“Grida di dolore” – sempre dal diario, ancora inedito di Claudio Crastus


Se già da prima avevo l’intenzione d’interrompere qualsiasi terapia e di non sottopormi alle analisi, dopo questa legge medioevale il mio rapporto con l’infermeria è giunto a termine. Trovo vergognosa quest’agonia in cui, nostro malgrado, saremo costretti a “vivere”. Che cosa c’entriamo noi con chi è uscito e ha commesso un nuovo reato? Quante volte dovrò pagare? Quando si finirà di lapidarmi? Come si sentiranno quando morirà il primo malato tra queste mura, quando morirà il primo innocente?

Oggi è morta l’umanità, la giustizia, non c’è più proporzione tra reato e castigo. Ha forse senso la condanna a morte? Io non posso accettare di morire in questi recinti, non posso e non voglio sfiorire in cortili squallidi dove la vita è gettata con arroganza e le speranze vengono falciate con crudeltà.

Stanotte ho sognato l’inferno: era identico alla mia realtà. Lui, il demonio, ci ha messi in fila per tre e a drappelli ci destinava al patibolo. Due esseri orrendi mi hanno portato alla ghigliottina e mi hanno invitato ad appoggiare la testa sotto la lama. Pochi minuti, un ultimo sguardo al mio cuore ferito, poi più nulla: era scesa la lama.

Ho aperto gli occhi, e mi sono ritrovato nella mia cella, le lenzuola inzuppate di sudore, il cuore impazzito, sballottato da un incubo a un altro, tra il buio e il silenzio di un’interminabile notte.

“La sessualità in carcere”, riflessioni di Francesco dal carcere di Augusta


Dopo il recente episodio di cui hanno parlato i mezzi di informazione di un giovane detenuto ripetutamente violentato da tre compagni di cella oggi mi è arrivata questa lettera dal carcere di Augusta con le riflessioni di Francesco sulla sessualità in carcere.

Caro amico lettore,

al momento attuale l’istituzione carceraria assolve due funzioni, quella di deterrenza e quella di neutralizzazione.

Secondo il dettato costituzionale sul concetto di pena, dovrebbe altresì assolvere una funzione rieducativa, ma questa è pura utopia perché pensare di rieducare una persona isolandola per 22 ore al giorno e privandola di tutto è inconcepibile.

La pena si caratterizza essenzialmente come privazione; nel caso della reclusione questo meccanismo non si arresta alla primaria privazione della libertà ma va molto oltre postulando norme, strutture, sistemi di vita, situazioni differenziali rispetto alla normalità dei rapporti umani liberi.

La privazione contiene in sé la sospensione dei rapporti umani e delle relazioni personali. Eppure da sempre il legislatore non ha interrotto del tutto le vicende umane tra le strutture penali e il contesto socio-affettivo esterno.

L’individuo che viene assoggettato alla reclusione non sparisce dal mondo senza lasciare traccia di sé: ha diritto a colloqui con i familiari, quindi implicitamente si riconosce l’imprescindibile esigenza di avvicinamento del recluso al mondo esterno, in particolare a quello dei suoi affetti.

Il soggetto che oltrepassa il portone di un carcere perde la sua dimensione di uomo e la sua dignità. La sua volontà viene chiusa a chiave come il suo corpo.

Con il passare del tempo in carcere si subiscono gravi alterazioni e mutilazioni in merito soprattutto alla vista, al linguaggio, al movimento, al sesso.

Esiste un gravissimo problema sessuale in carcere di fronte al quale si osserva indifferenza, si preferisce schivare l’argomento, si preferisce non parlare. Invece il problema è terribilmente serio e merita un’attenta, legittima rivalutazione contro il silenzio della legge e una opportuna considerazione da parte degli esperti della materia penitenziaria.

Permettere ai detenuti di vivere i propri affetti, aprire le carceri alla sessualità è un tentativo concreto di umanizzare la detenzione ed è un segnale importante di prospettiva per i detenuti e per i familiari, perché negare, impedire a un detenuto la sessualità comporta, sul piano sostanziale, privarne anche la moglie o la fidanzata o la compagna che, in definitiva, non hanno alcuna colpa da espiare.

Interrompere il flusso dei rapporti umani a un singolo individuo significa separarlo dalla sua stessa storia personale, significa amputarlo di quelle dimensioni sociali che lo hanno generato, nutrito e sostenuto.

Il carcere demolisce, anno dopo anno, quella che si potrebbe definire “l’identità sociale” del detenuto. Tutti sono concordi nel riconoscere che l’attività sessuale nell’uomo rappresenta un ciclo organico che non è possibile interrompere senza determinare nel soggetto, in ogni caso, dei traumi sia fisici che psichici.

In carcere il tempo si dilata, gli spazi si restringono.

Prevale la solitudine, l’emarginazione.

La realtà è allucinante, piena di desolazione.

Si sente imponente il bisogno di amare e di essere amato.

Però intorno o vicino non c’è nulla a cui dedicare i propri sentimenti.

Il carcere è un momento di vertigine. Tutto si proietta lontano: le persone, i volti, le aspirazioni, le abitudini, i sentimenti che prima rappresentavano la vita schizzano all’improvviso da un passato che appare subito remoto, lontanissimo, quasi estraneo.

Il carcere così diventa un inferno dove prevaricano le inibizioni e le repressioni.

Il detenuto viene rinchiuso in cella. Viene rinchiuso il suo corpo ma anche la sua stessa vlontà, i suoi stessi desideri.

Tutto viene deciso e gestito da altri.

La sessualità, invece, è l’unico aspetto della vita di relazione dei detenuti che non risulta “normativizzata” da regolamenti o da disposizioni ministeriali.

Quanto sopra crea inevitabilmente le premesse per il realizzarsi di inconfessabili arbitri.

Risulta ormai comprovato che molti individui che fino al momento di essere associati al carcere avevano avuto ed espresso un comportamento sessuale normale, a causa della promiscuità della vita carceraria, del turpiloquio e delle oscenità di cui diventano spettatori, mano a mano che si adattano all’ambiente, vedono affievolirsi i loro freni inibitori e crollare i loro principi morali, lasciando che l’istinto incontrollato prevalga fino a giungere alle forme più basse di degradazione.

Masturbazione (eccitata dalle scene di giornali pornografici che rivestono le mura delle celle e soprattutto della toilette), fellatio, pederastia, saffismo, rappresentano pratiche ben note negli istituti penitenziari.

In carcere si subisce un grossolano processo di depenalizzazione e uno parallelo di adattamento all’ambiente contraddistinto dal codice della subcultura.

Per reagire allo stato di repressione, di continenza coatta, la maggior parte dei detenuti si crea, si ritaglia un proprio mondo sessuale tappezzando la propria cella con giornali pornografici (che risultano essere i giornali più acquistati e richiesti in carcere) cercando di coinvolgere i compagni con narrazioni fantastiche riferite all’attività sessuale precedente alla carcerazione.

Dopo un po’ di tempo il sesso diventa un’ossessione.

Prima si ricorre alla masturbazione anche 2-3 volte al giorno. In seguito questa pratica non fornisce più l’appagamento delle proprie soddisfazioni. Nell’ambiente carcerario la sessualità inibita erotizza tutta la vita del recluso e ne accentua il richiamo biologico con un ritmo intensamente dinamico.

In questa società anomala che è il carcere, il detenuto, non appena oltrepassa il portone del carcere, deve abituarsi, volente o meno, a tanti cambiamenti piccoli o grandi. Mangiare seduto su una branda, muoversi poco come se si trovasse su una navetta spaziale, assuefarsi a cibi non usati prima. Tutto in presenza di altri, anche dormire in un’ora insolita e con la luce accesa. Nei primi giorni, nei primi mesi il sesso non esiste. Lentamente avviene il risveglio. La lunga astinenza sessuale inizialmente determina sovreccitazione permanente con stati reattivi dal punto di vista clinico (eccitazione, macerazione del pensiero, costruzione ideativa di situazioni scabrose, stato allucinante con violenza di rappresentazione).

Ci si deve riabituare alla passata giovane età con la masturbazione che, però, un po’ alla volta, lascia sempre più insoddisfatti e lo sforzo continuo di richiamare alla mente immagini eccitanti dato il lento trascorrere dei mesi e degli anni e i ricordi che con il tempo sfumano sempre di più. Incomincia allora il periodo delle fotografie pornografiche, non dura poco tempo. E’ corta, e soltanto corta, mentre fisiologicamente, fisicamente, si sente la necessità della carne per completare l’eccitazione. Fino a questo momento il detenuto con la sessualità normale è sempre riuscito a sentire naturale schifo per i discorsi dei detenuti più anziani di anni di carcere, ma da questo istante stesso lentamente avviene lo sgretolamento che lascia disorientato il soggetto stesso. La natura con la sua intrinseca, paurosa potenza, dopo essere stata imprigionata, umiliata, ridotta a monologhi solitari, ha cominciato a muovere i suoi passi lavorando contro ogni volontà, disintegrando e neutralizzando le diverse barriere e ambientando la sessualità sul terreo che è costretta a vivere. Il torrente della sessualità abbatte ogni diga. Se la diga dovesse resistere subentrerebbe la pazzia.

La vita solitaria diventa un tormento perché si ha bisogno di toccare, ma toccare se stessi, per tanti, a un certo punto, non è più soddisfacente, non è più sufficiente. La colpa di questo male va fatta risalire a chi costringe a questa dolorosa, degradante deviazione.

Lo Stato fa chiasso a proibire le droghe e nel contempo costringe gran parte dell’umanità carceraria alla droga sessuale (omosessuale).

I diversivi alla solitudine sessuale non sono molti né originali: televisione e gioco per distrarsi, religione e scuola per sublimarsi, lo sport per stancarsi.

Un altro punto da considerare è questo: in carcere non penetra il meglio della realtà sociale nel comportamento profondamente “eticizzato”. Vi entrano soggetti labili con i difetti e le esperienze maturate nel campo della deviazione. Pertanto non si vuole, non si può e non si deve chiudere gli occhi sui problemi , sui bisogni, sui drammi degli uomini ristretti in carcere. E’ difficile potersi illudere che questi problemi scompaiano o si risolvano da soli, per quanto comodo sia talvolta non vedere e invece sia amaro, tormentoso sapere o capire.

Il problema dell’affettività in carcere merita attenzione e rispetto perché vi confluiscono e la animano gli istinti, le sensazioni, le emozioni, i sentimenti radicati in ogni uomo. L’affettività è insopprimibile bisogno di vita, un po’ come respirare, nutrirsi, dormire. Mutilando l’umanità, comprimendo la natura oltre un certo limite, non rimane che la patologia della rinuncia o la patologia della degenerazione. In modo ineluttabile i detenuti risultano consegnati a una dimensione esistenziale monocromatica, dimezzata per l’assenza dell’altro sesso che solo dà senso al proprio. Ne derivano gravi tensioni, inquietudine, frustrazioni, deviazioni, perversioni, tendenze ed esposizione alla violenza. Si accentuano le turbe psicosomatiche.

Allora è forse il momento di chiedersi se fra quei bisogni e quei diritti dei detenuti vi siano anche il bisogno e il diritto di amare e di essere amati secondo le soluzioni adottate da paesi di grande civiltà penitenziaria come la Danimarca, l Norvegia, la Svezia, l’Olanda, ecc.

In carcere si va perché si è punti e non per essere puniti.

La pena rilevante della privazione della libertà e qualunque patimento ulteriore, qualunque misura di afflizione non hanno senso, scopo e giustificazione. Offendono soltanto la ragione e l’umanità. E’ forse anche triste e mortificante condannarli a inseguire la giustizia sulla strada della sofferenza piuttosto che su quella dell’umanità, della civiltà, della speranza.

Esistono altresì fondamentali interessi di difesa sociale. Il carcere deve essere in grado di restituire alla società uomini e donne non dico migliorati ma almeno non peggiorati e degradati nella loro dignità. Molte e tante sono ormai le denunce corredate scientificamente dei guasti psicologici che l’astinenza comporta sulla personalità del recluso, tutte concorsi nel riconoscere che l’attività sessuale nell’uomo rappresenta un ciclo organico che non è possibile interrompere senza determinare nel soggetto, in ogni caso, dei traumi sia fisici che psichici.  Al detenuto va riconosciuto il diritto alla sessualità libera e consapevole attraverso visite periodiche dei coniugi e dei conviventi.

La vita sessuale e affettiva, ricca di sfumature e di elementi veramente armonizzati e fluttuanti, è un valore costitutivo della dignità di ogni uomo.

Forse sono ben pochi coloro che hanno capito che per i detenuti anche il carcere più moderno, fornito di tutti i confort (doccia, televisione, giornali), rappresenta una sofferenza indicibile per la privazione della libertà fine a se stessa.

I “permessi dell’amore” dovranno rappresentare forse la prima, civile risposta a questo incredibile pianeta di sofferenze e privazioni dal momento che le riviste pornografiche o l’immaginazione non possono colmare i gravi vuoti determinati dalla mancanza d’affetto e d’amore.

Il carcere è malattia.

Il carcere è esso stesso una sindrome, una sindrome sociale.

Non esistono, al momento attuale, risposte concrete ed efficaci in sede operativa, ma solo tentativi di approccio per tentare di portare a risoluzione il problema della sessualità.

Credo che l’essersi soffermati a riflettere su un aspetto così significativo dell’istituzione carceraria possa risultare utile per una legittima problematizzazione del fenomeno.

Caro amico lettore, anche questo è un segnale importante nella prospettiva di un carcere più civile e umano.

Vi lasco riflettere!

Sovraffollamento all’inferno


In questi giorni in un vecchio giornale ho letto:
“Una signora lasciò i suoi due cani nel bagagliaio della sua station wagon con i finestrini aperti per andare a fare un servizio. Al suo ritorno trovò i vigili.
– “È tutto in regola protestò. Ho pure attrezzato il portabagagli con la rete di divisione. Cosa volete da me?”
I vigili risposero semplicemente:
– “La legge dice chiaro che un cane deve avere uno spazio vitale minimo di otto metri. Le sembra che ci siano otto metri dentro il baule? E la multarono.”

Peccato che in carcere non ci sono vigili!
A parte l’ironia, l’Italia è uno strano paese, un cane deve poter disporre di almeno otto metri quadri, mentre in molti carceri alcuni detenuti devono in cella fare a turno per stare in piedi.
Il sovraffollamento incomincia a farsi sentire anche a Spoleto.
Stanno arrivando molti detenuti anche da altri carceri e stanno incominciando a mettere due detenuti in cella singola, con l’agibilità a contenere una sola persona.
Spero per l’Assassino dei Sogni che con me non ci provi perché perderebbe.
In tanti anni di carcere lo Stato mi ha sempre trattato come una belva e mi ha fatto diventare un lupo solitario.
Mi ha fatto vivere in una solitudine infinita, sconfinata, solo in compagnia di me stesso.
E quando la solitudine ti entra nella tua testa, nel tuo cuore, e nella tua anima, un uomo ombra non ne può più fare a meno.
Lo Stato, nell’Isola del Diavolo dell’Asinara, mi ha sottoposto per cinque anni al regime di 41 bis, di cui un anno e sei mesi in totale isolamento, con il cancello, blindato e spioncino chiuso, con solo due ore d’aria senza mai vedere e parlare con altri detenuti.
Lo Stato mi ha sottoposto a otto mesi di regime di sorveglianza particolare del 14 bis nella cella liscia, isolato da tutti gli altri detenuti, senza televisione e fornellino.
Dopo tanti anni d’isolamento, di regimi duri e punitivi, mi hanno abituato e mi sono abituato a stare da solo e non riuscirei più a stare in compagnia di un altro detenuto in una cella.
Ci hanno provato a mettermi un detenuto in cella nel carcere di Nuoro, ma dopo tre giorni l’Assassino dei Sogni si arrese perché ogni volta che andavo al passeggio mi sdraiavo per terra, costringendo le guardie a portarmi in cella di peso.
Una volta al direttore del carcere di Parma, quando sono andato volontario, per stare da solo, alle celle di punizione ho detto:
– “Né in questa terra, né nell’aldilà, nessuno potrà mai obbligarmi a dividere una cella con un altro detenuto”.
Tutte le volte che l’Assassino dei Sogni ha provato a mettermi un compagno nella mia stanza ho sempre detto:
– “Datemi una speranza, una sola, che un giorno potrei uscire e avrò un motivo per accettare un compagno in stanza”.
Gli uomini ombra non possono stare in compagnia con le persone che hanno un futuro.
I morti non possono stare in cella con i vivi.

Carmelo Musumeci
Carcere di Spoleto – Gennaio 2010

da www.informacarcere.it

Giustizia: viaggio nell’inferno dimenticato delle nostre carceri


di Lino Buscemi (Ufficio del Garante dei detenuti della Sicilia)

Il sovraffollamento penitenziario ha raggiunto livelli intollerabili tali da indurre lo stesso ministro della Giustizia Alfano a dichiarare, papale papale, che “le carceri italiane sono fuori dalla Costituzione”. Ed esattamente fuori da quell’articolo 27 che così recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

I detenuti, soprattutto in almeno 8 penitenziari siciliani, vivono una condizione non facile sicché parlare di “umanità” e di “rieducazione” è pura mistificazione. È fin troppo ovvio affermare che lo Stato democratico ha il dovere di punire i cittadini che commettono reati, ma non lo è altrettanto quando si arroga il diritto di torturali, sia in termini fisici che psichici.

Il sovraffollamento è una tortura? Provate a chiederlo a chi vive in una cella angusta e lurida, gomito a gomito con altri dieci individui in spazi che potrebbero al massimo contenerne 4 o 5. È anche una tortura vivere in una cella con il wc alla “turca” (spesso il “buco” di scarico è ostruito da una bottiglia di vetro per impedire ai topi o agli scarafaggi di fare visite notturne!), senza doccia, umida e con i vetri rotti, con scarse possibilità di poter ricavare un minimo di intimità per il soddisfacimento delle ineludibili funzioni corporali.

Come definire le “condizioni di vita” nelle carceri, ad esempio, dell’Ucciardone di Palermo, di Piazza Lanza a Catania, di Favignana, Marsala o Mistretta, se non inumane e degradanti? Persino le docce (dove spesso, in inverno, scorre acqua solo fredda) sono allocate in locali lontani dalle celle che per raggiungerli bisogna attraversare nudi i corridoi o le terrazze all’aperto.

Le risorse, inoltre, per realizzare programmi per la “rieducazione” del condannato o per il lavoro in carcere sono scarsissime e, comunque, non adeguate per dare effettiva attuazione all’articolo 27 della Costituzione. Si fa quello che si può, in maniera disorganica e discontinua, con l’aiuto del personale di polizia penitenziaria, con i direttori più sensibili e con la sparuta pattuglia di educatori, psicologi e volontari. Alle corte: lo stato in cui versano le carceri in Sicilia non è per nulla accettabile.

La stragrande maggioranza dei detenuti è in attesa di giudizio (soprattutto extracomunitari), per reati, in prevalenza, cosiddetti comuni e non di grave allarme sociale. Ogni detenuto costa allo Stato non meno di 350 euro al giorno, per ricevere, spesso, un trattamento inumano e degradante. All’orizzonte non si intravedono né atti di clemenza (come auspicato già da Giovanni Paolo II) né il ricorso massiccio alle misure alternative al carcere (arresti domiciliari, affidamento ai servizi sociali, semilibertà, ecc.), né tantomeno l’apertura di nuove carceri ultimate, né il ricorso alla liberazione anticipata (consiste in una riduzione della pena pari a 45 giorni, per ogni sei mesi di pena espiata dal detenuto che ha tenuto, però, regolare condotta ed ha anche partecipato alle attività trattamentali).

Non sembra, al momento, muoversi nulla che faccia presagire qualcosa di positivo. In Parlamento e nei Palazzi che contano, malgrado le ripetute grida d’allarme dei garanti dei diritti dei detenuti, regna il silenzio. Eppure le carceri esplodono e cominciano ad esserci problemi di sicurezza dentro di esse, come alcuni casi eclatanti recenti hanno abbondantemente dimostrato. A pagarne il conto sono i “poveracci”, i più deboli, che privi di adeguata assistenza legale pagano, per reati non gravi, il loro debito alla giustizia tutto per intero in condizioni pietose e di degrado.

La stessa cosa, sembra, non accadere per i “potenti”, che sanno come evitare il carcere e persino per i mafiosi che pur essendo sottoposti all’incostituzionale regime del “41 bis” dispongono, però, normalmente di celle pulite, arredate, con wc moderni e docce. Fare emergere nella sua crudezza quello che per ora appare “invisibile” aiuta non poco a sconfiggere la malagiustizia che costringe, intanto, i più “indifesi” ad abitare carceri dove sono calpestati la dignità dell’uomo e diritti fondamentali. Come se si trattasse di vere e proprie discariche sociali e non di luoghi preposti alla rieducazione e al reinserimento nella vita sociale.

da www.ristretti.it

 

Giustizia: l’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà… è qui


di Luciana Scarcia

Ci sono le norme scritte a regolare le condotte collettive e ci sono i comportamenti delle persone in carne e ossa. Le norme scritte dicono che il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona; deve essere favorita la collaborazione dei condannati e degli internati alle attività di osservazione e di trattamento; dall’osservazione del comportamento si deve desumere una schietta revisione critica del passato criminale… e la sincera volontà di partecipare all’opera di rieducazione e di inserirsi nella società civile, accettandone legalità e valori.

Dunque nelle norme e nei regolamenti penitenziari trova forma il principio costituzionale del fine rieducativo della pena: si operi per restituire alla società un individuo che abbia fatto proprio il valore o, almeno, la convenienza della legalità.

Ma allora in quale pianeta, in quale cultura accadono fatti come la morte di Stefano Cucchi o quelle per cause da accertare (forse le stesse della prima) o i numerosi suicidi? A quali logiche rispondono quei fatti? Quale sistema di valori sta dietro i pestaggi? Che cosa, dentro la mente degli individui, legittima la noncuranza che, protetta dalla burocrazia, si trasforma in disumanità e disprezzo della vita umana? Perché davvero deve trattarsi di una cultura e di un pianeta lontani qualche galassia dalla nostra civiltà democratica. Un pianeta in cui l’esistenza di leggi comuni non costituisce un vincolo di coerenza tra principi dichiarati e azioni quotidiane. Ma nel nostro mondo siamo sicuri che questa coerenza sia ancora di moda?

In effetti il carcere è un pianeta lontano, un luogo estremo in cui sono concentrate le conseguenze ultime dei mali sociali e le categorie più deboli, gli “indesiderati”. È questa funzione di discarica sociale che rende quel luogo talmente difficile e complesso da offrire un alibi morale che tacitamente autorizza a infischiarsene delle norme scritte.

Ma, per favore, non parliamo di mele marce, così come è doveroso dire che sono molti coloro che si impegnano nel loro lavoro con serietà e umanità. Il punto è la gigantesca mole di inadempienze a tutti i livelli: la “discarica sociale” resta pur sempre un’istituzione dello Stato che, in quanto tale, avrebbe l’obbligo di porre in essere tutto quanto necessario per applicare le norme (formazione e motivazione del personale, verifica dei risultati, controllo); ma questo non avviene, né qui né altrove. E allora la questione esce dalle mura del carcere e investe la politica, la società tutta e la sua cultura.

Se dentro il carcere accadono fatti che rivelano addirittura la sospensione dei diritti inalienabili della persona, c’è da chiedersi quanto il rispetto di quegli stessi diritti sia diffuso e radicato nel sentire comune della gente “normale”, quanto quel principio sia riconosciuto come fondante la stessa identità collettiva e quanto, infine, il singolo ne faccia un criterio guida della sua condotta perché nel rispetto dell’altro (anche quando questi sia un “indesiderato”) è in ballo il rispetto della propria stessa dignità. C’è da chiedersi insomma se in chi ha responsabilità di gestione della cosa pubblica ci sia davvero intenzionalità nella difesa dei valori democratici oppure se dobbiamo prendere atto del fallimento.

E qui vengo al problema che mi riguarda in quanto volontaria che in carcere propone la scrittura come una delle attività che “accompagnano” un percorso di crescita e cambiamento del detenuto. Nella drammatica situazione in cui sono le nostre carceri, di fronte a casi così tragici e inquietanti, ha senso continuare a credere nel principio della rieducazione? È diventato un lusso buono per tempi migliori? O, peggio, è ipocrisia pensare di contribuire al cambiamento e reinserimento del detenuto nella comunità civile quando la comunità diventa meno “civile”? Ben altro è ciò che serve?

Mi vengono in mente le parole che Calvino, ne Le città invisibili, mette in bocca a Marco Polo per suggerire al Gran Khan un modo per non soffrire dell’inferno dei viventi: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. Trasferendo il senso di queste parole agli interrogativi appena posti, mi dico che continuare a ricercare nell’inferno del carcere le forme che può assumere la speranza di cose migliori è uno dei modi possibili per non accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo.

da www.innocentievasioni.net