TERREMOTI. In Italia il primo progetto per minori traumatizzati


di Benedetta Verrini

Bambini e terremoto: a ogni latitudine il trauma di una catastrofe naturale colpisce i più piccoli in modo devastante e spesso il personale sanitario e gli educatori sono impreparati ad affrontare l’impatto emotivo e psicologico di un’esperienza così terribile.

Con lo sguardo in queste ore rivolto ad Haiti, l’Ospedale Bambin Gesù di Roma ha annunciato questa mattina l’avvio di un progetto, il primo al mondo, sugli aspetti conoscitivi e terapeutici della Sindrome Post Traumatica da Stress.

Si chiama progetto Rainbow e coinvolgerà oltre 7mila bambini del territorio abruzzese colpito dal terremoto del 6 aprile 2009, che ha provocato 308 morti, oltre 1600 feriti, 30 mila sfollati.

A realizzarlo, in collaborazione, saranno l’Ordine dei Ministri degli Infermi – Camilliani attraverso la propria Camillian Task Force ( organismo che offre un aiuto globale, alle vittime di calamità naturali o provocate dall’uomo, attraverso un competente sostegno umanitario, sanitario e pastorale) con il coordinamento scientifico dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, il sostegno della Caritas Italiana e la collaborazione dei pediatri di famiglia abruzzesi.

Proprio i Camilliani, presenti anche ad Haiti, sono in queste ore testimoni dell’impatto devastante del terremoto in un territorio già segnato da conflitti e povertà.

L’idea che il progetto Rainbow, dall’Italia, possa diventare un modello d’intervento esportabile in ogni contesto è dunque di particolare attualità.

Lo studio si compone di due segmenti: il primo coinvolgerà direttamente i pediatri del territorio e un nutrito campione di bambini (dai 3 ai 14 anni) da loro assistiti ai quali verranno presentati dei questionari di screening. In base al risultato dei test l’eventuale diagnosi sarà confermata da una visita specialistica neuropsichiatrica (si stima un 20-30% di bambini nell’epicentro del terremoto e 10% nel resto dell’Abruzzo).

La seconda parte si concentrerà sui percorsi di formazione di un numero elevato di insegnanti ed operatori volontari con l’obiettivo di sviluppare abilità di supporto attraverso interventi di educazione alla pro-socialità; sullo studio della ricaduta della formazione degli insegnanti su circa 1.500 bambini della scuola materna ed elementare e sull’analisi complessiva finale di tutti i dati raccolti.

Spesso la risposta al trauma è la paura intensa, il senso di impotenza e orrore; il rivivere in maniera persistente il momento drammatico, la difficoltà di addormentarsi o a mantenere il sonno, l’ipervigilanza ed esagerate risposte di allarme.
Sia i pediatri di famiglia che gli insegnanti ricevono scarsa formazione nel tradizionale iter di studi su come riconoscere i segni e i sintomi che caratterizzano le patologie della psiche indotte dai traumi e, nello specifico, la Sindrome Postraumatica da Stress.
Parte integrante del Progetto Rainbow è pertanto la serie di percorsi formativi rivolta a pediatri e a insegnanti per la gestione della PTSD.

da www.vita.it

MINORI: per 70mila la scuola è matrigna


di Benedetta Verrini

Cosa sono 70mila contro 9 milioni? E’ il numero dei bambini in adozione e affido che ogni anno si trova ad affrontare il percorso scolastico insieme a tutti gli altri studenti italiani. Per aiutarli, nel mese di settembre, durante il convegno “Adozione, affido e leaving care tra scuola e famiglia”, l’Associazione Amici dei Bambini ha lanciato le “Linee Guida per la scuola” per favorire la migliore integrazione dei minori.

Vita ha ospitato un approfondimento sul tema a pag.11 del n.34, il 4 settembre 2009. Ecco un estratto:

La matematica non aiuta. C’è una legge di maggioranza che rende I bambini adottati, i minori in affido e i ragazzi fuori famiglia un imbarazzante problema nelle aule scolastiche. Gli studenti italiani sono circa 9 milioni. “Loro”, il problema, sono circa 60-70mila.

Hanno una fisionomia complessa: gli adottati sono italiani o – più spesso – stranieri, con una famiglia molto presente ma una pesante storia di abbandono da elaborare.

Per i minori in affido o fuori dalla famiglia il dolore non è solo alle spalle, è una quotidianità precaria, vissuta attraverso l’isolamento o l’aggressività.

Sono ragazzi come Margherita, che non accetta il metodo di lavoro “a squadre” della prof di spagnolo perché è meglio una nota che far sapere ai compagni che vive in una comunità. O come il piccolo Santiago, le cui maestre non comprendono le difficoltà: «Adesso che è stato adottato dovrebbe aver superato tutto, no?». O come Emanuele, che l’anno scorso a scuola ripeteva: «Tanto qui non resto, torno da mamma e papà». Ma quest’estate, mentre era in una colonia estiva, il Tribunale ha deciso che i suoi non sono ancora pronti a fare i genitori.

Si naviga a vista

Mosche bianche «che è fin troppo facile escludere, punire, bocciare», confessa una preside vecchio stampo, Giovanna Rosa Pifferi, dirigente scolastico in una scuola media e docente di Pedagogia e didattica presso l’Istituto di scienze religiose di Siena. «Se per gli stranieri o per i bambini con disabilità abbiamo una normativa cui fare riferimento e siamo aiutati all’inclusione, per questi ragazzi si naviga a vista». Anche combattendo con insegnanti stremati o demotivati, che dicono di non potersi trasformare in assistenti sociali o di non poter ritardare il programma. «Come dirigente spesso dico che noi, come scuola, non possiamo infilarci in quello stesso giro di abbandono che ha reso questi ragazzi così difficili», dice la Pifferi.

«Dobbiamo dar loro obiettivi raggiungibili, anche se non sono allineati con gli standard comuni. Siamo educatori e dunque non dobbiamo riempire le teste, ma fare teste che ragionano. Tutto questo, però, non si può improvvisare. Abbiamo bisogno di punti di riferimento comuni, una formazione specifica per gli insegnanti, un progetto condiviso tra scuola, famiglia e servizi».

Fuori dalla porta

È di questo che il 24 e 25 agosto si è parlato al convegno internazionale di AiBi «Emergenza educativa. Adozione, affido e leaving care tra scuola e famiglia». Assente ingiustificato, forse proprio per la dittatura dei numeri, il ministero dell’Istruzione

Giustizia: così si muore di sotto organico in un carcere minorile


di Sofia Basso

Ci sono posti dove le carenze di personale non si traducono in lunghe attese ma possono costare la vita. È il caso delle carceri minorili, dove i buchi di organico superano il 15 per cento. “Sia a livello di educatori sia di polizia penitenziaria – denuncia Bruno Brattoli, capo del dipartimento della giustizia minorile – la scopertura di organici in alcuni casi è marcata. Su mille agenti penitenziari previsti, ne abbiamo solo 850. Sono necessari sforzi ulteriori, non solo per umanità ma perché la pena deve tendere alla rieducazione. Non si tratta di soldi di serie B ma di serie A, a compimento dell’interesse collettivo”.

Quest’anno sono stati già due i ragazzini che si sono suicidati mentre erano sotto la custodia dello Stato: il 25 luglio si è tolto la vita un diciannovenne rinchiuso nell’istituto penale per minori di Bari; il 17 novembre è stata la volta di Yassime, un marocchino di 17 anni che si è impiccato con un lenzuolo nella doccia del Meucci di Firenze. Due sui circa 500 ragazzi detenuti in tutt’Italia (per il 94 per cento maschi).

Perché se gli adolescenti tra, i 14 e i 17 anni che compiono reati sono 18mila, quelli che finiscono dietro le sbarre sono meno di un terzo. Circa la metà di loro sono stranieri, denuncia il capitolo sui minori del rapporto 2009 di Antigone: per gli immigrati “la detenzione rimane ancora lo strumento privilegiato di controllo e di sanzione”, mentre gli italiani riescono a evitare la prigione grazie a prescrizioni, permanenza in casa o collocamento in comunità.

“Il carcere minorile in Italia – osserva Antigone – appare riservato a tre categorie di persone qualificate da una condizione di emarginazione economica, sociale, culturale: gli stranieri, i cosiddetti “minori nomadi” e i minori provenienti dalla aree disagiate del Meridione”. Un percorso che per gli autori del rapporti “smentisce gli intenti professati dalla riforma del 1988”, che aveva scelto un indirizzo garantista rafforzando i meccanismi di messa alla prova e di mediazione.

Per Brattoli la giustizia minorile ha funzionato bene ma bisogna investire “ulteriori energie professionali ed econo-miche”, perché “ci vuole un’attenzione assidua”. A differenza degli adulti, i detenuti ragazzini non stanno quasi mai in cella, spiega il capo del dipartimento dal suo ufficio alla Balduina, Roma nord: si spostano dai laboratori di computer alle aule per la scolarizzazione di base, dai campi di pallone ai luoghi della formazione professionale. Basta una distrazione, e qualcuno può tentare la fuga. In primavera le carceri minorili di Bologna, Firenze e Potenza hanno registrato sette evasioni, il 26 ottobre quattro giovani detenuti sono scappati dall’istituto di Airola (Benevento), e altri tre hanno tentato di fuggire dal Beccaria di Milano.

Uno dei problemi più difficili da gestire è quello del sovraffollamento perché non è prevedibile: “Il dipartimento tenta di arginarlo attraverso i trasferimenti, che a loro volta creano ulteriore sovraffollamento. Senza contare il fatto che lo spostamento dei ragazzi comporta un’ulteriore ricaduta negativa sui familiari e va fatto con l’accordo di tutti”. Su 18 istituti penali minorili (Ipm), quelli in funzione sono 16: quello de L’Aquila è stato evacuato dopo il terremoto mentre quello di Lecce è stato chiuso per ristrutturazione quando alcuni agenti penitenziari sono stati denunciati per abusi sui ragaz-zi. Presto, anticipa Brattoli a Left, sarà aperto un nuovo Ipm a Pontremoli, “di grande utilità per il Nord-ovest, perché alleggerirà il sovraffollamento negli istituti di Milano, Torino e Bologna”.

Anche la deputata Radicale Rita Bernardini, che a ferragosto ha visitato due carceri minorili (Nisida, in provincia di Napoli, e Casal del Marmo, in provincia di Roma), punta il dito sulle carenze d’organico: “Questi istituti sono migliori di quelli per gli adulti ma non adeguati alle necessità di ragazzi e ragazze, tutti più facilmente recuperabili. Mancano educatori e agenti. Spesso sono state ridotte anche le attività di formazione. Se non si investe di più, non si segue quel percorso privilegiato previsto per i minori”.

La deputata snocciola quelle che definisce le “cifre dell’emarginazione”: sui 50 detenuti di Roma, 34 erano stranieri e la metà era tossicodipendente. Se poi si aggiungono i rom, si ha un “chiaro spaccato dei disagi della società”. Per Brattoli, la ragione della sovra rappresentazione degli immigrati in carcere è legata anche al fatto che molte volte non hanno una casa o una famiglia e quindi le misure alternative spesso non sono applicabili. “Spesso chi compie reati viene da una condizione economica e culturale medio bassa ma la nuova delinquenza a volte prescinde dal censo e dalla cultura: è una forma di insoddisfazione che porta a delinquere non per necessità o nell’impeto ma, come nel caso del bullismo e delle piccole gang organizzate, per mancanza di valori fondamentali. Come i tre ragazzi del litorale romano che hanno dato fuoco a un clochard indiano”.

Brattoli è convinto che i suicidi siano essenzialmente legati alle carenza di organico: “Non si può, non si deve morire in carcere. Ma siccome non si tratta dì megastrutture è possibile agire con tempestività se i turni non sono troppo onerosi, troppo gravosi. Le evidenze di disagio vanno opportunamente seguite. Oltre ai casi di suicidio, ci sono anche verso la messa alla prova, ovvero con un percorso fortemente riabilitativo e rieducativo”.

Ad aumentare, spiega, non sono i reati dei minori ma la violenza con cui vengono commessi e quelli compiuti in gruppo: “I ragazzini, sempre più fragili, si rafforzano nella condotta deviante stando in più: sei o sette”. Sei tribunali italiani privilegiano la messa alla prova e impongono la pena detentiva solo nei casi più gravi, rimane il problema della mancanza delle strutture per minori con problemi psichiatrici.

“Spesso non sappiamo dove mettere i ragazzi borderline – denuncia la presidente del tribunale – non solo quelli del penale ma anche dell’area civile, tolti alle famiglie inidonee. Siccome le strutture adeguate sono poche, finiscono in centri con operatori inadeguati. In molti casi la fuga non è ostacolata perché la loro presenza rompe l’equilibrio con gli altri ragazzi. Una volta scappati, o li prendi o li hai persi per sempre. Saranno degli adulti sbandati, dei delinquenti, saranno degli sfruttati o sfrutteranno”.

Le poche strutture attrezzate sono sempre piene. Costano molto, perché ci vogliono operatori particolarmente preparati, “che sappiano agganciare il rapporto con ragazzi cresciuti per strada, che hanno avuto esperienze di abusi o maltrattamenti. Ragazzi sofferenti che non credono nell’adulto, non hanno fiducia, si fanno beffa. Se ci fossero più strutture, potremmo recuperare di più”.

Per i più piccoli, sottolinea Melita Cavallo, bisogna essere veloci a trovare una collocazione: “Ci vogliono idee chiare per decidere della vita dei bambini. Bisogna capire subito se la famiglia d’origine è recuperabile, altrimenti vanno dati in affido o in adozione. Non devono stare nelle case-famiglia più di un anno”. Se anche Brattoli ritiene che il processo penale minorile funzioni bene, chiede, però, che si agisca anche “sui tempi della giustizia”. Perché se una sentenza tardiva rischia sempre di essere inutile, coni ragazzi lo è per definizione.

da www.ristretti.it