Colpevole di vivere: amore e morte in “Diceria dell’Untore” al Teatro Verga di Catania


di Antonella Sturiale

Lo dobbiamo proprio ammettere: non ci siamo nemmeno accorti che il sipario, dopo circa un’ora e trenta dall’inizio dell’atto unico, si era chiuso dopo una scena di grande pathos emotivo. Ieri al Teatro Verga di Catania l’adattamento teatrale del romanzo di Gesualdo Bufalino, Diceria dell’untore, ci ha fatto vibrare l’anima in un gioco di amore e morte, paura ed ansia, sfida e fede. L’impeccabile regia di Vincenzo Pirrotta ha convinto un pubblico dalle età più disparate. Abbiamo assistito, alquanto piacevolmente meravigliati, a sguardi di bambini completamente catturati dalla bravura degli attori sul palcoscenico supportati da una scenografia e dagli essenziali costumi di Giuseppina Maurizi, dalle musiche di ampia e trepidante atmosfera di Luca Mauceri, i movimenti volutamente robotici a scandire attimi di effimera vita di Alessandra Luberti, direttore degli allestimenti e luci di Franco Buzzanca. Al centro del palco una scala dove risaltano scritte bianche in cima alle quali una pedana fa da simbolico balcone al mondo esterno: Enzo Di Stefano è l’attento direttore del palcoscenico.

Il regista dello spettacolo, che abbiamo applaudito in “Terra Matta” come attore intenso, emotivamente toccante, si è ritagliato in “Diceria dell’untore” la parte del Gran Magro, anziano primario del sanatorio “la Rocca” dove approda Colui che dice io, l’Io narrante appunto, della commedia, malato di tbc come tutti gli altri personaggi. Il suo è un Gran Magro a tratti clownesco, cinico e diretto quanto basta per fare della malattia dei ricoverati quasi una soluzione ai problemi, ai dilemmi più inestricabili della vita stessa.

Non è stato facile fare del romanzo di Bufalino la prima trasposizione teatrale per vari motivi, primo fra tutti, la lingua sofisticata, barocca e marcatamente metaforica utilizzata dall’autore. Quest’ultimo racconta il conflitto incontenibile tra amore e morte radiografato dalla tarlante e beffante realtà della malattia che conduce inesorabilmente al decesso tra indicibili sofferenze. Lo stesso Gran Magro – Pirrotta dirà: “Altri non siamo che OMI: fibromi, melanomi, leucomi, sarcomi…”.

Siamo nell’estate del 1946. L’Io narrante, un reduce colpito dalla tbc, arriva al sanatorio “La Rocca” e lì incontra, oltre al Gran Magro, la giovane Marta segnata marcatamente dalla violenza della guerra e della patologia contratta. I due giovani si innamorano senza speranza, vivono un amore sofferto, trepidante, spruzzato dal sangue della disperazione. Inoltre incontriamo gli altri personaggi, coinquilini del lazzaretto di Bufalino: Sebastiano, incattivito, chiuso, aggressivo ventottenne segnato dal dolore della perdita della sorella; veste i suoi panni il bravo, intenso, coinvolgente Giovanni Argante. Giovanni Calcagno è Padre Vittorio, un prete che mette in discussione la sua fede in Dio sfidando il Cielo in una iterata sfida, un grido carico di amarezza e rabbia: “Dove sei, fatti vedere”. Paradossalmente sarà il protagonista a riconvertirlo infine alla fede cristiana, proprio lui che vede il mondo attraverso un quasi materialismo illuministico. Ma Dio c’è e non permette lui le sofferenze sulla terra. Le vorrà proprio l’uomo? E’ questo che l’autore lascia sottilmente trasparire. L’attore Giovanni Calcagno ci ha davvero commossi, ci ha coinvolti pienamente nel suo profondo dolore. La sua performance è molto fisica: il battere la croce sulla spalla mette terrore, consapevolezza fino al culmine della rottura del legno come in atto di spezzare il legame con l’immanenza, con l’enigma dell’aldilà.

Nel piccolo ma incisivo ruolo di Adelina, la prostituta della Kalsa, ritroviamo Vitalba Andrea dal dialetto marcato e dalla gestualità molto esplicita come il personaggio richiedeva. E’ con lei che il protagonista si sente “Untore” perché la donna è facente parte della schiera dei sani, dei privilegiati. Il senso di colpa infuoca l’anima del malato che si contorce a terra febbricitante. Gli altri ricoverati della Rocca sono bravi attori del calibro di: Luca Mauceri, Plinio Milazzo, Marcello Montalto, Salvatore Ragusa, Alessandro Romano che cambiano costumi convulsamente ed ordinatamente. I musicisti che si intravedono in trasparenza al di là del sottoscala sono i bravissimi: Mario Gatto (fisarmonica, clarinetto, sassofono, basso, tastiere), Salvatore Lupo (violino, violoncello, basso), Michele Marsella (chitarra classica, basso, tastiere), Giovanni Parrinello (percussioni, basso, elettronica).
Potente e struggente la voce di Nancy Lombardo nel ruolo di Latomia, la ragazza della città. La giovane e diafana Marta ha il volto di Lucia Cammalleri, commovente ed a tratti sfuggente amore dell’Io narrante. Brava nel mostrare le fragilità della giovane età di fronte ad una realtà atroce: quella dell’imminente morte. Un passato di violenza da parte di una persona molto più anziana di lei, una nomea che ne ha calpestato la dignità umana. Molto brava soprattutto nella parte finale quando la sua vita cede finalmente alla morte liberando il refrigerio dell’anima.

Abbiamo lasciato, infine, il protagonista, l’Io del romanzo magistralmente interpretato da Luigi Lo Cascio. L’intensità della sua espressione vissuta, la grandiosità della sua naturale mimica, i monologhi lunghissimi affrontati con la giusta intonazione, con le giuste movenze, ci emozionano e ci fanno assaporare ripetutamente il brivido del mistero della vita, nell’amore come nella morte, restituendoci il giusto valore delle cose che ci circondano.

La colpevolezza del protagonista sta proprio nella sua insperata guarigione quasi a scapito dei compagni di “disavventura”. Ma lui, suo malgrado, è guarito e continua a vivere: un disegno voluto da chi?

Sicuramente da quel Dio che non vuole la sofferenza ma la permette soltanto per trasformare in forza la nostra debolezza.