Cinema: Firenze Noir Festival, tre giorni di rassegna dedicata al crimine


 Il crimine collegato alla fiction, ma anche alla cronaca. Che forma ha assunto la criminalita’ nel nostro paese rispetto anche alle investigazioni, alla ricerca degli indizi e delle prove. La questione dell’usura. Ad approfondire questi temi ci pensa il ‘Firenze Noir Festival’, una atre giorni (21, 22 e 23 maggio) che si svolgera’ nel Salone dei Duecento e nell’auditorium della Crf in Via Folco Portinari, a due passi da Piazza Duomo

La rassegna organizzata da Elena Narbone con il contributo della commissione cultura di Palazzo Vecchio e del consiglio di Quartiere 2 e il patrocinio della Provincia promuove uno strumento interpretativo della societa’ di oggi e della sua complessita’, aprendo al pubblico incontri con noti scrittori, sceneggiatori, magistrati, polizia scientifica e medici legali: un’opportunita’ per rileggere grandi fatti di cronaca e scoprire attuali misteri irrisolti.

fonte Adnkronos

Cucchi, ecchimosi sugli occhi suggeriscono ”lesioni inferte”


di Gabriele Santoro

Sul suo letto dell’ospedale ‘Sandro Pertini’ di Roma, Stefano Cucchi probabilmente non si stava rendendo conto della gravita’ della sua situazione e nell’ultimo contatto con i paramedici, a mezzanotte, chiese una cioccolata. Poche ore dopo, attorno alle sei, stavano rianimandolo.

Ma probabilmente era gia’ morto da almeno tre ore. E’ quanto si legge negli atti della commissione di inchiesta sul servizio sanitario nazionale presieduta da Ignazio Marino, desecretati oggi, dopo un voto a maggioranza e di cui l’ANSA e’ in possesso. Cucchi, si legge ancora, poteva ”non essere in grado di comprendere che se avesse continuato a rifiutare la terapia endovenosa poteva correre rischi mortali”. E sebbene i medici della struttura protetta avessero ”correttamente eseguito” la diagnosi della sindrome metabolica sopravvenuta ”intorno al secondo-terzo giorno di degenza” per il rifiuto da parte di Cucchi di assumere cibo e liquidi, ”il punto e’ valutare se percepirono il ‘punto di non ritorno della sindrome’, poiche’ questo imponeva cure d’urgenza”. In particolare, e’ dalle trascrizioni delle relazioni dei consulenti della commissione che emergono parecchi dettagli sulla vicenda del geometra romano morto a una settimana dal suo arresto per droga, sul quale indaga la Procura di Roma. ”Stefano – spiego’ nell’audizione del 3 febbraio il professor Vincenzo Pascali – non rifiutava tutte le cure ma solo quelle in vena”. E poi ”non rifiutava cibo e acqua in generale ma solamente in certi momenti. Cio’ era finalizzato alla soddisfazione di una richiesta precisa, parlare con il proprio avvocato”. Dunque ”l’opposizione del paziente alle cure non era di principio” e ”poteva essere rimossa” accontentandolo. Ai medici del Pertini, insomma, si potrebbe imputare ”la mancata individuazione dell’urgenza e gravita’ del problema la sera del 21 ottobre”. Dalla relazione di Pascali emerge inoltre come siano le ecchimosi sugli occhi, molto piu’ che le valutazioni sulle lesioni vertebrali e sacrococcigee, che ”inducono a pensare che le lesioni non sono particolarmente compatibili con l’ipotesi di un evento accidentale ma suggeriscono invece l’ipotesi di lesioni inferte”. Negli atti desecretati oggi si fa luce inoltre su alcuni aspetti dei passaggi di ospedale in ospedale del geometra romano: all’ingresso del carcere di Regina Coeli fu ”collaborativo”. A riferirlo alla commissione e’ Rolando Degli Angioli, il medico operante presso l’unita’ di medicina penitenziaria del carcere. Cucchi ”era molto magro, aveva freddo, pesava poco, era sbigottito su quanto stava succedendo, e aveva una pressione di 90/60. Era vigile e lucido, ma rallentato nel parlare” perche’ aveva assunto un antiepilettico e ansiolitico, somministratogli a piazzale Clodio. ”Aveva dolore alla schiena e nel camminare, riferiva nausea e astenia”. Elementi che hanno fatto richiedere a Degli Angioli che venisse trasportato subito al Fatebenefratelli perche’ gli fosse fatta una radiografia del cranio, una della regione sacrale e una visita neurologica. La richiesta di ricovero fu emessa alle 16.15-16.30. L’ambulanza, si legge ancora nelle carte, e’ arrivata alle 18.15 ma Cucchi e’ uscito dal carcere alle 19.50. ”Stefano doveva stare in ospedale – spiega Degli Angioli – Se la radiologia del carcere fosse stata aperta ce lo avrei mandato lo stesso perche’ stava male. Non era un male dell’anima o del pensiero, ma fisico. Non abbiamo parlato del perche’ stava li’. Io gli ho dato l’acqua”. Nello spiegare la tempistica del trasbordo in ospedale, che – puntualizza il documento – si trova a 600 metri dal carcere, Degli Angioli riferisce che lascio’ la richiesta di portare Cucchi in ospedale direttamente all’agente preposto che si trovava lì. “Dell’uscita alle 19.50 non so il perche”’. Il ragazzo rientro’ poi a Regina Coeli alle 23, e anche qui ”non so rispondervi perché fosse rientrato”. Sulla decisione di desecretare gli atti e’ stata oggi pero’ polemica politica: a votare per il si’ i 10 commissari del Pd, dell’Idv e la gruppo misto Poli Bortone. La Lega si e’ astenuta mentre il Pdl si e’ opposto: ”Il nostro no – ha spiegato il capogruppo in commissione Michele Saccomanno – e’ perche’ volevamo trovare un sistema comune per garantire le persone che abbiamo convocato”. Per la presidente dei senatori Pd Anna Finocchiaro e’ stato invece ”un atto di meritoria trasparenza delle istituzioni”. Il presidente Marino si e’ detto convinto che ”la desecretazione possa aiutare la Procura a fare chiarezza anche sui comportamenti individuali dei medici”

fonte ANSA

“Cosa sognano i pesci rossi” di Marco Venturino – Oscar Mondadori


di Daniela Domenici

Sono sempre stata convinta che i libri ci chiamino, che non sia quasi mai una scelta casuale, che siano loro a farsi scegliere, basta saper ascoltare il loro richiamo…lo so, forse mi prenderete per folle ma anche “Cosa sognano i pesci rossi” mi ha chiamato dallo scaffale: tra tanti altri libri mi ha attratto con una forza magnetica tale che sono stata “costretta” a prenderlo e a leggerlo subito.

Ed è stato amore a prima vista: Marco Venturino, l’autore di questo libro che si svolge in un reparto di terapia intensiva di un ospedale qualunque, è un “addetto ai lavori”, parla da esperto: è un medico, direttore della divisione di anestesia e terapia intensiva all’Istituto Europeo di Oncologia di Milano.

Questa sua opera prima, che risale al 2006 ma che a me è capitata tra e mani solo in questi giorni, è un racconto “a due voci”, quella di un medico del reparto, “la faccia verde”, e quella di un ricoverato, “i pesci rossi”, che descrivono, ognuno dal proprio punto di vista, osservatorio privilegiato, la quotidianità della vita in terapia intensiva, il decorso della malattia, il mondo esterno, la classe medica.

Il protagonista malato, Pierluigi, viene definito un pesce rosso perché essendo stato tracheotomizzato non può parlare ma solo muovere le labbra senza emettere alcun suono come un pesce rosso in un acquario e diventa un’impresa ardua per chi gli sta vicino capire cosa desidera.

E ‘ un libro duro, doloroso, commovente ma anche, in alcuni momenti, divertente, strappa un sorriso, è scritto con uno stile assolutamente avvincente pur se infarcito, com’è naturale, di termini medici specifici; i dialoghi sono, se posso usare un termine preso in prestito da un altro campo, quasi cinematografici nella loro immediatezza; i momenti più emozionanti sono, per la sottoscritta, i “flussi di coscienza” specialmente quando Pierluigi ha la febbre e inizia a delirare: superlativo.

Concludo con le parole finali dell’autore: “Vorrei solo che rimanesse addosso, a chi ha avuto la pazienza di leggere questo libro fino in fondo, un odore particolare delle cose umane. Un odore che viene fuori dalle zone di confine tra la vita e la morte, ove i silenzi della vita e i rumori della morte assumono fattezze di giganti deformi. Un odore forse fastidioso che, come spesso capita per gli odori, siamo tentati di cancellare dalla nostra vita di tutti i giorni. Ma questo odore c’è e io ho cercato di farlo annusare. A chi mi legge decidere se ci sono riuscito bene o male. A tutti l’augurio di non fiutarlo più da vicino”.

Preghiera prima di un intervento chirurgico


di Daniela Domenici

Signore

Padre mio e nostro

nelle Tue mani affido il mio corpo

che mi hai donato alla nascita

per essere tempio del Tuo spirito;

ho fiducia nella Tua eterna protezione

guida le mani dei medici che opereranno

e ricordami, al risveglio,

di ringraziarTi per il dono della vita

che mi hai fatto gratuitamente.

Medici, suore e infermiere: il bello dell’Italia


Arrivare sul posto e scoprire che quell’ammasso di lamiere e di vetri infranti era la vettura sulla quale viaggiava mio figlio rende evidenza che l’imperfetto potrebbe essere il tempo più adatto alla circostanza. La strada è bloccata, in lontananza le luci dell’ambulanza, ferma, e mentre mi avvicino, vaste chiazze di sangue sull’asfalto, mia moglie davanti a me sviene, sorretta da alcune persone, i soccorritori m’invitano a essere forte mentre mi rassicurano e mi accompagnano definiscono il contesto nel quale, mai come allora, ho avvertito la vita allontanarsi da me, un rapidissimo esaurirsi di tutti i significati contemporaneamente. Tutti tranne Uno. Steso sulla barella mio figlio è vigile, lucido, risponde, anche se trema dal freddo e dalla paura. Qui si chiude la parte di storia che non appartiene agli uomini. Riconducibile al nome che ciascuno di noi porta nel cuore come il più prezioso dei doni. Al più presto un’icona del Divino Amore, sul luogo, ricorderà l’accaduto.
E qui comincia una bellissima storia di uomini. La solidarietà delle persone accorse per prime sul luogo dell’incidente mi conforta mentre l’ambulanza si allontana sollecitamente verso il Sant’Eugenio, seguita da mia moglie. Sull’ambulanza 631 del presidio di Spinaceto presta servizio Santina Carchidi. È madre di due figli, dell’età del mio e possiede, insieme con una sicura professionalità, quella sensibilità e quell’attenzione verso le realtà superiori che rendono completa la vita di un essere umano. Si è resa conto che, escluse conseguenze più gravi, la possibilità di Rodolfo, così si chiama mio figlio, di conservare la mano sinistra, spappolata nell’incidente, può essere affidata solo ad un immediato intervento presso il Cto. Santina Carchidi sa, come madre prima ancora che come addetta ai lavori, quanto sia importante per un ragazzo affrontare la vita con entrambe le mani e come ogni istante sia prezioso. Il suo compito si sarebbe concluso consegnando il ferito al più vicino pronto soccorso. Il resto non la riguarderebbe. Firmato un foglio, tutto finito. Ma non ci sta. Combatte per mio figlio come se fosse il proprio e lo trasferisce immediatamente all’ospedale della Garbatella dove è già pronta la sala operatoria. Così veniamo catapultati in una realtà la cui efficienza associavamo solo alle rappresentazioni patinate dei film d’oltre oceano: Il Reparto di Chirurgia della Mano dell’ospedale Alesini nel quale opera il Dr. Dante Palombi. È qui che l’impossibile diventa possibile. Anzi certo. Mi ha promesso di farmi vedere una foto della mano prima dell’intervento ed io spero che se ne dimentichi. So che in tre ore d’intervento il Dr. Palombi ha trasformato carne, ossa e tendini in mano e dita. Detta così sembra una descrizione che concede troppo all’effetto ma so di non essere troppo distante dalla realtà. Non tutto sarà a posto e nulla sarà più come prima. Occorrerà tempo. E altri interventi. Siamo consapevoli, oggi, di essere capitati in una divisione chirurgica che il mondo c’invidia. Una delle pochissime in grado di ricostruire la mano a una persona. C’è la volontà umana che indirizza gli eventi ma non solo. La lunga degenza nel reparto dove tutto parla di efficienza e di cortesia a partire dalla Caposala suor Jancy è l’attuale percorso per il recupero. C’è anche Francesco Vero, in questa storia. È un medico di base che svolge la sua professione come la svolgerebbe un medico condotto della prima metà del ‘900. Cioè con l’assoluta dedizione ai suoi pazienti. Ha seguito e continua a seguire, l’evolversi della situazione da presso. Gli siamo grati. Ecco la mia storia di Natale. Ho voluto raccontarla per testimoniare che nell’Italia degli amorazzi e delle risse continue vivono e operano persone come queste e per ringraziarle. La storia non è ancora finita. Ma la vicenda ritorna là dove era iniziata. Il primo gennaio attorno a un tavolo d’ospedale con Rodolfo che inizia, tenendo il foglietto con l’unica mano abile: Noi ti lodiamo, Dio, ti proclamiamo Signore.

da www.iltempo.ilsole24ore.com

Il nostro personaggio dell’anno: Stefano Cucchi


Vogliamo ricordare questo giovane perché la sua morte non sia vana. Non era un eroe, non era un martire, non era un personaggio pubblico e non era famoso. Era solo un ragioniere di 31 anni con tanti problemi. Come tanti ragazzi come lui aveva solo bisogno di cure e di amore. Per lui lo stato ha scelto il carcere e la morte.

 Il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e Capo della Polizia Penitenziaria Franco Ionta, in relazione alle indagini svolte dalla Procura di Roma per il decesso di Stefano Cucchi, esprime piena fiducia nell’operato degli organi inquirenti.

Il Capo del DAP rivolge parole di stima e riconoscimento agli uomini della Polizia Penitenziaria che, pur nella difficile situazione in cui si trovano ad operare, a causa del sovraffollamento e della carenza di organico, assicurano le condizioni di legalità nelle carceri, con piena professionalità, spirito di sacrificio e senso di umanità.

Il Capo del DAP si dichiara orgoglioso del Corpo di Polizia Penitenziaria che con senso del dovere continua quotidianamente a svolgere il proprio operato.

E’ a queste persone, dichiara Franco Ionta, che dobbiamo solidarietà e rispetto.

E noi concordiamo con Ionta. Ne condividiamo completamente la dichiarazione, riconoscendo alla polizia penitenziaria un ruolo insostituibile nel’amministrazione della giustizia. Sono uomini che lavorano in condizioni difficili, con una popolazione carceraria doppia rispetto alle capacità del sistema, abituati a convivere con un sentimento che si chiama “paura”, un sentimento che da bravi cittadini deleghiamo in cambio di un salario, a questi oscuri lavoratori.

Mai abbiamo pensato di mettere sotto accusa la loro categoria. Anzi, ogni giorno siamo coscienti di dover rivolgere loro un pensiero di gratitudine e di riconoscenza.    

Questo non toglie l’obbligo di capire perché un ragazzo normale, con i suoi problemi e la sua famiglia a sostenerlo è morto dopo sei giorni dal suo arresto, un ragazzo qualunque, con i suoi amici, la palestra e la Lazio allo stadio la domenica.  Forse un po’ più fragile ma allo stesso tempo pieno di vita e di amore. Purtroppo però è morto: solo dopo sei giorni il suo ingresso in carcere, dopo il suo arresto perché è stato trovato in possesso di alcune dosi di sostanze stupefacenti. Come è morto si sa. È stato picchiato, umiliato e lasciato morire in una barella. Per mano di chi è morto ancora no. Perché sotto accusa sono finiti nell’ordine secondini, carabinieri, agenti, medici. Ma ancora non si riesce a capire di chi sia la responsabilità

La famiglia ha avuto il coraggio di pubblicare le immagini di quel corpo straziato dalle botte restituito ai suoi cari solo dopo l’autopsia. Un corpo esile, con una smorfia di terrore che rimarrà scolpita per sempre nel cuore degli italiani. Come lo ha definito il referto «è morto in modo disumano e degradante». Se non fosse stato per quelle immagini probabilmente questa storia sarebbe rimasta ai margini dei giornali.

Ma la storia di Stefano, nella sua tragicità, ha avuto i suoi aspetti positivi. Perché questa triste vicenda ha costretto tutti a prendere atto delle proprie responsabilità. A cominciare dai benpensanti sempre pronti a erigersi a giudici delle disgrazie altrui, a cominciare dal ministro Giovanardi, che dopo qualche esternazione sciocca, ha dovuto chiedere scusa alla famiglia e al popolo italiano. Utile a risvegliare le coscienze di tutti coloro che ancora credono nello stato di diritto, che hanno a cuore le istituzioni, la civiltà che nasce e si misura anche negli istituti di rieducazione. Utile allo Stato che non ha recitato la solita parte ma ha da subito attivato i meccanismi di indagine: anche se ancora però non si riesce ad abbattere il muro di omertà e l’insopportabile rimpallo di responsabilità. Utile alla politica che si è ritrovata unita nel non ricercare alcuna forma di autoassoluzione, e lo ha fatto istituendo un comitato unitario. Utile alla società civile, che dalle piazze ai forum della rete, si è stretta attorno alla famiglia chiedendo con civiltà una sola cosa: verità per Cucchi.

Ecco perché è giusto e doveroso mantenere alta l’attenzione mediatica e politica su questa storia. Lo dobbiamo a Stefano che nel 2010 non ci sarà. Lo dobbiamo alla sua famiglia che ha così decorosamente e con senso civico esemplare lottato per la verità. Lo dobbiamo al figlio di Ilaria, la sorella di Stefano, che si chiede il perché suo zio non tornerà a giocare con lui.

Ecco perché Stefano Cucchi è il personaggio dell’anno.

Perché ci ha costretto ad affrontare problemi tabù come quello delle carceri e della violenza.

Perché fare i conti con la sua storia sarà la cartina tornasole di che paese siamo. Di che razza di paese racconteremo ai nostri figli se non facciamo nulla affinché questa storia si concluda con una sola parola: giustizia.

da www.informarezzo.com

Sardegna: medici delle carceri senza stipendio da quattro mesi


di Davide Madeddu

Quattro mesi senza stipendio. Da 120 giorni garantiscono il servizio di assistenza medica e sanitaria ai detenuti senza però percepire compensi. A fare i conti con gli effetti del “sistema burocratico” sono i medici convenzionati delle carceri della Sardegna. Un piccolo esercito di 60 professionisti impegnati a garantire assistenza con le visite specialistiche oppure con le visite di guardia a chi dietro le sbarre deve fare i conti con i problemi di salute. A denunciare il caso è la parlamentare del Pd Amalia Schirru, impegnata da tempo proprio nel settore dei diritti civili e quello penitenziario.

“Il fatto è grave e va avanti da troppo tempo – dice -, qui ci sono sessanta medici, che non percepiscono lo stipendio da 4 mesi, e svolgono un lavoro fondamentale perché vengano garantiti i diritti anche di chi sconta una pena in carcere “. La parlamentare, che anche i giorni scorsi ha incontrato i rappresentanti dei medici aggiunge: “Nonostante questo fatto i medici continuano a garantire il servizio nella speranza che i problemi possano essere risolti e le risorse erogate”. A provocare il mancato pagamento degli stipendi, il passaggio delle competenze dal ministero della Giustizia a quello della Salute e quindi alla Regione Sardegna. O meglio l’applicazione del decreto del presidente del Consiglio dei ministri del 2008 che ha assegnato le competenze del sistema sanitario in carcere al ministero della Salute, anziché a quello della Giustizia, e quindi alle regioni.

Le risorse ci sono, le paghe no

 

“Il Decreto del 2008 prevedeva che le competenze fossero in capo alle Regioni – spiega Fabrizio Rossetti, responsabile del settore sanità e carceri per la Funzione pubblica della Cgil nazionale – in Sardegna però il passaggio diretto come nelle altre regioni non può avvenire perché, trattandosi di regione a statuto speciale ha bisogno poi di una legislazione a sé”. Un problema che la Sardegna ha poi cercato di risolvere stanziando oltre un milione di euro.

“Le risorse ci sono ma gli stipendi – prosegue Amalia Schirru – non arrivano e i medici continuano a lavorare senza percepire i compensi”. Alla preoccupazione dei lavoratori è seguita anche una mobilitazione dei parlamentari sardi. “Le risorse ci sono e sono già disponibili perché l’amministrazione regionale ha già stanziato le risorse – spiega Gianfranco Pala, direttore del carcere Buoncammino di Cagliari, la struttura detentiva più importante e affollata della Sardegna – però, prima che questi soldi possano essere spesi e quindi erogati ai lavoratori è necessario che si completi un percorso burocratico”.

Ossia? “I soldi stanziati dalla regione sono stati quindi inviati alla Banca D’Italia che a sua volta deve girarli al ministero della Giustizia che, alla fine, li eroga agli istituti di pena i quali provvedono a pagare i medici e il personale convenzionato”. Un giro burocratico amministrativo che gli operatori sperano di poter risolvere nell’arco di poco tempo. “Speriamo che la situazione possa normalizzarsi i primi giorni del nuovo anno – conclude – anche perché gli operatori che garantiscono il servizio nelle 12 carceri della Sardegna sono una sessantina, e si tratta di medici che consentono il funzionamento del sistema sanitario nelle carceri”.

da www.ristretti.it

Vittime dell’ingiustizia


di Silvia Tortora

Mio padre finì in carcere innocente nel giugno 1983. Fu per noi uno strazio. Vedemmo cose che mai avremmo immaginato attraverso i suoi occhi e attraverso le sue parole”. E Stefano, morto pochi giorni fa, forse è vittima anche lui del sistema carcerario italiano.

Sono giorni e giorni che mi faccio una domanda. Cosa posso aggiungere io al fiume di parole scritte sulla vicenda di Stefano Cucchi, giovane ragazzo morto di botte e disinteresse, ammazzato dalla violenza cieca e dall’indifferenza di chi doveva averne cura? Ben poco, credo. Perché già tanto è stato detto e scritto. Di alto e nobile, e di basso e volgare. Ma vorrei tentare lo stesso di fissare i miei pensieri e affidarli alla vostra riflessione. Ho conosciuto il carcere per interposta persona. Mio padre, Enzo Tortora, ci finì innocente nel giugno 1983. Fu per noi uno strazio. Vedemmo cose che mai avremmo immaginato attraverso i suoi occhi e attraverso le sue parole. Era in cella, Enzo, con un compagno tossicodipendente, un giovane romano, fragile e malato, che aspettava un bambino. La cura per lui era quella di stare chiuso in una gabbia con altri uomini e patire ore lunghe e inutili. Enzo non si dava pace perché capiva che non sarebbe mai guarito. Non così. Infatti. Questo ragazzo, come Stefano, come migliaia di altri, sarebbe uscito solo più stanco, arrabbiato, deluso, amaro e impotente.

È il destino di tutti quelli che vivono la tossicodipendenza come buco nero e trovano dal sistema una cura ancora più nera: la galera. Una legge inutile imbottisce le carceri di tossicodipendenti (sono la maggioranza dei detenuti), anziché affidarli a strutture protette, per un fanatismo ideologico che non fa nulla per stroncare il traffico di droga. Difatti, appena fu libero, Enzo scelse di andare a portare dei fiori sulla tomba di un giovane tossicodipendente morto suicida in galera a Cagliari, dopo cento giorni passati in isolamento. Dicendo: ”Lui, non io è stato vittima di una giustizia crudele, orba e senza pietà”. Sono passati venticinque anni da allora. Ed eccoci a Stefano. Ottobre 2009. Stefano Cucchi non è solo vittima dell’inutile legge sulle tossicodipendenze. È stato oltraggiato e preso a calci da uomini che avrebbero dovuto proteggerlo. Uomini con indosso una divisa. Anzi, due. I primi “probabilmente” guardiani di detenuti. Persone che dovrebbero custodire e garantire l’incolumità dei detenuti. Già si sa molto. Stefano picchiato nei sotterranei di un tribunale. Stefano condotto in ospedale, e tradito, ancora una volta, da altre divise, quelle dei medici, che avrebbero dovuto curarlo con rispetto, civiltà e, oso, con amore.

E invece no. Questo ragazzo fragile, esile, è stato lasciato andare via ferito dentro e fuori, perché non “collaborava” coi dottori. Manifestava un atteggiamento “ostile”. Rifiutava di essere “alimentato”… E qui mi permetto un inciso. Anche Eluana Englaro non poteva collaborare, ma attorno a lei si che ci si dava da fare, con accanimento, per mantenerla in vita… e che vita. Senza amore, senza cure, senza dignità, Stefano è scivolato nel nero della morte tutto solo. Nessuno accanto a tenergli la mano. Mamma e papà non potevano neppure mettere piede al suo capezzale. Chissà che dolore Stefano… Eppure. La sua famiglia, con grande coraggio, ha deciso di consegnare a tutti noi il suo ultimo ritratto. Uno scheletro avvolto in un sacco azzurro da obitorio. Il volto terribile, un corpo che ricorda i corpi dei deportati, ma con in più un segno tremendo alla schiena martoriata. Immagine che non si dimentica, non si deve dimenticare. Prima di allora, nessuno di noi aveva visto nulla di simile. Lo aveva, forse, solo immaginato. Perché Stefano, purtroppo, non è il primo, né sarà l’ultimo morto così. Eppure, la scelta della sua famiglia di rendere pubbliche le sue foto e di chiedere verità e giustizia aggiunge qualcosa a questa orribile storia. Aggiunge un valore positivo e nobile.

La famiglia di Stefano Cucchi ha chiesto con pacatezza e fermezza di conoscere la verità. Non ha urlato, non ha minacciato, non ha impugnato l’arma della vendetta. Ha domandato, ha condiviso con tutti noi un grande dolore e una grande ingiustizia. Lo ha fatto scarnificandosi e offrendo immagini belle di Stefano e dei suoi cari e immagini terrificanti del suo corpo. Ha preso le distanze da coloro che usavano Stefano per menare le mani. Ha capeggiato un corteo chiedendo rispetto per le forze dell’ordine, ha respinto al mittente le sciocchezze di chi voleva Stefano tossico, anoressico e perfino sieropositivo. Una famiglia così è, in questo Paese, un’eccezione. È un esempio, una nota di decenza. Ed è a questa famiglia, a quel dolore, e alla sacrosanta ricerca della verità, che la Giustizia, e noi tutti dovremmo inchinarci e chiedere perdono.

da www.socialnews.it

Pronto soccorso per i peluches a Napoli


Funziona tutto come in un vero e proprio pronto soccorso: ci sono i medici con il camice, ci sono le visite e anche la diagnosi. I pazienti, però, sono un po’ fuori dalla norma visto che si tratta di pupazzi. Accade a Napoli dove i bimbi potranno far ‘curare’ i loro ‘amici di gioco’. Dove? Nel primo Pronto Soccorso al mondo per animali di peluche.

Si trova all’interno del Parco Zoo di Napoli e due, spiegano gli organizzatori, sono gli obiettivi che si ha intenzione di raggiungere: diffondere l’amore per gli animali, quelli veri, ed educare i più piccoli al riciclaggio e al riutilizzo, anche delle cose vecchie. “Ormai i nostri bambini sono abituati a buttare subito il giocattolo che si rompe – spiega Francesco Emilio Borrelli, presidente dell’associazione ‘Watchdog’ che ha ideato l’iniziativa insieme all’amministratore del Parco Zoo, Cesare Falchero – invece devono rendersi conto che un pupazzo rotto si può aggiustare e, quindi, riutilizzare”.

Il pronto soccorso funziona così: il bimbo porta il suo animale di peluche, il medico lo visita e fa la diagnosi. Se l’aggiusto è cosa di poco conto viene fatto in tempo reale, altrimenti si ritira il ‘paziente’ il giorno dopo quando ai bimbi viene anche consegnato l’attestato di ‘Amico degli animali’, in questo caso quelli veri. Al bimbo vengono, infatti, consegnate le dieci regole del giovane animalista.

Il punto prima recita così: “Ricorda sempre che chi non sa amare gli animali, non sa neppure amare le persone”. Nel giorno del debutto oggi sono stati circa dieci i bimbi che hanno portato al pronto soccorso i propri pupazzi che saranno curati dal personale dell’Ospedale delle bambole, diretto da Tiziana Grassi. “E’ una iniziativa unica e talmente originale – spiega Falchero – che già siamo stati contattati da altre parti del mondo per realizzare progetti simili. Siamo felici di dare ai nostri bambini un messaggio positivo e di amore dopo le tristi vicende che abbiamo letto in questi giorni legate ai baby neomelodici che cantano di sesso, violenza e camorra”.

fonte ANSA

Svolta nelle indagini: Cucchi è stato “pestato” da medici e agenti di polizia penitenziaria


stefano cucchiSvolta nell’inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi, il 31enne romano morto lo scorso 22 ottobre all’ospedale della capitale Sandro Pertini dopo essere stato arrestato per droga il 15 ottobre. I pm della Procura di Roma hanno iscritto nel registro degli indagati sei persone, tre medici del Pertini e tre poliziotti della Penitenziaria. Per i primi l’accusa è omicidio colposo, per gli altri omicidio preterintenzionale. Secondo i magistrati il giovane sarebbe stato picchiato in Tribunale, “nel corridoio delle celle di sicurezza, dopo l’udienza”, come ha spiegato il procuratore capo Giovanni Ferrara. La ricostruzione è stata fatta sulla base delle dichiarazioni del cosiddetto ‘supertestimone’, di quanto hanno spiegato i medici legali e di quanto è stato riscontrato sulle cartelle sanitarie di Cucchi. Per i magistrati Stefano Cucchi è stato quindi picchiato in Tribunale, prima dell’udienza di convalida del suo arresto. “Il giovane quasi certamente è stato scaraventato a terra e picchiato quando era senza difese”. Il supertestimone, un giovane africano immigrato, detenuto fino a pochi giorni fa, aveva visto, sentito e poi anche raccolto le confidenze di Cucchi quando i due erano nel ‘cellulare’ per il trasferimento al carcere di Regina Coeli, e per questo secondo l’accusa deve essere considerato un testimone fondamentale: su richiesta dei pubblici ministeri sarà ascoltato nell’ambito di un incidente probatorio. L’accusa di omicidio preterintenzionale è contestata agli agenti penitenziari Nicola Menichini, 40 anni, Corrado Santantonio, 50 anni e Antonio Dominici, 42 anni: secondo i pm in qualità di pubblici ufficiali hanno colpito Cucchi con “calci e pugni, dopo averlo fatto cadere” e hanno provocato lesioni poi sfociate nella morte il 22 ottobre. L’omicidio reterintenzionale è contestato, invece, al responsabile del reparto medicina protetta dell’ospedale Pertini Aldo Fierro, 60 anni, a Stefania Corbi, 42 anni e a Rosita Caponetti, 38 anni. Secondo i pubblici ministeri questi avrebbero “omesso le dovute cure”. tato, invece, al responsabile del reparto medicina protetta dell’ospedale Pertini Aldo Fierro, 60 anni, a Stefania Corbi, 42 anni e a Rosita Caponetti, 38 anni. Secondo i pubblici ministeri questi avrebbero “omesso le dovute cure.

fonte virgilio