di Laura Montanari
L’amore al tempo del carcere si sventola come una bandiera, è uno straccio bianco o rosso o nero che naviga nell’aria e cerca le parole come può, nel deserto senza intimità di una cella, nel tempo negato di una prigione. Ci sentite da li? Le mani sbucano dalle feritoie di Sollicciano, alla periferia di Firenze. Le mani si allungano fuori dalle finestre con le sbarre e “parlano” da un’ala all’altra di questo istituto che è un edificio ad anfiteatro, così largo che in mezzo ci potrebbe stare quasi un campo da calcio. Le voci non viaggiano abbastanza in quel vuoto e allora i detenuti e le detenute si arrangiano con il “panneggio”. È una specie di chat senza computer, un T9 senza telefonino, un alfabeto morse senza suoni.
Un dialogare per mezzo degli stracci, qualcosa di antico e primitivo, un viaggiare lento, da terza classe rispetto ai bit che attraversano il mondo libero. Un giro del panno per dire “a”, due per dire “b”, tre “c” e così lungo tutte le lettere fino alla “z”. Una fatica leggersi a distanza, ma quando le ore non passano e il silenzio è un mattone, la mano che sventola il pezzetto di stoffa diventa un’ancora, una compagnia, un ciao, un come stai. Qualcosa.
Una giovane regista teatrale, Elisa Taddei, che lavora con la gente di Sollicciano (il 17 e il 18 giugno porterà in scena al Giardino degli Incontri lo spettacolo “Il giardino degli animali”) racconta che nel carcere fiorentino, il panneggio è un linguaggio che va avanti da anni. “Me l’hanno spiegato alcuni detenuti, sono nate anche delle storie d’amore”. Una di certo. Quella fra Marinella e Vito. Lei dentro per spaccio e qualche scivolata precedente, lui per cose analoghe commesse in un’altra città. “Ci siamo spediti qualche lettera dall’interno del carcere, poi un giorno Vito mi ha scritto: stasera vieni al panneggio?”.
Marinella ha venticinque anni e sigarette che si inseguono incessanti sulle labbra mentre nella cucina di casa sua a Pistoia, dove è agli arresti domiciliari racconta: “Una zingara, Salia, che stava in cella con me, mi ha insegnato come si fa. Per un po’di mesi ho detto no, che non mi interessava, ma stavo ore e ore distesa sulla branda della mia cella a guardare il soffitto, con la musica nelle orecchie, a pensare al mio bambino di otto anni, fuori e dato in affido per i miei errori”. Un giorno anche “Mari” allunga le braccia dal terrazzino della sua cella e sventola segnali di stoffa nell’aria: “Ciao, sono qui”.
C’è qualcuno? Una bandierina che sventola, un messaggio di solitudine in bottiglia. Dall’altra parte qualcuno fa altrettanto. Chi è? Sarà lui? “Era proprio Vito, ci eravamo incrociati tramite un’altra ragazza che era in cella con me e che continuava a parlarmene. Così è come se fosse già stato un mio amico. In carcere l’amore scatta subito, basta poco”.
Il cuore sale sull’ottovolante, non è come fuori. Ovunque la passione grida, nel carcere grida come può. “Il panneggio per me era diventato un’ossessione – riprende Mari – c’è stato un periodo in cui andavo a lavorare, in lavanderia o come badante di una detenuta invalida. Lei era in isolamento e da lì non si panneggia. Allora la mattina prima di uscire io e Vito ci si dava il buongiorno sventolando i nostri stracci e poi si contavano le ore e si riprendeva quello strano modo di parlare, a sera”. Lo straccio ha il suo alfabeto: se è rosso vuol dire che il soggetto è occupato, se è nero meglio girare alla larga, se è bianco e steso come un lino ad asciugare tra le sbarre, vuol dire che si aspetta una chiamata. L’altra metà di Sollicciano è in linea. Ma ci sentite da lì?