Dopo il recente episodio di cui hanno parlato i mezzi di informazione di un giovane detenuto ripetutamente violentato da tre compagni di cella oggi mi è arrivata questa lettera dal carcere di Augusta con le riflessioni di Francesco sulla sessualità in carcere.
Caro amico lettore,
al momento attuale l’istituzione carceraria assolve due funzioni, quella di deterrenza e quella di neutralizzazione.
Secondo il dettato costituzionale sul concetto di pena, dovrebbe altresì assolvere una funzione rieducativa, ma questa è pura utopia perché pensare di rieducare una persona isolandola per 22 ore al giorno e privandola di tutto è inconcepibile.
La pena si caratterizza essenzialmente come privazione; nel caso della reclusione questo meccanismo non si arresta alla primaria privazione della libertà ma va molto oltre postulando norme, strutture, sistemi di vita, situazioni differenziali rispetto alla normalità dei rapporti umani liberi.
La privazione contiene in sé la sospensione dei rapporti umani e delle relazioni personali. Eppure da sempre il legislatore non ha interrotto del tutto le vicende umane tra le strutture penali e il contesto socio-affettivo esterno.
L’individuo che viene assoggettato alla reclusione non sparisce dal mondo senza lasciare traccia di sé: ha diritto a colloqui con i familiari, quindi implicitamente si riconosce l’imprescindibile esigenza di avvicinamento del recluso al mondo esterno, in particolare a quello dei suoi affetti.
Il soggetto che oltrepassa il portone di un carcere perde la sua dimensione di uomo e la sua dignità. La sua volontà viene chiusa a chiave come il suo corpo.
Con il passare del tempo in carcere si subiscono gravi alterazioni e mutilazioni in merito soprattutto alla vista, al linguaggio, al movimento, al sesso.
Esiste un gravissimo problema sessuale in carcere di fronte al quale si osserva indifferenza, si preferisce schivare l’argomento, si preferisce non parlare. Invece il problema è terribilmente serio e merita un’attenta, legittima rivalutazione contro il silenzio della legge e una opportuna considerazione da parte degli esperti della materia penitenziaria.
Permettere ai detenuti di vivere i propri affetti, aprire le carceri alla sessualità è un tentativo concreto di umanizzare la detenzione ed è un segnale importante di prospettiva per i detenuti e per i familiari, perché negare, impedire a un detenuto la sessualità comporta, sul piano sostanziale, privarne anche la moglie o la fidanzata o la compagna che, in definitiva, non hanno alcuna colpa da espiare.
Interrompere il flusso dei rapporti umani a un singolo individuo significa separarlo dalla sua stessa storia personale, significa amputarlo di quelle dimensioni sociali che lo hanno generato, nutrito e sostenuto.
Il carcere demolisce, anno dopo anno, quella che si potrebbe definire “l’identità sociale” del detenuto. Tutti sono concordi nel riconoscere che l’attività sessuale nell’uomo rappresenta un ciclo organico che non è possibile interrompere senza determinare nel soggetto, in ogni caso, dei traumi sia fisici che psichici.
In carcere il tempo si dilata, gli spazi si restringono.
Prevale la solitudine, l’emarginazione.
La realtà è allucinante, piena di desolazione.
Si sente imponente il bisogno di amare e di essere amato.
Però intorno o vicino non c’è nulla a cui dedicare i propri sentimenti.
Il carcere è un momento di vertigine. Tutto si proietta lontano: le persone, i volti, le aspirazioni, le abitudini, i sentimenti che prima rappresentavano la vita schizzano all’improvviso da un passato che appare subito remoto, lontanissimo, quasi estraneo.
Il carcere così diventa un inferno dove prevaricano le inibizioni e le repressioni.
Il detenuto viene rinchiuso in cella. Viene rinchiuso il suo corpo ma anche la sua stessa vlontà, i suoi stessi desideri.
Tutto viene deciso e gestito da altri.
La sessualità, invece, è l’unico aspetto della vita di relazione dei detenuti che non risulta “normativizzata” da regolamenti o da disposizioni ministeriali.
Quanto sopra crea inevitabilmente le premesse per il realizzarsi di inconfessabili arbitri.
Risulta ormai comprovato che molti individui che fino al momento di essere associati al carcere avevano avuto ed espresso un comportamento sessuale normale, a causa della promiscuità della vita carceraria, del turpiloquio e delle oscenità di cui diventano spettatori, mano a mano che si adattano all’ambiente, vedono affievolirsi i loro freni inibitori e crollare i loro principi morali, lasciando che l’istinto incontrollato prevalga fino a giungere alle forme più basse di degradazione.
Masturbazione (eccitata dalle scene di giornali pornografici che rivestono le mura delle celle e soprattutto della toilette), fellatio, pederastia, saffismo, rappresentano pratiche ben note negli istituti penitenziari.
In carcere si subisce un grossolano processo di depenalizzazione e uno parallelo di adattamento all’ambiente contraddistinto dal codice della subcultura.
Per reagire allo stato di repressione, di continenza coatta, la maggior parte dei detenuti si crea, si ritaglia un proprio mondo sessuale tappezzando la propria cella con giornali pornografici (che risultano essere i giornali più acquistati e richiesti in carcere) cercando di coinvolgere i compagni con narrazioni fantastiche riferite all’attività sessuale precedente alla carcerazione.
Dopo un po’ di tempo il sesso diventa un’ossessione.
Prima si ricorre alla masturbazione anche 2-3 volte al giorno. In seguito questa pratica non fornisce più l’appagamento delle proprie soddisfazioni. Nell’ambiente carcerario la sessualità inibita erotizza tutta la vita del recluso e ne accentua il richiamo biologico con un ritmo intensamente dinamico.
In questa società anomala che è il carcere, il detenuto, non appena oltrepassa il portone del carcere, deve abituarsi, volente o meno, a tanti cambiamenti piccoli o grandi. Mangiare seduto su una branda, muoversi poco come se si trovasse su una navetta spaziale, assuefarsi a cibi non usati prima. Tutto in presenza di altri, anche dormire in un’ora insolita e con la luce accesa. Nei primi giorni, nei primi mesi il sesso non esiste. Lentamente avviene il risveglio. La lunga astinenza sessuale inizialmente determina sovreccitazione permanente con stati reattivi dal punto di vista clinico (eccitazione, macerazione del pensiero, costruzione ideativa di situazioni scabrose, stato allucinante con violenza di rappresentazione).
Ci si deve riabituare alla passata giovane età con la masturbazione che, però, un po’ alla volta, lascia sempre più insoddisfatti e lo sforzo continuo di richiamare alla mente immagini eccitanti dato il lento trascorrere dei mesi e degli anni e i ricordi che con il tempo sfumano sempre di più. Incomincia allora il periodo delle fotografie pornografiche, non dura poco tempo. E’ corta, e soltanto corta, mentre fisiologicamente, fisicamente, si sente la necessità della carne per completare l’eccitazione. Fino a questo momento il detenuto con la sessualità normale è sempre riuscito a sentire naturale schifo per i discorsi dei detenuti più anziani di anni di carcere, ma da questo istante stesso lentamente avviene lo sgretolamento che lascia disorientato il soggetto stesso. La natura con la sua intrinseca, paurosa potenza, dopo essere stata imprigionata, umiliata, ridotta a monologhi solitari, ha cominciato a muovere i suoi passi lavorando contro ogni volontà, disintegrando e neutralizzando le diverse barriere e ambientando la sessualità sul terreo che è costretta a vivere. Il torrente della sessualità abbatte ogni diga. Se la diga dovesse resistere subentrerebbe la pazzia.
La vita solitaria diventa un tormento perché si ha bisogno di toccare, ma toccare se stessi, per tanti, a un certo punto, non è più soddisfacente, non è più sufficiente. La colpa di questo male va fatta risalire a chi costringe a questa dolorosa, degradante deviazione.
Lo Stato fa chiasso a proibire le droghe e nel contempo costringe gran parte dell’umanità carceraria alla droga sessuale (omosessuale).
I diversivi alla solitudine sessuale non sono molti né originali: televisione e gioco per distrarsi, religione e scuola per sublimarsi, lo sport per stancarsi.
Un altro punto da considerare è questo: in carcere non penetra il meglio della realtà sociale nel comportamento profondamente “eticizzato”. Vi entrano soggetti labili con i difetti e le esperienze maturate nel campo della deviazione. Pertanto non si vuole, non si può e non si deve chiudere gli occhi sui problemi , sui bisogni, sui drammi degli uomini ristretti in carcere. E’ difficile potersi illudere che questi problemi scompaiano o si risolvano da soli, per quanto comodo sia talvolta non vedere e invece sia amaro, tormentoso sapere o capire.
Il problema dell’affettività in carcere merita attenzione e rispetto perché vi confluiscono e la animano gli istinti, le sensazioni, le emozioni, i sentimenti radicati in ogni uomo. L’affettività è insopprimibile bisogno di vita, un po’ come respirare, nutrirsi, dormire. Mutilando l’umanità, comprimendo la natura oltre un certo limite, non rimane che la patologia della rinuncia o la patologia della degenerazione. In modo ineluttabile i detenuti risultano consegnati a una dimensione esistenziale monocromatica, dimezzata per l’assenza dell’altro sesso che solo dà senso al proprio. Ne derivano gravi tensioni, inquietudine, frustrazioni, deviazioni, perversioni, tendenze ed esposizione alla violenza. Si accentuano le turbe psicosomatiche.
Allora è forse il momento di chiedersi se fra quei bisogni e quei diritti dei detenuti vi siano anche il bisogno e il diritto di amare e di essere amati secondo le soluzioni adottate da paesi di grande civiltà penitenziaria come la Danimarca, l Norvegia, la Svezia, l’Olanda, ecc.
In carcere si va perché si è punti e non per essere puniti.
La pena rilevante della privazione della libertà e qualunque patimento ulteriore, qualunque misura di afflizione non hanno senso, scopo e giustificazione. Offendono soltanto la ragione e l’umanità. E’ forse anche triste e mortificante condannarli a inseguire la giustizia sulla strada della sofferenza piuttosto che su quella dell’umanità, della civiltà, della speranza.
Esistono altresì fondamentali interessi di difesa sociale. Il carcere deve essere in grado di restituire alla società uomini e donne non dico migliorati ma almeno non peggiorati e degradati nella loro dignità. Molte e tante sono ormai le denunce corredate scientificamente dei guasti psicologici che l’astinenza comporta sulla personalità del recluso, tutte concorsi nel riconoscere che l’attività sessuale nell’uomo rappresenta un ciclo organico che non è possibile interrompere senza determinare nel soggetto, in ogni caso, dei traumi sia fisici che psichici. Al detenuto va riconosciuto il diritto alla sessualità libera e consapevole attraverso visite periodiche dei coniugi e dei conviventi.
La vita sessuale e affettiva, ricca di sfumature e di elementi veramente armonizzati e fluttuanti, è un valore costitutivo della dignità di ogni uomo.
Forse sono ben pochi coloro che hanno capito che per i detenuti anche il carcere più moderno, fornito di tutti i confort (doccia, televisione, giornali), rappresenta una sofferenza indicibile per la privazione della libertà fine a se stessa.
I “permessi dell’amore” dovranno rappresentare forse la prima, civile risposta a questo incredibile pianeta di sofferenze e privazioni dal momento che le riviste pornografiche o l’immaginazione non possono colmare i gravi vuoti determinati dalla mancanza d’affetto e d’amore.
Il carcere è malattia.
Il carcere è esso stesso una sindrome, una sindrome sociale.
Non esistono, al momento attuale, risposte concrete ed efficaci in sede operativa, ma solo tentativi di approccio per tentare di portare a risoluzione il problema della sessualità.
Credo che l’essersi soffermati a riflettere su un aspetto così significativo dell’istituzione carceraria possa risultare utile per una legittima problematizzazione del fenomeno.
Caro amico lettore, anche questo è un segnale importante nella prospettiva di un carcere più civile e umano.
Vi lasco riflettere!