Cari lettori, sul carcere siete un po’ colpevoli


di Roberto Puglisi

Cari lettori, molti di voi sono sulla strada del mare. Pochi restano di sentinella sulla trincea delle notizie, ecco perché l’estate è la stagione adatta per le ignominie, il tempo dell’assenza.
Non vi sfuggirà, perfino dalla spiaggia,  che in carcere si sta consumando una lunghissima epopea d’orrore. Ma non vi importa, in fondo. Livesicilia vi ha informato puntualmente. Ha intervistato. Ha scavato dietro le sbarre, per raccontarvi storie. E voi non avete risposto all’appello con l’indignazione attesa e plausibile. Eppure è una questione di civiltà.

Cari lettori, scusate la franchezza. Vi stimiamo, siete la ragione del grande successo editoriale di Livesicilia e forse è una cattiva operazione di marketing dirvi che in fondo, almeno in una occasione, non siete stati all’altezza. Ma vedete, noi abbiamo fatto Livesicilia perché volevamo un giornale migliore e lettori migliori. Non pecore da blandire o da accarezzare. Persone adulte con cui intraprendere una relazione sincera nell’asprezza e nell’accordo, nel dissenso e nel consenso. Pensiamo di esserci riusciti.

Ecco perché possiamo dirvelo,  guardandovi negli occhi. Il livello dei vostri commenti all’osceno incancrenimento del sistema penitenziario siciliano da noi denunciato è scarso di quantità e spesso non corretto nella forma. In altre occasioni – nella politica – ruggite e vi scornate con audacia e qualità. Il carcere non vi interessa.

Invece, anche quella è vita e va abbracciata con le sue stimmate. E’ vita di povera gente, è vita di innocenti (sì) e colpevoli, è vita di piccolissimi pesci e di grandi fetidi squali. Noi partiamo da una certezza: il carcere non può essere tortura per nessuno di loro, nemmeno per il più abbietto. Altrimenti, intendiamo che sia tortura, inferno, dissoluzione continua? Benissimo, però non basta la volontà. E’ necessario in aggiunta il coraggio di scriverlo sulla carta della legge: la galera è vendetta.

Fino quando quelle parole non saranno marchiate a fuoco, Livesicilia continuerà a indignarsi e a denunciare. E speriamo di avervi al nostro fianco, con noi, con la nostra stessa rabbia. Questa battaglia vale più di un rimpasto. E non possiamo perderla.

da http://www.livesicilia.it

I giorni della bestia


di Roberto Puglisi

Nel fantasmagorico avviso che precede una raccolta di poesie di Giorgio Caproni (Il conte di Kevenhuller) si legge: “In questo momento giunge alla notizia della conferenza governativa che la campagna di questo ducato trovasi infestata da una feroce Bestia di colore cenericcio moscato quasi in nero, della grandezza di un gosso cane e dalla quale furono già sbranati due fanciulli”.

Per fortuna la pantera di Palermo non è arrivata a tanto e speriamo che mai si riveli, banalmente, nel sangue, qualora decida di dare un segno concreto del suo cammino, al momento dissolto. E dunque, avendo fin qui poche e scarne prove della sua esistenza di cui comunque non dubitiamo – per tenace abitudine al sogno – possiamo trattarla diversamente, evitando di rinchiuderla in una gabbia o nel suo proprio significato. Diciamo che la pantera di Palermo, al momento, è un messaggero degli dei, una metafora, una nuvola felina. Magari un’occasione di autoanalisi collettiva.

Ognuno rimiri la chiazza scura sullo sfondo dello scatto famoso della Forestale, che è sfocata apposta, per destino. Ognuno pronunci la prima parola salita alle labbra. Ognuno la modelli, la riempia come vuole e abbia il coraggio di guardare nella pantera diventata specchio. Reagite secondo voi stessi e qualcosa riceverete, qualcosa saprete circa il rapporto intimo, di stomaco, tra voi e i vostri luoghi di nascita e di vita. Il messaggio sarà subliminale, ma forte. Illuminerà il legame che intercorre tra ogni singolo palermitano e lo straordinario, il prodigioso, la fantastica mutazione. Perché questo è la pantera: un annuncio, una minaccia o una promessa di insoliti cambiamenti.  C’è chi troverà la sua paura, altri, il valore o, semplicemente, nulla. Altri si sentiranno lievemente smarriti e sarà la perdita il senso della caccia.  E voi cosa vedete nel riflesso, volenterosi compagni di caccia, ricercatori di significato?

Va bene, comincio io con l’autoanalisi. Non ha una forma definita il difficilmente scrutabile, la mia pantera, la macchia delle mie sensazioni acquattata nella boscaglia, nascosta e visibile, cacciatrice e preda. Sappiamo per tradizione e leggenda che spesso apparizioni strane e miracolose annunciano un evento epocale, una svolta. Una pantera in giardino è la campanella di fine ricreazione della normalità. Cosa c’è di più strano e miracoloso di una Bestia esotica e nera a Bellolampo? Sì, è un prodigio. E’ Palermo senza la munnizza e senza il traffico (e senza la mafia e senza la fame, etc etc…).  Gli occhi che hanno visto la pantera rivelano a tutti lo spicchio di un accadimento superiore, di un contesto diverso. E poco importa se siano pupille militarmente vigili o suggestionabili. Anche la luce interiore dei veggenti è un segnale di riconoscimento della costa, è la bontà di un approdo. E cos’è la suggestione se non impellenza di rivoluzione?

Resta da capire, in questa nostra scivolosa digressione, di che si tratti. Se la pantera sia il nunzio di uno stravolgimento buono o cattivo, di una resurrezione o di una apocalisse. Colomba di fine diluvio col ramoscello in bocca o cane dell’inferno? Forse dipende da noi. Forse la pantera è apparsa e poi scomparsa per dirci che Palermo è qui apposta per essere cambiata con le nostre mani e col nostro sudore. In fondo abbiamo da perdere soltanto la rassegnata normalità dei cani alla catena.

Come e dove cominciare? Ci soccorre ancora Caproni: “Fermi! Tanto non farete mai centro. La Bestia che cercate voi, voi ci siete dentro”. (Saggia apostrofe a tutti i caccianti)

da http://www.livesicilia.it

Vorremmo la verità (se non è troppo disturbo)


Ci sono persone che hanno seppellito altre persone che amavano. E aspettano di sapere perché. La verità non elimina il dolore, non lo rende meno agro. Almeno porta una consapevolezza, una spiegazione che è riposo, se non sollievo. Questo non si capisce e non si è mai capito nel paese che pensa ai vivi, tanto i morti sono morti. E ha codificato l’andazzo in un proverbio. Invece dovremme pensare ai morti, per badare alla salute dei vivi che ai cadaveri e agli interrogativi sono rimasti appesi, in un infernale gioco dell’oca con le caselle al contrario, in un nascondino che incrudelisce il lutto. Dovremmo alzarci ogni mattina, da cittadini in piedi, con la nevrosi, con l’idea fissa di Ustica, dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, delle stragi del ‘93. Dovemmo impedirci di trovare ristoro, con le nubi dei misteri sempre dense e mai attraversate se non da radi riflessi di verosimiglianza. Tiriamo avanti, acefali e senza cuore, come se il dramma di altri – italiani e siciliani come noi – non ci riguardasse. Come se ogni vicenda fosse un filamento a parte. A chi tocca è toccata. I morti sono morti e noi siamo vivi. E’ il destino, bellezza. Un’ignavia su cui contano le menti raffinatissime di oggi e di ieri. Hanno costruito progetti sull’omertà delle pecore, sulle nostre assuefazioni al non voler sapere. Sì, qualche anniversario ribollisce, saltuariamente e senza che si sappia perché, di indignazione particolare. Ma poi tutto si quieta. Sì, ogni tanto si alza in piedi un signore anzianotto che di mestiere fa il presidente della Repubblica e strepita. Ma poi si ri-siede per un anno. Sì, ogni tanto incrociamo lacrime che ci turbano. Ma poi c’è da discutere sulla nazionale, su Prandelli che deve rifondare il calcio, come se un futuro digiuno di vittorie calcistiche fosse l’argomento all’ordine del giorno delle nostre inquietudini. Intanto le voci diventano più flebili, inudibili. E noi stessi camminiamo senza scopo né sentieri alle spalle. Quello che conta è il passo che imprime l’impronta qui e ora. Contano la pentola e la tv. Per le altre incombenze, ci sono gli storici e sognatori e che facciano il loro dannato mestiere! Spetta a loro parlarci di ieri e domani. Noi di Livesicilia, oggi, nel giorno di Ustica, abbiamo raccolto voci che non vogliono diventare silenzio. Marco Paolini, Salvatore Borsellino, Giovanna Chelli. E speriamo che non durino appena un attimo, che siano un po’ più resistenti dei fiori scarlatti di sangue e memoria che lasciamo appassire senz’acqua né amore sul nostro balcone.

da www.livesicilia.it

La festa del popolo “Pride” la diversità che arricchisce la città


di Miriam Di Peri

Diecimila secondo gli organizzatori, poco più di un migliaio secondo la Digos. Poco importa quanti fossero, ieri pomeriggio, in corteo per le strade di Palermo. Erano lì, con la loro allegria, i loro colori, la loro voglia di manifestare una diversità che per un giorno la città ha potuto percepire come ricchezza. C’erano i single e c’erano le coppie. C’erano i gay, le lesbiche, i trans, i bisessuali, gli etero. C’erano le mamme giovani, insieme ai loro bambini. E c’erano le mamme mature, accanto ai figli omosessuali presenti al corteo. C’erano le associazioni che per statuto lottano contro i pregiudizi sessuali e c’erano le associazioni di promozione sociale. Arci e Arcigay, Muovi Palermo e Articolo tre, Agedo e Amnesty International, insieme. C’erano gli elettori di destra e quelli di sinistra, insieme nel giorno del tributo alla diversità intesa come risorsa. “È stato l’evento politico dell’anno” dicono gli organizzatori. In ogni caso, è stata una parata che la città ricorderà a lungo.
I partecipanti si sono radunati a piazza Magione a partire dalle 15 e lì è iniziata la festa, fino a poco dopo le 17, quando il corteo ha cominciato il suo percorso. Piazza Magione, via Lincoln, Foro Italico, corso Vittorio Emanuele, via Roma, via Cavour, piazza Verdi. Il popolo gay ha attraversato il cuore della città vecchia, non lasciando indifferente nessuno, durante il suo passaggio. Alla testa del corteo, la storica coppia gay di Palermo, Massimo e Gino, mostravano un cartello con su scritto “30 anni di vita, lotta e amore insieme”, in ricordo del trentennale dalla morte dei due ragazzi omosessuali di Giarre e dalla nascita nel capoluogo siciliano del primo circolo Arcigay d’Italia. Sul primo carro della parata, la madrina della giornata, Vladimir Luxuria, che ha commentato la manifestazione descrivendo la sua grandissima emozione davanti all’evento. Anche Paolo Patanè, presidente nazionale di Arcigay, presente al corteo, si è detto profondamente emozionato per il successo della giornata. Ai balconi, i palermitani guardavano incuriositi la folla di gente che invadeva le strade. Qualche casalinga ha accennato dei passi al tempo di musica, tra i tanti giovani che, dalla strada, applaudivano e le invitavano a scendere. Certo, qualcuno ha riso sotto i baffi, qualcun altro ha sussurrato commenti poco gentili, ma dopo le polemiche che durante gli scorsi giorni hanno accompagnato l’attesa per il Sicilia Pride 2010, ieri è stato il giorno di festa, il corteo ha sfilato tra i manifesti pubblicitari del Pride e quelli dei giovani del Pdl che recitavano “Coppie gay: no a matrimoni e adozioni”, in un rispetto reciproco che non ha portato a scontri diretti.
E la festa è andata avanti tutta la notte sul grande palco del Pride Village, che ha ospitato in piazza Verdi, davanti il teatro Massimo, le performance dei Licks, Cipria, Hank, Gennaro Cosmo Parlato, Viola Valentino e i Quartiatri.

da www.livesicilia.it

Morire in carcere da ammalati – Il garante: “No all’archiviazione”


di Roberto Puglisi

“Quello che è accaduto è molto strano”. Salvo Fleres, garante per i diritti dei detenuti in Sicilia conosce a memoria la storia di Roberto a Pellicano, tossicodipendente, morto da sieropositivo dietro le sbarre dell’Ucciardone, a trentanove anni, dopo due richieste di scarcerazione del suo avvocato Tommaso De Lisi. Intervistarlo sul punto è anche un’occasione per parlare di carceri siciliane. E di orrore.

Onorevole che idea si è fatto del caso di Roberto Pellicano?
“E’ un fatto strano”

Che andrebbe verso l’archiviazione, per la disperazione di una famiglia.
“Guardi, spero che sulla vicenda non si arrivi all’archiviazione, non ad una archiviazione veloce almeno. Sì, quello che è accaduto è strano, ma purtroppo è nella media. I detenuti dovrebbero essere assistiti e monitorati. E non lo sono, per mancanza di personale”.

Altri casi?
“Sto seguendo la storia di un giovane di 19 anni che si è suicidato a Catania, due giorni dopo la carcerazione”.

Catania, l’oscena prigione di piazza Lanza. Avete denunciato l’infamia delle carceri siciliane. Qual è la peggiore?
“Favignana, dal punto di vista strutturale, e Marsala. Ma sono tutti orrendi. Piazza Lanza, certo. L’Ucciardone, certo”.

Il problema centrale?
“Quella sull’affollamento è la madre di tutte le guerre”.

Chi va in carcere?
“Soprattutto i poveracci. Non lo dico io. Lo dicono i dati”. 

E che altro dicono?
“Che c’è un uso aberrante della carcerazione preventiva”.

Voi che potete fare?
“Denunciare, segnalare, intervenire. Questa battaglia di civiltà non si può perdere”.

da www.livesicilia.it

Nomi, cose, animali


dalla Redazione di www.livesicilia.it

Dopo il proclama a reti unificate lanciato dal Presidente della regione Raffaele Lombardo dal suo blog, folgorati sulla via di Grammichele, siamo lieti di proporre da oggi la cronaca politica così come piace al nostro amato governatore.

Contro le trame dei vili che nell’ombra infidi s’annidano, il Presidente della Regione Raffaele Lombardo è riuscito con pervicacia nella titanica impresa di strappare all’Assemblea regionale siciliana, mefitico covo di ascari, pupi e pupari, il voto su una finanziaria rivoluzionaria e innovativa che garantirà all’Isola tutta lo splendore del sol dell’avvenire. L’esultanza dei lavoratori precari, preziosa risorsa e simbolo della produttività di una Regione operosa e tenace, assiepati in piazza del Parlamento, che cantavano a squarciagola “Il presidente, c’è solo il presidente”, dimostra come il popolo siciliano abbia voglia di rompere con un recente passato fatto di clientele e prebende, malgrado le “sottili” insinuazioni che dalla “foresta” nera di una stampa asservita piovono contro gli alfieri della rinascita del Sud. Sopportando con stoico eroismo ottocento minuti di interventi di Cateno De Luca, supplizio che chiaramente rappresenta una violazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, della Convenzione di Ginevra e del Catechismo della Chiesa cattolica, governo e maggioranza hanno garantito ai siciliani una manovra a prova di sicari e bizantinismi. Questo è un governo che ha fatto nomi, cose, animali (battezzando la cavalla siculo-araba con un nitrito d’orgoglio). Ci mancano solo città, fiori e frutta. Malgrado ascari, gattopardi e sciacalli dicano che alla frutta ci siamo già. Ma il presidente non si farà intimidire.

Beata la clochard senza casa nè eroi


di Accursio Sabella

Beata la povera clochard. Beata perché povera. E perché ignara di tutto. Di aver portato via messaggi e segni di chi ha creduto e crede nell’esempio di un eroe civile come Giovanni Falcone. Beata la povera clochard. Perché povera. E perché non ha eroi.
Eccola, nel video, mentre sfila su via Notarbartolo. Il passo incerto. Come la sua vita, in fondo. L’andatura confusa. Come i suoi passi. Ed eccola tornare indietro. Le braccia piene di quei messaggi e di quei segnali. Portati via in un incomprensibile impeto di vita, da un “altare” dove si ricorda la morte per un ideale.
Già, la vita e la morte. Che per il siciliano sono chiaramente divisi. Il morto è morto. Bisogna pensare ai vivi. La contraddizione, la contrapposizione a disegnare l’identikit di questa terra. Dove, però, la morte e la vita finiscono per essere sviliti, in quel confronto.
E la morte diventa elemento “utile” (con tutta la buona fede che ciascuno di noi può e vuole trovare) per il moderno marketing mediatico e politico. Dove bisogna esserci. Per forza. Lì, nel luogo delle “profanazione” (e sarebbe interessante chiedere a Giovanni Falcone cosa penserebbe, oggi, dell’uso di quel termine). Nel quale esibire tutti gli stilemi e i gesti della più stucchevole retorica. “Mafia”. O niente. Ed è meglio che sia mafia. Nella terra della contraddizione tra vita e morte, da tanto brucia quella tra Cosa nostra e antimafia. E anche qui, finisce per spandere una patina opaca su entrambe le cose. Mitizzando la prima, anche di fronte all’azione di qualche sanguinario ignorante. E per far entrare la seconda in un “determinismo” che obbliga a esserci. Che suggerisce anche la commossa, contrita, attonita convenienza “pubblica”. Meglio che sia mafia, insomma. Altrimenti…
Altrimenti si corre il rischio, a distanza di qualche giorno, di trovare una povera clochard (che il termine barbona suona già male, ancor più se riferito a una donna) immortalata in un filmato. È lei la “profanatrice”. Quella dal passo incerto come la sua vita. Quella che non profana nulla perché non sa cosa sia la profanazione. E che, se lo sapesse, forse attribuirebbe quel termine alla propria vita. Quella vita esplosa in un impeto incomprensibile. Quella vita che sembra in Sicilia, in fondo, solo una scappatoia dalla morte. Povera clochard. E beata clochard. Perché povera. E perché vive, lei sola, in quel paese beato che non ha bisogno di eroi

da www.livesicilia.it

Lei ama lei: si “sposano” a Marsala


di Miriam Di Peri

Una sera come tante in un pub, parole dette sottovoce nell’incessante brusio di sottofondo. Tra una chiacchiera e l’altra, qualcuno sussurra, con un tono ancora più basso, quasi a voler sfidare l’attenzione e le capacità uditive dei propri interlocutori: “sapete che a Marsala qualche giorno fa si sono sposate due donne?”. Attimo di silenzio, poi tantissima curiosità, centinaia di domande frullano tutte insieme nella testa. Ma non era vietato? Due donne? In Sicilia? In una Chiesa? Ma soprattutto, come mai la notizia non si è saputa in giro? “No, le due donne hanno chiesto a tutti di mantenere il massimo riserbo – taglia corto l’unico del gruppo al corrente dei fatti – e così è stato”. Va bene, le novelle spose hanno voluto proteggere la privacy del giorno più importante della loro vita. Giusto e legittimo. È così che ci mettiamo alla ricerca del ministro di Dio che ha celebrato le nozze. E la ricerca conduce ad Alessandro Esposito, pastore della comunità Valdese di Trapani e Marsala. Anche a lui è stato chiesto di mantenere il riserbo sull’episodio. Allora proviamo a capire cosa è scattato nel cuore dell’uomo, e del pastore d’anime, per portarlo a celebrare una funzione così atipica. Ci va cauto con le parole, non parla di “matrimonio”. Lui ha incontrato due donne che si amavano. E ha benedetto la loro unione. La fa meravigliosamente facile, Alessandro Esposito. Lo senti parlare d’amore con lo stesso affetto e la stessa soddisfazione con cui un bambino costruisce per la prima volta un puzzle. Tassellino dopo tassellino.

Pastore Esposito, qual è la sua definizione di amore?
“Beh, incominciamo con una domanda piuttosto impegnativa. Se dovessi abbozzare una risposta proverei a ribaltare l’interrogativo. Ovverosia: credo che ciò che di più improprio si possa fare nei confronti dell’amore sia confinarlo nell’angusto perimetro di una definizione. L’amore, difatti, è per antonomasia traboccante, eccedente, ulteriore: ecco perché nei vangeli Amore è l’unico nome attribuibile a Dio, il quale, non a caso, si sottrae ad ogni identificazione, fuorché, per l’appunto, a quella che lo designa come Amore”.

Dove sta il confine tra amore giusto e amore sbagliato?
“L’amore è amore e, come tale, non conosce barriere: a tracciare confini non è lui, siamo noi. Per lo stesso motivo, aggiungo, a sbagliare siamo noi e non lui: e sbagliamo proprio nel momento in cui pretendiamo di imporgli dei limiti che, come tali, sono nostri e non suoi. In sostanza, credo che siamo più noi a creare problemi all’amore che non viceversa”.

Qualcuno la definisce una malattia, qualcun altro un peccato, altri ancora una tendenza che va di moda in questo secolo. Cos’è, secondo lei, l’omosessualità?
“Per procedere nella direzione che stiamo cercando, insieme, di delineare, risponderei che l’omosessualità è uno dei molteplici volti dell’amore: come tale, possiede pari diritti e pari dignità rispetto a tutti gli altri. Dire che sia malattia è frutto dell’ignoranza. Affermare che si tratti di peccato è conseguenza di un fondamentalismo ottuso. In ambo i casi si tratta di una mancanza di sensibilità che mi avvilisce e mi indigna. Certo dovrebbe far riflettere il fatto che ambedue queste definizioni continuino ad attecchire in seno a svariati contesti ecclesiastici. Credo che sia giunto il momento di dire, senza ambiguità e tentennamenti, che a dover compiere un cammino di conversione non sono certo le persone omosessuali, quanto, piuttosto, le chiese. Credo sia tempo di riparare, non con futili esternazioni, ma con gesti concreti e pronunciamenti chiari, all’ingiustizia messa in atto attraverso secoli di pregiudizi ingiustificati e di condanne inescusabili. Sperando che queste sorelle e questi fratelli vogliano accordarci quel perdono che abbiamo il dovere, umano prima ancora che morale, di chiedere loro”.

 ”Maschio e femmina li creò” e a quello si appella la Chiesa Cattolica, contro le unioni omosessuali. Ma l’amore non dovrebbe stare al di sopra di tutto?
“Difatti è così. Spesso però mi è capitato di constatare che lo spirito del Vangelo venga colto assai più in profondità da quante e quanti non si riconoscono in una struttura ecclesiastica: a molte e molti di costoro sono debitore per il mio cammino di uomo e di discepolo. In fondo, il Vangelo, consiste in un percorso di umanizzazione: perché umani non si è, umani si diventa. La pratica quotidiana del Vangelo dovrebbe semplicemente insegnarci ad essere ciò che diciamo di essere e che, in relatà, non siamo: umani. E chi riconosce che l’amore sta al di sopra di tutto, del Vangelo ha già compreso l’essenziale”.

Sesso e religione: è giusto che questi due universi, estremamente intimi e privati, s’incontrino?
“Certamente: direi che si tratta di un incontro auspicabile, per quanto mi sembri, in generale, piuttosto di là da venire. Inutile dire che, perché possa aver luogo un incontro proficuo tra queste due dimensioni del vivere, gli impedimenti maggiori provengono dall’ambito religioso. La sessualità appartiene alla sfera intima e, come tale, inviolabile, dell’individuo: la religione, pertanto, se vuole porsi al servizio delle donne e degli uomini, dovrebbe limitarsi a riconoscerla e a rispettarla, senza emettere sentenze. Sessualità è relazione (va da sé, tra persone adulte): pertanto, si tratta di una dimensione che va educata, non certo elusa e men che meno demonizzata. E il cammino che molte chiese, in tal senso, devono percorrere, mi sembra ancora lungo”.

 Quello tra le due donne è stato il primo matrimonio gay che ha celebrato?
“Si, ma qui è necessario operare alcuni distinguo: a incominciare dal fatto che quella che abbiamo celebrato presso la chiesa valdese di Trapani e Marsala è propriamente una benedizione, nel senso che non ha alcun effetto civile. Questo perché lo Stato italiano, al momento, non riconosce alcun diritto alle coppie di fatto, omosessuali come eterosessuali. Ritengo essenziale, però, sottolineare che tale celebrazione è stata resa possibile da molteplici fattori: vorrei citarne soltanto tre. Il primo è rappresentato dalla disponibilità delle comunità valdesi di Trapani e Marsala, di cui ho il privilegio di essere pastore, le quali hanno dimostrato estrema apertura e sensibilità, sfidando convenzioni e consuetudini. Il secondo consiste nell’estrema maturità teologica, etica ed ecclesiologica dimostrata dalla Chiesa Valedese nel suo insieme, poiché si tratta di una realtà in cui il confronto ed il dibattito sono sempre consentiti e tutelati. Il terzo fattore, infine, lo individuo nel mio percorso biografico, che ha potuto giovarsi del sostegno delle comunità di base, appartenenti al cattolicesimo cosiddetto “del dissenso”. In particolare, sono debitore dello sviluppo di una maggiore sensibilità circa la realtà delle coppie omosessuali e dei loro diritti alla comunità di base di Pinerolo ed al suo presbitero e animatore, Franco Barbero”.

Come ha reagito la società marsalese al matrimonio tra le due donne?
“Beh, staremo a vedere: per quanto ne so, glielo stiamo comunicando con questa intervista”.

da www.livesicilia.it

I sogni della bambina albero


di Roberto Puglisi

Ho conosciuto una bambina che è diventata un albero. Quando l’ho vista per la prima volta era ancora una bambina. Le ho regalato un libro. Io regalo un libro a tutti i neonati, come un investimento di parole per il futuro. Ora mi viene in mente che forse è tutta colpa mia. La carta del libro è tornata alla sua radice, alle foglie e ai rami. Ha preso con sé la bellissima bambina. E la bambina è diventata albero.
Cosa vuol dire diventare albero? Significa marciare a passi spediti verso una condizione di infrangibile interiorità. Tutto si muove e abita  dentro la corteccia. Tutto l’amore, tutta la rabbia, tutti gli sguardi sono rinchiusi in un recinto nodoso. La vita scorre irraggiungibile, trasparente solo per chi sa immaginarla. Bisogna imparare la lingua degli alberi, allora. E’ necessario sintonizzarsi sulla frequenza delle foglie, imparare a tradurre il movimento delle fronde. I genitori dei bambini autistici imparano tutto per amore. Inventano e decifrano un manuale di comunicazione. Vivono appesi agli occhi indicibili di una bimba o di un bimbo  albero.
Stasera, a Palermo, i genitori dei bambini e dei ragazzi autistici saranno dalle nove in poi a piazza Politeama. Una giusta protesta contro l’abbandono delle istituzioni che ignorano il silenzio degli alberi umani, le grida disperate strette nella corteccia. Possono intervenire tutti. Non è doveroso vivere sulla propria pelle il problema per esserci. Basta avere voglia di imparare ad ascoltare la saggezza delle foglie.
Io ci sarò per l’affetto che provo nei confronti della bambina albero e dei suoi genitori. Ci sarò per quel libro che le ho regalato. Ricordo il titolo come se fosse ieri: “La storia infinita”.

da www.livesicilia.it