore nel circuito neuronale della paura.
Il circuito in questione si trova nell’amigdala, la struttura che stimola il sistema nervoso simpatico in vista di un comportamento “combatti o fuggi” e collegato ad altre aree coinvolte nella risposta a eventuali sfide.
In particolare l’amigdala e altre aree coinvolte nei meccanismi della paura sarebbero provviste di abbondanti sensori di acidità, rappresentati da canali ionici, che innescano l’attivazione dei neuroni quando il pH del loro ambiente crolla.
Siccome gli organismi che respirano ossigeno sono a costante rischio di asfissia, si può pensare che il rischio di soffocamento abbia avuto un’influenza fondamentale nel plasmare i sistemi di difesa del cervello che si sarebbe evoluto per generare un comportamento di difesa dal soffocamento e che sia successivamente stato adattato per fronteggiare sia sfide di origine interna che legate all’ambiente esterno.
Il tutto risponderebbe alla forma basilare di apprendimento nel regno animale, l’apprendimento pavloviano o condizionamento associativo utilizzato regolarmente nello studio delle trasformazioni che subiscono i circuiti cerebrali come risultato dell’esperienza.
Interessante è notare come le dimensioni della corteccia cerebrale dell’uomo moderno sono decisamente maggiori rispetto a quelle dei nostri antenati, il che da una parte spinge l’uomo inconsciamente a evitare situazioni di rischio e dall’altra parte fa sì che il vecchio homo sapiens fosse addestrato, molto più di oggi, a sopravvivere, scegliendo tempestivamente se fosse il caso di combattere o se fosse meglio semplicemente scappare.
La ricerca ha fornito una spiegazione molecolare del modo in cui l’aumento delle concentrazioni di biossido di carbonio sollecitano una sensazione di intensa paura, fornendo un punto di riferimento per analizzare le basi biochimiche dei disturbi d’ansia e da attacchi di panico. La scoperta indica quindi anche una nuova strada per contrastare questo tipo di patologie, prendendo come bersaglio terapeutico o i livelli di acidità cerebrali o i canali ionici sensibili all’acidità.
Fonte www.psiconline.it