“Lasciati perdere”


di Angela Ragusa

Non uscire dai confini della mia esistenza…

Resta a trattenere quel filo

che mi rende aquilone

e trasforma te

nel più felice dei bimbi.

Cerca di me le parole non  dette

le paure non svelate

i sogni non  raccontati….

Ferma il tuo cuore ai miei passi leggeri,

oltrepassa il sentiero che giunge  ai  miei sensi.

Smarrisci con me  la via delle cose

e lasciati perdere sotto i petali del mio fiore.

“Il brusio dell’assenza”


di Tiziana Mignosa

Urla sottovoce

il vuoto

anche quando sotto la cesta colma delle ore

gioca a nascondino.

Coi divertimenti vani

di nulla si disseta

e d’attese innaffia

gli appassiti fiori senza sole.

Risa menzognere

camuffano

la bruna spina

amarezza che forte grida.

Per non sentire altro male ancora

d’appassionate note

ubriaca l’esistenza

ma in agguato ama rimanere.

E tormento di nuovo dà

anche quando

accendendo di stupore il tuo sorriso

sostiene d’essere tuo amico.

Subire le conseguenze delle proprie azioni


“Qualcuno lascia cadere dei pezzi di vetro lungo la via, ed essendo negligente, non li raccoglie. Pensa: “Li raccoglieranno altri. Che importa se si feriscono!” E continua per la sua strada… Ma ciò che non sa, è che il destino umano non è una linea retta: la sua traiettoria è circolare; dunque, in un modo o nell’altro, in questa incarnazione o nella prossima, egli dovrà passare per lo stesso luogo, il che significa che dovrà subire le conseguenze della sua azione.  L’esempio del vetro rotto è un’immagine per spiegarvi che chi semina pericoli, un giorno ne sarà vittima lui stesso. Scava delle buche? Tende delle trappole lungo la strada? La legge lo
porterà a passare esattamente per gli stessi luoghi e a cadere in quelle buche o in quelle trappole. Avrà allora del tempo per meditare sulle sue disavventure, per lamentarsi che esistono persone cattive e stupide, e per cercare di scoprire chi siano! Ovviamente, non gli verrà l’idea di essere lui stesso quella persona. Chi vive dicendo continuamente: “Dopo di me il diluvio!” crea tutte le difficoltà di cui un giorno o l’altro la sua esistenza sarà ingombra.” Omraam Mikhaël Aïvanhov

Equilibrio tra spirito e materia


“All’origine di tutti gli squilibri, vi è quello fra lo spirito e la materia; è questo squilibrio a trascinare con sé tutte le altre forme di anomalie che si possono constatare nell’esistenza.
Lo spirito e la materia sono due poli, due principi con i quali l’essere umano deve saper agire intelligentemente, ragionevolmente, prudentemente. Se non è raccomandabile imitare l’occidente, che ha messo l’accento sulle acquisizioni materiali a detrimento dell’anima e dello spirito, non va seguito neppure l’esempio dell’India e di altri paesi che per secoli hanno accettato di vivere nella miseria, nella carestia e nella malattia. Occorre dare allo spirito e alla materia il loro rispettivo posto: non rifiutare la materia, ma renderla sottomessa e obbediente allo spirito. È in questo equilibrio fra spirito e materia che gli individui e le società trovano la pienezza.”

Omraam Mikhaël Aïvanhov

Una piantina


di Alfredo Sole dal carcere di Opera Milano

L’uomo riesce a sopravvivere e adattarsi nei luoghi più impensabili e ostili di questo pianeta traendo la sua forza dalla necessità, ma anche dal piacere di immergersi nell’ignoto. Anche se spesso è solo necessità di sopravvivenza. Quel bisogno biologico di completare il proprio ciclo della vita. A tutti i costi! Tutto ciò che è in natura sente quel bisogno innato di continuare ad esistere.
Ho una piantina di basilico immersa in un bicchiere d’acqua sul davanzale della finestra. All’inizio era un intero mazzetto ma lentamente è appassito a morte tranne una rametta. La sua forza di sopravvivenza è stata così forte da mettere radici pur non essendo una pianta acquatica. Si è adattata! Tra molte è stata la più forte e il suo premio è stato la fioritura. Sì perchè non solo si è ostinata a vivere ma è anche fiorita. Ha perso il suo bel colore verde lasciando il posto a un verde pallido ma è il prezzo da pagare per vivere in un ambiente che non è di certo il suo.
Stavo per staccargli alcune foglie per insaporire la mia pietanza quando ho visto i suoi fiori bianchi appena sbocciati, così ho deciso che tutto sommato la mia pietanza non necessitava di foglie di basilico. Quella sua grande forza e ostinazione a sopravvivere mi hanno impedito di “farle del male”. È incredibile, ma senza volerlo la piccola e ostinata piantina mi ha comunicato tanta forza. Ammiro la sua capacità di continuare il suo ciclo vitale immersa in un elemento che non è il suo. È riuscita a farsi crescere delle radici capaci di assorbire nutrimento solo dall’acqua. Sembra dire (se potesse parlare…): “non importa dove mi trovo adesso, il mio scopo è vivere ed io vivrò!”.
Come non ammirare tanta forza, come non invidiare tanto spirito di sopravvivenza.
Le mie radici sono state tranciate da molto tempo ma quasi senza rendermene conto ne sono spuntate altre capaci di prelevare e filtrare linfa vitale dal cemento armato.
Un concetto cupo per definire l’ostilità a continuare ad esistere ma attorno a me c’è solo cemento e ferro, non posso attingere ad altro.
Farò in modo che, al pari della mia piantina, possano in me germogliare anche i fiori. Il mio premio alla sopravvivenza sarà la fioritura della conoscenza.
Sarò pur sempre immerso in un bicchiere di cemento armato, ma ostinato a completare il ciclo della vita.
Se una debole piantina può diventare così forte da fiorire in un bicchier d’acqua, l’uomo può essere capace di innalzarsi a un livello superiore della sua mera esistenza. E con la fioritura del proprio essere può dar vita a una radicale trasformazione del proprio IO.
E tutto questo solo osservando una piantina? Sì, cerco di trarre insegnamento da tutto ciò che mi circonda. Se l’uomo imparasse a osservare meglio sarebbe migliore. Ma purtroppo si limita a guardare senza vedere e con la presunzione di essere migliore si pone al centro dell’universo.

da http://www.informacarcere.it

Dal carcere di Spoleto: l’inasprimento del regime di 41bis


Il pacchetto sicurezza, approvato recentemente dal governo Berlusconi, prevede, fra le altre misure, l’inasprimento del regime 41bis.

La spietatezza di questo inasprimento non risiede, come si può pensare, nella esigenza di maggiore sicurezza ma nella cattiva coscienza degli intransigenti dell’ultima ora impegnati a misurarsi in fughe in avanti ostentando una innocente e sdegnata intolleranza e murando vivi i mafiosi, i soli colpevoli da offrire alla bulimia dell’opinione pubblica.

A nessuno come a questi signori si adattano le parole di Kalhil Gibran a proposito del delitto e del castigo. Lo Stato ha dimenticato di essere pianta e ha risposto con furore vendicativo alla stagione di follia mafiosa, scivolando nella deriva di una crudeltà gratuita e abdicando a un ruolo equilibratamente severo. Con questo spirito Esso  ha istituito, e ancor di più ne chiede l’inasprimento, il 41bis, misura disumana che contraddice tutti gli standard solennemente proclamati dalla Costituzione italiana e dalla Dichiarazione internazionale sui diritti dell’uomo, e incongruente sul piano logico. Se infatti in regime di 41bis il detenuto ha continuato a mantenere rapporti con la criminalità organizzata, che senso ha il mantenimento di un regime che ha fallito? E se invece il regime non ha fallito e ha interrotto i collegamenti, che senso ha inasprirlo? In verità esso è solo la testimonianza del fallimento dello Stato incapace di controllare le maglie della detenzione ordinaria e di garantire assieme alla sicurezza la tutela della dignità dell’individuo e l’impedimento di inutili angherie.

Ai disinvolti liquidatori delle vite altrui raccomandiamo questa lettura terribile ma istruttiva della lettera di un detenuto in regime di 41bis: “Dopo i primi quindici minuti consentiti il bambino mi fu sottratto e affidato alla madre. Egli mi sorrise da dietro il vetro divisorio e tese le braccia verso di me , incontrò il vetro e batté le mani contro di esso credendo in un gioco, sorrise ancora e ancora batté le mani, poi il sorriso si tramutò in un singulto, le mani continuarono a battere e poi a battere sempre più freneticamente fino a quando un pianto disperato sgorgò dai suoi occhioni spalancati e sgomenti”.

Questa lettera merita di essere iscritta nel cippo che un giorno verrà eretto alla memoria del 41bis, come dell’ergastolo, altro prodotto della stupidità umana.

L’ergastolo è la condanna a una finzione di vita che parla solo a stessa, monca, innaturale, senza connessioni col resto del mondo, è il destino degli uomini che hanno nello sguardo una rassegnata disperazione e fanno della finzione una realtà vissuta tenacemente progettando i loro sogni, coltivando le loro speranze, sbirciando fuori dalla loro emarginazione e aspettando un segnale di interesse per la loro sorte, di percepire che a qualcuno importi della loro vita, che qualcuno li consideri e per ciò stesso, perché sono considerati, esistono. Ed esistono e impongono la loro esistenza rivendicando il diritto alle loro intelligenze urticanti e provocatorie contro la beceraggine di quanti vogliono seppellire i loro sogni revocando indubbio l’autenticità del loro sentire e infliggendo loro, assieme ad un futuro negato, l’astio perché osano.

Non susciti scandalo l’accostamento alla condizione dell’ergastolano a quella vissuta per diciassette anni dall’innocente Emanuela Englaro. Veltroni ha descritto “il corpo di quella ragazza che il dolore, l’assenza di relazione vitale. Che un tempo trascorso senza la gioia di sentire il rumore dei propri passi e di quelli degli altri, avrà reso irriconoscibile”.

Ebbene gli ergastolani sono ciascuno una storia di sofferenza che, dopo decenni, ricordano appena le proprie origini, sono solo gli avanzi dolenti e confusi dell’antico contesto, ossessionati piuttosto che confortati dal rumore dei propri passi, anch’essi privi di relazioni vitali, anch’essi ormai irriconoscibili e costretti a vivere una vendetta inutile.

“Cercare l’originalità della vendetta è un’impresa vana nella misura in cui tutti i personaggi sono presi in una spirale di vendetta, possiamo dire che è maturata una tragedia senza inizio e senza fine” (La nausea della vendetta di Renè Girard).

L’ergastolo, come la vendetta, è una tragedia senza fine in cui l’agostiniano tempo è assente nell’anima di uomini senza più passato, presente e futuro, in cui si dimentica che vittima e carnefice sono i fili intrecciati di un’unica fune, che “insieme sono intessuti il filo bianco e il filo nero e, se il filo nero, si spezza, il tessitore dovrà esaminare la tela da cima a fondo e provare di nuovo il suo telaio” (Kahlil Gibran).

di Nino Mandalà

Dal carcere di Spoleto: Carmelo Musumeci scrive a Roberto Gervaso, che gli risponde, sulla barzelletta di Berlusconi sugli ergastolani


Ho ricevuto questa lettera da Carmelo Musumeci che ho copiato e che pubblico:

Signor Gervaso, il presidente del Consiglio ha raccontato una barzelletta di pessimo gusto su noi ergastolani. Forse non sa, se lo faccia spiegare dai suoi famosi e bravi avvocati che in Italia esistono due tipi di ergastoli. Uno normale, che ti dà la speranza ma non la certezza, un giorno, di poter uscire; un altro, l’ergastolo ostativo, che non te ne dà alcuna se non passi il tuo ergastolo a qualche altro.

Io non so che tipo di ergastolo avesse il Gesù del Cavaliere nella barzelletta che ha raccontato ma le assicuro che se aveva quello ostativo non sarebbe riuscito neanche lui se non avesse fatto come Giuda.

L’ergastolano ostativo, per tornare a essere un uomo libero, può solo donare la propia vita alla morte.

Raccontare barzellette sugli ergastolani è come ridere dei morti perché in Italia con l’ergastolo ostativo non c’è speranza. E non ha scelta. O hai solo quella di togliere la libertà a un altro per avere la tua.

Se siamo uomini non possiamo vivere senza speranza. Solo gli animali ci riescono. La criminalità organizzata non si sconfigge solo col pentitismo; si sconfigge soltanto con l’abolizione dell’ergastolo ostativo.

L’ergastolo è una pena di morte a gocce ed è sbagliato dire che assomigli alla morte, perché è molto peggio. In questo modo continui a vivere, ma smetti di esistere. Ti lascia la vita, ma ti ammazza il futuro per il futuro.

Lo sa cos’è la cosa più brutta nella giornata di un ergastolano? Che domani inizia tutto daccapo, che sarà una giornata come ieri, come sarà domani o dopodomani, come sarà sempre. Un ergastolano ostativo non può fare altro che prepararsi a morire. Il capo del governo farebbe a non raccontare più barzellette sugli ergastolani.

Ed ecco la risposta di Roberto Gervaso sul quotidiano “Il Messaggero”:

Caro Musumeci, lei ha ragione: barzellette sugli ergastolani, come su chi soffre, non se ne raccontano, non se ne devono raccontare. L’uomo colpevole, se la sua colpa è accertata, va condannato, ma rispettato. E’ un uomo come gli altri, e gli uomini, tutti gli uomini, anche i più malvagi, vanno spiritualmente soccorsi. Lo so che la vita è una giungla, ma bisogna fare di tutto per renderla più sopportabile. Anche a chi ha sbagliato.

Io non so perché lei sia finito all’ergastolo, quali reati abbia commesso. Ma questo non m’impedisce di giudicare l’ergastolo ostativo come un errore, un grande errore. Al’uomo si può togliere di tutto, anche la vita, con un colpo di pistola alla nuca o affidandolo alla sedia elettrica o un plotone di esecuzione (delitto esecrato perché la vita è sacra, come, del resto, la morte, ma non quella inflitta dagli uomini). Si può togliere tutto a un uomo, meno la speranza. La speranza gli va lasciata sempre, perché senza speranza è la disperazione. La fine di tutto, la morte in terra. E questo non è giusto, questo non è umano, questo è un’infamia.

E’ difficile capire le cose, le emozioni, le sensazioni, le disperazioni che non si sono provate. E’ difficile, specialmente nel dolore, mettersi nei panni degli altri. In coloro che hanno l’animo straziato, la coscienza che non si rassegna all’ineluttabile.

Ci sono reati odiosi, ci sono reati orribili, che indignano e disgustano la società e ne commettono ogni giorno: chi spaccia droga, che stupra un minorenne, chi commette delitti in serie, ma il riscatto morale non si può negare a nessuno. L’ergastolo normale basta perché, come ho detto, non ti toglie la speranza;      quello ostativo va cancellato dai codici.

Noi non sappiamo perché alcuni di noi siano portati a delinquere, altri a commettere errori veniali. Senza le leggi, il mondo sarebbe in balia dei lupi, degli assassini, de prevaricatori, ma le leggi devono tener conto che l’uomo è fallibile, l’uomo può venir meno ai doveri verso la società, e anche violarli in modo sanguinario. Non chiediamo per lui comprensione, ma offriamogli, con i codici, e anche con un trattamento più equo, uno spiraglio di futuro. Anche se lascerà la vita in carcere perché morirà prima di aver scontato l’ergastolo normale, non togliamogli la fiducia. Lasciamogli assaporare quel ritorno alla vita che forse, non avverrà mai, ma che potrebbe anche avvenire.

Ignoriamo, perché la conoscenza del futuro ci è negata, quello che potrebbe accadere anche a noi, ma ricordiamoci che qualunque cosa potrebbe accaderci. Tutti abbiamo una coscienza, sentimenti e risentimenti e, se tradiamo quella, alla resa dei conti, auguriamoci di trovare chi ci capisce, chi ci dà una mano, senza risparmi sulla pena che meritiamo. Che non deve essere l’ergastolo ostativo.

Niente più carcere di Augusta, una riflessione dal carcere di Opera (MI)


 Qualche giorno fa ho ricevuto una lettera da un mio compagno detenuto in un altro carcere. Un avvocato di un detenuto gli porta la notizia che l’abolizione dell’ergastolo è passata alla Commissione Giustizia traendo spunto dalla proposta del Codice Pisapia. Giornata felice per quei compagni destinatari di una notizia così travolgente. Tutti ad ascoltare i dibattiti televisivi dei politici, giorno dopo giorno, nella speranza di sentire quello che ognuno di loro si augurava. Nulla! Nessun riferimento a ciò che si agognava…
Per qualche giorno i cuori dei miei compagni avevano ricominciato a battere, avevano di nuovo, anche se per poco, sentito la vita scorrergli nelle vene.
Li ho immaginati mentre ognuno di loro faceva progetti di vita, che scrivevano alla famiglia dicendo: Aboliscono l’ergastolo! Finalmente avrò una data sul calendario per tornare a casa tra le vostre braccia e il vostro amore…
Tutta questa felicità si è spenta in pochi giorni. Le loro anime ritorneranno nell’oblio della certezza di una pena che non finirà MAI. Cosa è successo? Niente di “speciale”. È tutto nella norma. È così che noi viviamo, apparentemente rassegnati al nostro destino ma non appena intravediamo un barlume di luce, eccoci precipitarci verso quello che si rivelerà essere l’ennesima illusione. Colpa di un avvocato che ha detto una “fesseria”? Del suo cliente che ha frainteso? Non importa di chi è la colpa, la verità è che alla fine abbiamo bisogno di questi fraintendimenti, ne abbiamo bisogno per spezzare, anche se per poco, quella certezza che divora il nostro essere, la certezza del fine pena mai! Illusioni che come le onde si infrangono sugli scogli lasciandoti il sapore salmastro in bocca, ma necessarie per rimanere confinati nel buio, un buio irto di insidie, che non fa altro che indurti alla rabbia, di senso di impotenza che diventa la dipendenza di quell’Io che nessuno vorrebbe più essere. Pietà? No, non è questo che chiediamo, ciò che vogliamo è il diritto alla vita che non è il diritto a vivere. Noi viviamo e continuiamo a vivere. La vita, invece, è l’ESISTENZA! Ciò di cui siamo stati privati.
Marzo 2010

Di Alfredo Sole

“Come acqua”


di Tiziana Mignosa

 Quando il dolore è troppo

diventa come il nero pesto dell’inchiostro

anima come acqua

di corvino l’esistenza tinge.

Ora che l’adesso ha spento l’interruttore al tempo

e il sentimento raccatta punti di domanda

ti ritrovi ancora a rovistare

tra scarti di tepore e fiele.

Negli spaziosi luoghi dell’assenza

smarrita vivi l’ingorgo della mente

pensieri stropicciati

tenerezza e piombo.

Ma la ragione ti porta ad asserire

che anche se il fato ribaltasse il gioco

troppi sono i nei accatastati

che tu comunque non vorresti niente.

Il grande mistero del corpo sommerso


di Roberto Puglisi

L’uomo che si sentiva vicino alla fine non rinunciò al mare. Alle sue passeggiate, sul bagnasciuga. Chi scrive lo guardava fisso, cercando di imparare qualcosa di fondamentale, mentre lui lanciava sassi tondi in acqua, uno dopo l’altro. Il suo corpo cominciava a somigliare al destino dei sassi. Un ultimo balzo di vita, prima di una rapida immersione nella  spuma. Il dolore del corpo sommerso, del corpo che si libra su un mare di dolore e affonda, non si racconta. E’ un’esperienza incomunicabile. Viene  subita nella singolarità di un organismo, nel chiodo della sofferenza,  unica e inesprimibile. Infatti, inesprimibile è la morte, di cui il  dolore è un assaggio.
Salvatore Crisafulli propone quesiti irrisolvibili, diversi da Eluana Englaro. Come Eluana. Non si potrà mai legiferare con esattezza su una teoria condivisa del corpo che sta male. Non esisterà mai  una norma generale e collettiva. I corpi segnati sono roccaforti chiuse,  senza  ponti levatoi. Non possono spiegarsi, se non con labili ed eccentriche parole,  non possono trasmettersi alcuna notizia concreta del disastro imminente.
Ecco perché ogni norma sul male, sulla fine della vita, sull’argomento  supremo, sarà inevitabilmente una coperta corta o lunga, a seconda del  punto di vista. Pure la volontà individuale è un riflesso che muta. Quello che ho scritto quando ero lucido, varrà ancora dopo pochi secondi di precipizio nell’incoscienza e nel buio che gli altri chiameranno esistenza? Quando il bagliore filtrerà appena da una coltre di assenza e rarissime presenze,  chi potrà mai essere l’interprete giusto per un vuoto così pieno di significati?
Eppure, la storia di Salvatore Crisafulli, paraplegico e sconfitto dal suo corpo, la storia di suo fratello Pietro che annuncia e sospende un viaggio della morte, la storia di denuncia di un sistema che non assiste il penultimo passo perché non lo comprende e di uno sfinimento che morde, riscattano il nostro sonno in transito con un’eco che non vogliamo ignorare.
Livesicilia propone una riflessione non comoda sul tema, uno sguardo dentro occhi che hanno la fine come pupilla e la vita tutta intorno. E non è detto che il centro sia la zona più significativa dell’orizzonte.
Di quei sassi lanciati in acqua, di quelle passeggiate sul bagnasciuga con suo padre, chi scrive ricorda soprattutto quel tanto di luminoso che conduce alla vita, tutta intorno. La schiuma sollevata dal sasso, il passaggio radente dei gabbiani, l’odore  delle alghe nel mare.

da www.livesicilia.it