Orrori da film


di Alessandro Mascia

Mai visto il film “Lo zio di Brooklyn”? A me lo hanno fatto vedere a forza. Non potevo scappare. Come quando infilano un imbuto nella cannarozza di un’oca e la ingozzano per farle ingrassare il fegato. Un trauma. Andate a sbirciarne qualche spezzone su You Tube e rimarrete scioccati. Un film grottesco ambientato nel degrado più totale di una Palermo diroccata e dimenticata. Opera di Ciprì e Maresco, due maestri del trash. Sono riusciti a mettere in scena il raccapricciante in un modo perfetto. E nessuno, pur provando sgomento e turbamento nel vedere “Lo zio di Brooklyn”, può esimersi dal riconoscere ai due del luridissimo capolavoro una genialità fuori dall’ordinario. Oso sottoscrivere che nessuno al mondo potrebbe impressionarsi più di un nativo siciliano nel vedere tale film. Sì, perché il degrado, dalle nostre parti, è come un pendolo che va e viene a seconda dei tempi, delle congiunture economiche, delle amministrazioni pubbliche più o meno farabutte. Lo vorremmo tenere sempre molto lontano da noi, dalle nostre abitazioni, ma a volte ti passa dietro casa e tu non puoi fare altro che subirlo. È un incubo. E credo che ne “Lo zio di Brooklyn” si sia giocato anche su questo: mettere in scena l’abbandono e il degrado di cui abbiamo terribilmente paura.

Perché questo cappello introduttivo che rievoca un gran brutto film? Perché oggi, come vi dirò più avanti, ho rivisto quei terrificanti fotogrammi a poca distanza da casa mia. Perché quel pendolo, ad Augusta, pare essersi impuntato come un somaro. Non ne vuole sentire di allontanarsi. E degrado chiama degrado che chiama degrado. È un circolo vizioso che spinge alcuni beceri a punire la comunità aggiungendo squallore a desolazione e facendo di Augusta un agglomerato apocalittico che repelle i suoi stessi abitanti, figurarsi gli eventuali poveri sventurati turisti. Marcello Veneziani scrive, nel suo pamphlet I vinti, “non c’è degrado urbano che non faccia da grembo al degrado umano”. Su cosa si debba intervenire prima non si sa, se sulla testa malata di qualcuno o su un’Amministrazione che non è capace di frenare il deterioramento urbano.

Stamattina ho scelto di prendere un po’ di sole senza spostarmi troppo da casa. Ad Augusta, in teoria, si potrebbe. A pochi metri da casa mia, a ridosso della Piazza delle Grazie, c’è una spiaggetta frequentatissima dai residenti. L’ormai nota Za Cuncetta sostiene fieramente di esserci cresciuta alla spiaggia delle Grazie e di aver instradato tutti i suoi figli a quei bagni. Il sentiero che separa la mia abitazione dalla spiaggia costringe a passare per una specie di selva curata dagli indigeni che si affacciano sul Golfo Xifonio. Un tocco di verde rilucente che mette di buon umore. Tra i tanti vegetali piantumati spicca un grandioso Ficus Benjamina, ultimo avamposto verdeggiante prima della spiaggia. Oggi, mentre fiancheggiavo sereno il gigante verde, ho ricevuto un sonoro colpo di pendolo in testa. Il pendolo della marcescenza urbana in forma di cassonetti della spazzatura rovesciati sul versante del terrapieno che degrada a mare. E i sacchetti della spazzatura divelti e maleodoranti facevano bella mostra del loro sordido contenuto distribuito sul manto erboso. “Povera spiaggetta” è stata l’unica dimessa protesta balzatami in testa prima di essere strattonato da un urlo sgraziato proveniente dall’acqua. Era proprio lei, la Za Cuncetta, che dimenava le braccia al mio indirizzo sollevando spruzzi d’acqua salata, abbigliata con un attempato costume intero che riusciva a stento a mantenere coese le carni avvizzite, tipo quelle reti per costoni a rischio di crollo. Fatto sta che il disegno flessuoso del costume azzurro, quel menar di braccia e mani e il riverbero del sole sull’acqua mi hanno mandato in confusione e l’ho dovuta raggiungere fino a bagnarmi le scarpe. La vulcanica frequentatrice del lido rionale sbraitava in vernacolo, domandandomi perché non avessi scritto un articolo sullo scempio che, ora, avevamo entrambi sotto gli occhi. A nulla sono valse le giustificazioni secondo cui mi ero appena accorto del fattaccio e che presto mi sarei messo a scrivere. Niente, mi ha porto un pezzetto di carta e ha preteso che scrivessi l’articolo sotto il sole cocente. E mentre vergavo sul retro di una lista della spesa scaduta, mi sono accorto del rassegnato spirito di adattamento dei villici. A gruppetti, imboccavano il declivio che li avrebbe accompagnati fino al mare, eludendo con garbo cassonetti olezzanti e spazzature al minuto come fossero cespi di lentischio o rovi di ginestre. Sì che torcevano il naso, ma nemmeno uno, dico uno, si è così sdegnato da abbandonare l’idea di fare elioterapia in quel tratto di costa. Qualcuno ha addirittura montato la sua solita installazione domenicale – una batteria di ombrelloni variopinti e teli in perfetto stile mercatale –, tutto a pochi metri dalla realtà ributtante.

Mentre attendevo che l’esigente Za Cuncetta mi passasse l’articolo in terza bozza, ho proposto di fare una segnalazione ai Vigili Urbani. Mi sono sentito rispondere “A che fano chissi… nenti”. C’è, dunque, una rassegnazione midollare, un fatalismo viscerale, uno sprofondare ineluttabile verso un peggio a cui pare non esserci davvero fine. Io comunque ho chiamato i Vigili che si sono, invece, dimostrati solerti e sensibili al problema. Sono arrivati nel giro di dieci minuti, hanno scattato delle foto e inoltrato richiesta di intervento alla società che ha in gestione i cassonetti della spazzatura. La Za Cuncetta, che ha un’idea tutta sua delle autorità, ha brandito contro i Vigili il cencio su cui avevo appena scritto l’articolo, minacciandoli di fare una vergogna se non si fossero mossi al più presto. Davanti al loro sconcerto ha pensato bene di brandire pure me, afferrandomi per la spalla e scuotendomi come fossi una vecchia scopa di saggina. Manderò dettagliato resoconto ai registi Ciprì e Maresco, invitandoli a considerare Augusta per i loro prossimi successi cinematografici. Ovviamente la Za Cuncetta occuperà un ruolo di primo piano.