Portate via i bambini da Palermo


di Roberto Puglisi

Palermo si è abituata al cassonetto stracolmo. Lo coccola, lo vezzeggia. Non sente nemmeno più la puzza. Tutto è compiuto.
Sperimentiamo un nuovo tipo di cittadinanza: la sottomissione dei vinti. Le rivolte sporadiche contro chi governa sono le scosse elettriche di un minuto. Questa non è più una città, è un agglomerato urbanistico. E’ una congregazione di case e persone che casualmente si scontrano. E’ un luogo senz’anima e non è neanche bello, secondo le promesse della canzone. Palermo è oscena. L’oscenità non risiede soltanto nella putrefazione delle cose, sta tutta nella nostra assuefazione. Lo spettacolo è visibile, le informazioni ci sono oltre ogni aspettativa. I cassonetti che scoppiano – per citare uno dei tanti esempi di decadimento – sono il sottofondo d’accompagnamento dei nostri spostamenti in macchina. Da Mondello al centro, il pattume si estende con apprezzabile coerenza. Dice: il sindaco, certo. Diego Cammarata dovrebbe dichiarare fallimento, dimettersi e non rilasciare interviste contro una fantomatica campagna di odio, orchestrata da ignoti cospiratori ai suoi danni. Il risentimento che lo circonda è il frutto di una gestione amministrativa scellerata. Questo non giustificherà mai alcuna reazione violenta, beninteso. Ma il minimo che si possa provare per il primo cittadino – sul piano squisitamente politico – è un feroce dissenso dalle azioni che compie e dall’immagine che offre. Siamo ben oltre lo sconsiderato ottimismo del capitano del Titanic che non si avvide dell’iceberg. Siamo alla colata a picco, condita da sorrisi incomprensibili. E mancano – la solita beffa – i soldi per l’orchestrina.
L’attrazione orrida della munnizza di Palermo è un fatto più forte di qualsiasi mistificazione o bugia di Palazzo delle Aquile. Tuttavia, accanto al sindaco non brillano Alcide De Gasperi in sedicesimo. Il prossimo disgraziato inquilino di Villa Niscemi avrà un compito immane. E in giro non scorgiamo nemmeno un quarto di ciò di cui Palermo avrebbe bisogno. La crisi del potere è la crisi della politica. La destra ha strangolato la speranza, presentando un candidato non all’altezza, nonostante una personale buonafede di fondo che riconosciamo a Diego Cammarata e che rappresenta addirittura un’aggravante, un indice puntato contro la sua incapacità gestionale. La sinistra ha strangolato la speranza, non avviando per tempo una riflessione sulla fine e sulla successione dell’esperienza orlandiana. Destra e sinistra, se non pari, sono almeno compartecipi del disastro annunciato.
Uomini, topi e munnizza, ammucchiati alla rinfusa. Questo offre Palermo felicissima che ha perso la sua dignità, intrappolata in una grotta da un malvagio pifferaio magico. Solo un’ultima grazia chiederemmo allora al commendator pifferaio. Torni indietro, suoni il piffero e – come nella favola – porti via tutti i bambini. Nessun bambino merita di crescere qui, nel cuore disperato di Hamelin-Palermo.

da http://www.livesicilia.it

A.A.A. annuncio: regalo la mia verginità!


di Loretta Dalola

Ovvero come vendere se stessi dando la propria dignità come omaggio per l’acquisto.

   Donne di tutto il mondo tranquillizzatevi! Dopo anni di storia contro le troppe ingiustizie subite dalle donne,  finalmente, abbiamo raggiunto l’obiettivo tanto agognato ovvero quello della parità tra uomo e donna nel campo dell’imbecillità.

 Vi garantisco che, come donna, mi ritengo  profondamente offesa se, dopo la pagella delle prestazioni sessuali stilata da una donna, ora arriva anche il libro emblema del trionfo della stupidità scritto da un’altra donna,  intitolato:  “C’era una volta un presidente. Ius primae noctis”.

 

 Ancora una volta Pomeriggio 5, accende il dibattito surreale  sul degrado intellettivo femminile.

   Silvia Valerio, l’autrice, confessa di essere vergine e di volersi donare al leader iraniano Ahmadinejad. Questa ragazza di 19 anni, disposta  a provare la sua illibatezza attraverso adeguata visita ginecologica, anche in diretta…ha deciso di regalare la sua verginità ad un uomo  che attualmente per noi occidentali, incarna tutto quello che di negativo e pericoloso possa esserci.

 Dichiara che la sua è un vocazione, in quanto : “io vivo nel rispetto del mio fiore” e lo voglio dare a  quest’uomo, perché l’unico maschio rimasto in circolazione! Se lui fosse disposto per me sarebbe un onore”!

 Non bisogna in effetti essere luminari né filosofi per rimanere allibiti per affermazioni del genere, di fronte alle quali non rimane che gettare sguardi ora confusi, ora sarcastici, in quanto non c’è molto da controbattere, proprio perché il substrato di inciviltà che vi traspare è talmente palese, che si rimane senza parole e diventa assolutamente necessario citare Bertrand Russell : “La causa principale dei problemi è che al mondo d’oggi gli stupidi sono strasicuri, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi”.

 A parte il fatto che l’uomo di cui stiamo parlando, non mi sembra un emblema maschile a cui aspirare visto che è il presidente dell’Iran, (noto paese mussulmano che non si dimostra molto aperto nei confronti della donna), che ha più volte annunciato che vorrebbe annientare lo stato di Israele, che ha espresso il desiderio di produrre armi di distruzione e  che  ha represso  col sangue tutte le richieste pacifiche di libertà.

 Giustamente Matteo Salvini,  ha dichiarato “meno male che Hitler è morto sennò la darebbe pure a lui”!

 A nulla sono valse le rimostranze di un pubblico indignato, si è dimostrata sorda anche alle affermazioni riguardanti il fatto che il concetto di verginità è uno stato inventato dagli uomini con il patriarcato che voleva stabilire l’esattezza di appartenenza del figlio in questioni ereditarie.

 Non mi resta altro da fare che  supplicare la categoria maschile che  lasci vergine questa donna per tutta la vita, salvandoci così dalla terribile disgrazia di una sua eventuale procreazione  con conseguenze nefaste di diffusione della specie.

 Ritengo di aver esaurito l’argomento perché non degno di altro.

 A certe affermazioni, si finisce per rimanere in silenzio, con un forte senso di nausea.

 da www.lorettadalola.wordpress.com

“La sessualità in carcere”, riflessioni di Francesco dal carcere di Augusta


Dopo il recente episodio di cui hanno parlato i mezzi di informazione di un giovane detenuto ripetutamente violentato da tre compagni di cella oggi mi è arrivata questa lettera dal carcere di Augusta con le riflessioni di Francesco sulla sessualità in carcere.

Caro amico lettore,

al momento attuale l’istituzione carceraria assolve due funzioni, quella di deterrenza e quella di neutralizzazione.

Secondo il dettato costituzionale sul concetto di pena, dovrebbe altresì assolvere una funzione rieducativa, ma questa è pura utopia perché pensare di rieducare una persona isolandola per 22 ore al giorno e privandola di tutto è inconcepibile.

La pena si caratterizza essenzialmente come privazione; nel caso della reclusione questo meccanismo non si arresta alla primaria privazione della libertà ma va molto oltre postulando norme, strutture, sistemi di vita, situazioni differenziali rispetto alla normalità dei rapporti umani liberi.

La privazione contiene in sé la sospensione dei rapporti umani e delle relazioni personali. Eppure da sempre il legislatore non ha interrotto del tutto le vicende umane tra le strutture penali e il contesto socio-affettivo esterno.

L’individuo che viene assoggettato alla reclusione non sparisce dal mondo senza lasciare traccia di sé: ha diritto a colloqui con i familiari, quindi implicitamente si riconosce l’imprescindibile esigenza di avvicinamento del recluso al mondo esterno, in particolare a quello dei suoi affetti.

Il soggetto che oltrepassa il portone di un carcere perde la sua dimensione di uomo e la sua dignità. La sua volontà viene chiusa a chiave come il suo corpo.

Con il passare del tempo in carcere si subiscono gravi alterazioni e mutilazioni in merito soprattutto alla vista, al linguaggio, al movimento, al sesso.

Esiste un gravissimo problema sessuale in carcere di fronte al quale si osserva indifferenza, si preferisce schivare l’argomento, si preferisce non parlare. Invece il problema è terribilmente serio e merita un’attenta, legittima rivalutazione contro il silenzio della legge e una opportuna considerazione da parte degli esperti della materia penitenziaria.

Permettere ai detenuti di vivere i propri affetti, aprire le carceri alla sessualità è un tentativo concreto di umanizzare la detenzione ed è un segnale importante di prospettiva per i detenuti e per i familiari, perché negare, impedire a un detenuto la sessualità comporta, sul piano sostanziale, privarne anche la moglie o la fidanzata o la compagna che, in definitiva, non hanno alcuna colpa da espiare.

Interrompere il flusso dei rapporti umani a un singolo individuo significa separarlo dalla sua stessa storia personale, significa amputarlo di quelle dimensioni sociali che lo hanno generato, nutrito e sostenuto.

Il carcere demolisce, anno dopo anno, quella che si potrebbe definire “l’identità sociale” del detenuto. Tutti sono concordi nel riconoscere che l’attività sessuale nell’uomo rappresenta un ciclo organico che non è possibile interrompere senza determinare nel soggetto, in ogni caso, dei traumi sia fisici che psichici.

In carcere il tempo si dilata, gli spazi si restringono.

Prevale la solitudine, l’emarginazione.

La realtà è allucinante, piena di desolazione.

Si sente imponente il bisogno di amare e di essere amato.

Però intorno o vicino non c’è nulla a cui dedicare i propri sentimenti.

Il carcere è un momento di vertigine. Tutto si proietta lontano: le persone, i volti, le aspirazioni, le abitudini, i sentimenti che prima rappresentavano la vita schizzano all’improvviso da un passato che appare subito remoto, lontanissimo, quasi estraneo.

Il carcere così diventa un inferno dove prevaricano le inibizioni e le repressioni.

Il detenuto viene rinchiuso in cella. Viene rinchiuso il suo corpo ma anche la sua stessa vlontà, i suoi stessi desideri.

Tutto viene deciso e gestito da altri.

La sessualità, invece, è l’unico aspetto della vita di relazione dei detenuti che non risulta “normativizzata” da regolamenti o da disposizioni ministeriali.

Quanto sopra crea inevitabilmente le premesse per il realizzarsi di inconfessabili arbitri.

Risulta ormai comprovato che molti individui che fino al momento di essere associati al carcere avevano avuto ed espresso un comportamento sessuale normale, a causa della promiscuità della vita carceraria, del turpiloquio e delle oscenità di cui diventano spettatori, mano a mano che si adattano all’ambiente, vedono affievolirsi i loro freni inibitori e crollare i loro principi morali, lasciando che l’istinto incontrollato prevalga fino a giungere alle forme più basse di degradazione.

Masturbazione (eccitata dalle scene di giornali pornografici che rivestono le mura delle celle e soprattutto della toilette), fellatio, pederastia, saffismo, rappresentano pratiche ben note negli istituti penitenziari.

In carcere si subisce un grossolano processo di depenalizzazione e uno parallelo di adattamento all’ambiente contraddistinto dal codice della subcultura.

Per reagire allo stato di repressione, di continenza coatta, la maggior parte dei detenuti si crea, si ritaglia un proprio mondo sessuale tappezzando la propria cella con giornali pornografici (che risultano essere i giornali più acquistati e richiesti in carcere) cercando di coinvolgere i compagni con narrazioni fantastiche riferite all’attività sessuale precedente alla carcerazione.

Dopo un po’ di tempo il sesso diventa un’ossessione.

Prima si ricorre alla masturbazione anche 2-3 volte al giorno. In seguito questa pratica non fornisce più l’appagamento delle proprie soddisfazioni. Nell’ambiente carcerario la sessualità inibita erotizza tutta la vita del recluso e ne accentua il richiamo biologico con un ritmo intensamente dinamico.

In questa società anomala che è il carcere, il detenuto, non appena oltrepassa il portone del carcere, deve abituarsi, volente o meno, a tanti cambiamenti piccoli o grandi. Mangiare seduto su una branda, muoversi poco come se si trovasse su una navetta spaziale, assuefarsi a cibi non usati prima. Tutto in presenza di altri, anche dormire in un’ora insolita e con la luce accesa. Nei primi giorni, nei primi mesi il sesso non esiste. Lentamente avviene il risveglio. La lunga astinenza sessuale inizialmente determina sovreccitazione permanente con stati reattivi dal punto di vista clinico (eccitazione, macerazione del pensiero, costruzione ideativa di situazioni scabrose, stato allucinante con violenza di rappresentazione).

Ci si deve riabituare alla passata giovane età con la masturbazione che, però, un po’ alla volta, lascia sempre più insoddisfatti e lo sforzo continuo di richiamare alla mente immagini eccitanti dato il lento trascorrere dei mesi e degli anni e i ricordi che con il tempo sfumano sempre di più. Incomincia allora il periodo delle fotografie pornografiche, non dura poco tempo. E’ corta, e soltanto corta, mentre fisiologicamente, fisicamente, si sente la necessità della carne per completare l’eccitazione. Fino a questo momento il detenuto con la sessualità normale è sempre riuscito a sentire naturale schifo per i discorsi dei detenuti più anziani di anni di carcere, ma da questo istante stesso lentamente avviene lo sgretolamento che lascia disorientato il soggetto stesso. La natura con la sua intrinseca, paurosa potenza, dopo essere stata imprigionata, umiliata, ridotta a monologhi solitari, ha cominciato a muovere i suoi passi lavorando contro ogni volontà, disintegrando e neutralizzando le diverse barriere e ambientando la sessualità sul terreo che è costretta a vivere. Il torrente della sessualità abbatte ogni diga. Se la diga dovesse resistere subentrerebbe la pazzia.

La vita solitaria diventa un tormento perché si ha bisogno di toccare, ma toccare se stessi, per tanti, a un certo punto, non è più soddisfacente, non è più sufficiente. La colpa di questo male va fatta risalire a chi costringe a questa dolorosa, degradante deviazione.

Lo Stato fa chiasso a proibire le droghe e nel contempo costringe gran parte dell’umanità carceraria alla droga sessuale (omosessuale).

I diversivi alla solitudine sessuale non sono molti né originali: televisione e gioco per distrarsi, religione e scuola per sublimarsi, lo sport per stancarsi.

Un altro punto da considerare è questo: in carcere non penetra il meglio della realtà sociale nel comportamento profondamente “eticizzato”. Vi entrano soggetti labili con i difetti e le esperienze maturate nel campo della deviazione. Pertanto non si vuole, non si può e non si deve chiudere gli occhi sui problemi , sui bisogni, sui drammi degli uomini ristretti in carcere. E’ difficile potersi illudere che questi problemi scompaiano o si risolvano da soli, per quanto comodo sia talvolta non vedere e invece sia amaro, tormentoso sapere o capire.

Il problema dell’affettività in carcere merita attenzione e rispetto perché vi confluiscono e la animano gli istinti, le sensazioni, le emozioni, i sentimenti radicati in ogni uomo. L’affettività è insopprimibile bisogno di vita, un po’ come respirare, nutrirsi, dormire. Mutilando l’umanità, comprimendo la natura oltre un certo limite, non rimane che la patologia della rinuncia o la patologia della degenerazione. In modo ineluttabile i detenuti risultano consegnati a una dimensione esistenziale monocromatica, dimezzata per l’assenza dell’altro sesso che solo dà senso al proprio. Ne derivano gravi tensioni, inquietudine, frustrazioni, deviazioni, perversioni, tendenze ed esposizione alla violenza. Si accentuano le turbe psicosomatiche.

Allora è forse il momento di chiedersi se fra quei bisogni e quei diritti dei detenuti vi siano anche il bisogno e il diritto di amare e di essere amati secondo le soluzioni adottate da paesi di grande civiltà penitenziaria come la Danimarca, l Norvegia, la Svezia, l’Olanda, ecc.

In carcere si va perché si è punti e non per essere puniti.

La pena rilevante della privazione della libertà e qualunque patimento ulteriore, qualunque misura di afflizione non hanno senso, scopo e giustificazione. Offendono soltanto la ragione e l’umanità. E’ forse anche triste e mortificante condannarli a inseguire la giustizia sulla strada della sofferenza piuttosto che su quella dell’umanità, della civiltà, della speranza.

Esistono altresì fondamentali interessi di difesa sociale. Il carcere deve essere in grado di restituire alla società uomini e donne non dico migliorati ma almeno non peggiorati e degradati nella loro dignità. Molte e tante sono ormai le denunce corredate scientificamente dei guasti psicologici che l’astinenza comporta sulla personalità del recluso, tutte concorsi nel riconoscere che l’attività sessuale nell’uomo rappresenta un ciclo organico che non è possibile interrompere senza determinare nel soggetto, in ogni caso, dei traumi sia fisici che psichici.  Al detenuto va riconosciuto il diritto alla sessualità libera e consapevole attraverso visite periodiche dei coniugi e dei conviventi.

La vita sessuale e affettiva, ricca di sfumature e di elementi veramente armonizzati e fluttuanti, è un valore costitutivo della dignità di ogni uomo.

Forse sono ben pochi coloro che hanno capito che per i detenuti anche il carcere più moderno, fornito di tutti i confort (doccia, televisione, giornali), rappresenta una sofferenza indicibile per la privazione della libertà fine a se stessa.

I “permessi dell’amore” dovranno rappresentare forse la prima, civile risposta a questo incredibile pianeta di sofferenze e privazioni dal momento che le riviste pornografiche o l’immaginazione non possono colmare i gravi vuoti determinati dalla mancanza d’affetto e d’amore.

Il carcere è malattia.

Il carcere è esso stesso una sindrome, una sindrome sociale.

Non esistono, al momento attuale, risposte concrete ed efficaci in sede operativa, ma solo tentativi di approccio per tentare di portare a risoluzione il problema della sessualità.

Credo che l’essersi soffermati a riflettere su un aspetto così significativo dell’istituzione carceraria possa risultare utile per una legittima problematizzazione del fenomeno.

Caro amico lettore, anche questo è un segnale importante nella prospettiva di un carcere più civile e umano.

Vi lasco riflettere!

Giustizia: viaggio nell’inferno dimenticato delle nostre carceri


di Lino Buscemi (Ufficio del Garante dei detenuti della Sicilia)

Il sovraffollamento penitenziario ha raggiunto livelli intollerabili tali da indurre lo stesso ministro della Giustizia Alfano a dichiarare, papale papale, che “le carceri italiane sono fuori dalla Costituzione”. Ed esattamente fuori da quell’articolo 27 che così recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

I detenuti, soprattutto in almeno 8 penitenziari siciliani, vivono una condizione non facile sicché parlare di “umanità” e di “rieducazione” è pura mistificazione. È fin troppo ovvio affermare che lo Stato democratico ha il dovere di punire i cittadini che commettono reati, ma non lo è altrettanto quando si arroga il diritto di torturali, sia in termini fisici che psichici.

Il sovraffollamento è una tortura? Provate a chiederlo a chi vive in una cella angusta e lurida, gomito a gomito con altri dieci individui in spazi che potrebbero al massimo contenerne 4 o 5. È anche una tortura vivere in una cella con il wc alla “turca” (spesso il “buco” di scarico è ostruito da una bottiglia di vetro per impedire ai topi o agli scarafaggi di fare visite notturne!), senza doccia, umida e con i vetri rotti, con scarse possibilità di poter ricavare un minimo di intimità per il soddisfacimento delle ineludibili funzioni corporali.

Come definire le “condizioni di vita” nelle carceri, ad esempio, dell’Ucciardone di Palermo, di Piazza Lanza a Catania, di Favignana, Marsala o Mistretta, se non inumane e degradanti? Persino le docce (dove spesso, in inverno, scorre acqua solo fredda) sono allocate in locali lontani dalle celle che per raggiungerli bisogna attraversare nudi i corridoi o le terrazze all’aperto.

Le risorse, inoltre, per realizzare programmi per la “rieducazione” del condannato o per il lavoro in carcere sono scarsissime e, comunque, non adeguate per dare effettiva attuazione all’articolo 27 della Costituzione. Si fa quello che si può, in maniera disorganica e discontinua, con l’aiuto del personale di polizia penitenziaria, con i direttori più sensibili e con la sparuta pattuglia di educatori, psicologi e volontari. Alle corte: lo stato in cui versano le carceri in Sicilia non è per nulla accettabile.

La stragrande maggioranza dei detenuti è in attesa di giudizio (soprattutto extracomunitari), per reati, in prevalenza, cosiddetti comuni e non di grave allarme sociale. Ogni detenuto costa allo Stato non meno di 350 euro al giorno, per ricevere, spesso, un trattamento inumano e degradante. All’orizzonte non si intravedono né atti di clemenza (come auspicato già da Giovanni Paolo II) né il ricorso massiccio alle misure alternative al carcere (arresti domiciliari, affidamento ai servizi sociali, semilibertà, ecc.), né tantomeno l’apertura di nuove carceri ultimate, né il ricorso alla liberazione anticipata (consiste in una riduzione della pena pari a 45 giorni, per ogni sei mesi di pena espiata dal detenuto che ha tenuto, però, regolare condotta ed ha anche partecipato alle attività trattamentali).

Non sembra, al momento, muoversi nulla che faccia presagire qualcosa di positivo. In Parlamento e nei Palazzi che contano, malgrado le ripetute grida d’allarme dei garanti dei diritti dei detenuti, regna il silenzio. Eppure le carceri esplodono e cominciano ad esserci problemi di sicurezza dentro di esse, come alcuni casi eclatanti recenti hanno abbondantemente dimostrato. A pagarne il conto sono i “poveracci”, i più deboli, che privi di adeguata assistenza legale pagano, per reati non gravi, il loro debito alla giustizia tutto per intero in condizioni pietose e di degrado.

La stessa cosa, sembra, non accadere per i “potenti”, che sanno come evitare il carcere e persino per i mafiosi che pur essendo sottoposti all’incostituzionale regime del “41 bis” dispongono, però, normalmente di celle pulite, arredate, con wc moderni e docce. Fare emergere nella sua crudezza quello che per ora appare “invisibile” aiuta non poco a sconfiggere la malagiustizia che costringe, intanto, i più “indifesi” ad abitare carceri dove sono calpestati la dignità dell’uomo e diritti fondamentali. Come se si trattasse di vere e proprie discariche sociali e non di luoghi preposti alla rieducazione e al reinserimento nella vita sociale.

da www.ristretti.it

 

Progetto “Il lavoro in carcere”


di Francesco dal carcere di Augusta

Oggi vorrei parlare di una questione estremamente delicata del pianeta carcere: il lavoro in carcere.

Il lavoro appartiene semplicemente all’essere dell’uomo in quanto significa, in genere, un essere attivo nel mondo. Una delle condizioni più penose e meno comprensibili della vita in carcere è indubbiamente l’ozio: uno stato di noia mortale.

Il lavoro è occasione per evidenziare e testimoniare le proprie capacità e la valenza del proprio status: un’esperienza umana insostituibile che contribuisce alla crescita personale, favorisce il raggiungimento di equilibri personali, familiari e sociali.

Il lavoro diventa “perno centrale” nella vita e può condizionare mutamenti, decisioni, soluzioni esistenziali anche determinanti. La complessa problematica connessa con il lavoro penitenziario suppone un quadro di riferimento che include considerazioni sociologiche, giuridiche ed economiche. Nell’ambito della stratificazione sociale, la categoria dei detenuti è inserita, nella corrente sociologica, tra le categorie marginali o emarginate, i cosiddetti “luoghi poveri”.

L’attenzione verso le categorie marginali come i detenuti, a parte le lentezze abituali, non si è sempre espressa in un piano di interventi organicamente e moderatamente  collocato, ma le profonde trasformazioni della società contemporanea hanno esercitato un determinante influsso anche sulla realtà carceraria. Per cui a una notevole incidenza culturale politica non si è sottratta neppure la “questione lavoro” che ha vivamente segnato la conoscenza degli stessi detenuti ai quali occorre oggigiorno assicurare non belle parole e nobili intenzioni bensì concrete opportunità di una scelta diversa a quella criminale e quindi “qualificazione professionale” e “attività produttive”. A ciò aggiungasi che gli orientamenti comuni degli studiosi, coerentemente col dettato della Costituzione che postula la finalità rieducativa e perciò riabilitativa e risocializzante della pena, concordano nell’affermare che il lavoro costituisce uno strumento fondamentale di redenzione e riadattamento alla vita sociale. Esso acquista valenza liberatoria, è realtà unificante rispetto alla separatezza della detenzione, rompe le attuali divisioni tra carcere e società. Le carceri, un tempo separate dalla società civile per necessità, tradizione e cultura, si sono aperte in questi ultimi decenni al mondo esterno, al territorio facendo emergere una nuova visione della pena indicata come “cultura del dialogo”, capace di garantire, a quanti concretamente lo vogliono, un reinserimento, aiutando chi ha sbagliato.

Occorre quindi consolidare l’impegno attorno all’uomo in detenzione incrementando un umanesimo solidaristico capace di sfatare luoghi comuni. In sostanza si tratta di tradurre in termini di concretezza operativa il campo della solidarietà. In questo senso il lavoro intramurario non assume il significato di premio, non rappresenta una concessione, tanto meno una semplice terapia. Esso può configurarsi come “diritto”, come “diritto-dovere” la cui assenza risulta senz’altro “desocializzante”. E’ auspicabile, perciò, una più determinante e incisiva attuazione di piena solidarietà attorno all’uomo in detenzione che veda un coinvolgimento delle componenti politico-produttive sindacali e del volontariato in quanto si ritiene possano essere feconde premesse e sostegno delle iniziative fattibili nell’immediato. E’ la politica dei piccoli passi che condiziona e determina le grandi riforme spesso internazionali.

In conclusione sia consentito affermare che siffatta metodologia, se attuata e che già ha avuto sperimento pratico in varie regioni, consentirebbe, una volta emanati i decreti attuativi della legge 193/2000 “legge Smuraglia”, forme diverse di organizzazione del lavoro e quindi nuove e concrete possibilità occupazionali a quanti vivono nelle carceri. Quindi il lavoro quale strumento privilegiato per il recupero sociale. Esso, infatti, riveste un ruolo di primaria importanza nel processo di risocializzazione per un soggetto in esecuzione penale perché consente alla persona detenuta di intraprendere un cammino di “responsabilizzazione” e di conformità alle regole giuridico-sociali nonché di soddisfare esigenze personalistiche  di gratificazione emotiva e professionale. L’appagamento professionale, inteso quale effettiva possibilità per il detenuto di contribuire al sostegno economico del proprio nucleo familiare, favorisce il recupero dei valori di solidarietà e responsabilità e innalza la spinta motivazionale per la prosecuzione del percorso intrapreso prevenendo il rischio di nuove condotte criminose.

Il reinserimento sociale e lavorativo della persona detenuta in Sicilia è processo problematico date le oggettive difficoltà economiche e sociali del contesto territoriale siciliano. Il percorso riabilitativo e di reinserimento lavorativo, che si presenta già comunque con difficoltà nella maggior parte del territorio nazionale, risulta difatti assai più disagevole in Sicilia dove si aggiungono aspetti da sempre discriminatori per i soggetti che hanno pagato il loro debito con la giustizia i quali hanno già alle spalle, nella maggioranza dei casi, un vissuto di disagio e crescente marginalità senza protezioni sociali. In tale situazione estremamente problematica l’inserimento lavorativo per la persona con pregiudizi penali assume un valore ancora più forte poiché è solo attraverso l’attività lavorativa che la persona può concretamente cambiare lo stile di vita finalizzato alla “non reiterazione dei reati”.

Qui ad Augusta, casa di reclusione e, in particolare, per i detenuti del circuito “alta sorveglianza”, detenuti quindi con ergastolo e pene altissime, in atto il posto assegnato a ognuno che è chiamato a svolgere il “lavoro” non può essere modificato e perciò non possono svilupparsi ambizioni né in bene né in male oltre quella offerta dall’amministrazione: spazzino o spesino.

A ciò aggiungasi che in questi anni di vita della Casa di Reclusione di Augusta non è stato assunto, da chi istituzionalmente preposto, un comportamento coerente con quanto contenuto nella normativa . Infatti nulla si è fatto per reperire le risorse necessarie al fine di predisporre adeguarti piani di riconversione e riqualificazione delle esistenti manifatture penitenziarie né è stata prevista dall’amministrazione, nel suo budget, alcuna voce di spesa per formare almeno quei quadri che avrebbero dovuto assicurare le condizioni minime indispensabili per sviluppare il lavoro qui ad Augusta. C’è bisogno di una sinergia di tutti gli enti, pubblici e privati. C’è bisogno di una progettualità regionale del provveditorato finalizzata al rilancio e al rinnovamento dell’amministrazione penitenziaria avendo, tra le priorità, proprio quella di una progettazione di interventi tesa a incentivare le opportunità di lavoro sia all’interno degli istituti che all’esterno e capace, soprattutto, di creare continuità tra “dentro” e “fuori” per costruire così concrete occasioni di recupero sociale. Una nuova politica penitenziaria regionale che agisca contestualmente su più fronti per incrementare i posti di lavoro disponibili per i detenuti sia all’interno che all’esterno degli istituti penitenziari ponendo particolare attenzione all’instaurazione e al consolidamento di una stabile rete di rapporti e intese con gli enti istituzionali territoriali (regioni, province, comuni) e con le associazioni e il terzo settore per la qualificazione del lavoro penitenziario e la creazione di nuove opportunità d’impiego per i detenuti. E’ necessario, quindi, sperare per la definizione di un protocollo d’intesa con l’unione regionale delle camere di commercio e le associazioni di categoria regionali. La creazione di una rete stabile di rapporti e collaborazioni tra i diversi attori istituzionali e dell’imprenditoria darà impulso alle attività produttive che si concretizzeranno all’interno dell’istituto con obiettivi e finalità posti dal progetto “Lavoro in carcere”. Inoltre sarà fondamentale far acquisire ai detenuti una preparazione professionale adeguata alle condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale. L’amministrazione penitenziaria dovrà avere la capacità di progettare e predisporre una serie di esperienze formative e professionali realmente utili che devono essere in grado di far acquisire ai detenuti un bagaglio di conoscenze e di abilità tecniche spendibili nell’avviamento di un’attività autonoma oppure nell’offerta di manodopera sul libero mercato. E’ ovvio, pertanto, che il lavoro intramurario, nel suo complesso, appare in grado di raggiungere soltanto una parte degli obiettivi per i quali esso è previsto rimanendo relegata in secondo piano quella che dovrebbe essere la finalità di gran lunga assorbente: il reinserimento attraverso la qualificazione professionale.

In particolare tutte le parti chiamate in causa devono concordare sull’opportunità di ricercare e attuare misure volte al sostegno e al reinserimento sociale e lavorativo di detenuti, ex detenuti e sottoposti a esecuzione penale esterna affinché vengano applicati i benefici previsti dalla legislazione nazionale e regionale. Si impegnano a valorizzare le lavorazioni interne agli istituti penitenziari, a promuovere intese operative, anche a livello locale, per incentivare le ipotesi previste dalla vigente normativa per la gestione, da parte di terzi, delle lavorazioni penitenziarie come pure per favorire progetti di cooperative sociali, formate anche da detenuti, internati, ex detenuti o ex internati che abbiano lo scopo di creare posti di lavoro interni ed esterni agli istituti penitenziari  e che offrano garanzia di fattibilità e di continuità basate anche su commesse pubbliche.

E ancora, concordare sull’opportunità di promuovere congiuntamente, attività finalizzate alla produzione di beni e servizi per il mercato realizzati all’interno e all’esterno degli istituti di pena in base alle effettive possibilità occupazionali esistenti sul territorio nel confronto con gli organismi competenti a livello regionale. In tale ambito le parti si dovranno impegnare a promuovere e stimolare commesse di lavoro per i detenuti da parte di enti pubblici, cooperative sociali e imprese.

La presente idea non rappresenta, ed è ben chiaro per chi ha esperienza in merito, la “soluzione” della complessa tematica affrontata sia perché il sistema economico nazionale è in continua evoluzione sia perché, in ultima istanza, appare necessario il riscontro in un costante impegno politico e amministrativo a livello nazionale, regionale e locale, ma sicuramente tutte queste azioni eliminerebbero l’incertezza della posizione dei detenuti e attenuerebbero quella tensione palpabile oggigiorno nelle carceri.

Per quanto detto finora, amico/a lettore, concludo con un monito pr la direzione di questo carcere rivolgendo l’invito che se è vero che il nostro paese attribuisce al lavoro dei detenuti un alto valore per il loro riscatto sociale deve dimostrare, nelle sedi proprie, un comportamento coerente con quanto contenuto nelle stesse leggi. Deve cioè saper reperire le risorse necessarie per rendere economico questo tipo di lavoro. All’amministrazione penitenziaria spetterà il non facile compito e di formulare un piano di intervento realistico programmato nel tempo, e di mobilitare le forze capaci di indirizzarlo e sostenerlo e nell’affiancare la difficile azione del Ministero della Giustizia finalizzata al raggiungimento degli obiettivi complessi e delicati indicati dal legislatore.

La stessa Corte Costituzionale ha avuto modo di esprimersi sul lavoro carcerario evidenziando che “Ben lungi dall’essere in contrasto con la morale esigenza di tutela e rispetto della persona esso (il lavoro) è gloria umana, precetto per molti, dovere e diritto sociale per tutti”.

L’impegno ultimo di   questo progetto è mirato a creare le condizioni idonee per la realizzazione di una nuova mentalità e cultura nella prospettiva di un nuovo rapporto tra il cittadino e la società che ha origine nel riconoscimento del diritto morale e sociale dei detenuti di essere sostenuti e reinseriti nella società allontanando lo spettro della stigmatizzazione etichettante.

Il lavoro diventa quindi una sfida sia per la società che per il detenuto. In tal senso si è ipotizzato di vedere il lavoro come metodica di relazione del soggetto detenuto con la società. Un nuovo strumento di “co-municare”, di mettere insieme qualcosa, di condividere le regole della vita quotidiana per un identico fine. Un linguaggio comune è uno strumento molto forte di partecipazione e confronto. La responsabilità della società nei confronti dei soggetti detenuti è di tipo etico e l’obiettivo è un bene socialmente condivisibile. L’etica diventa uno strumento di comunicazione fra la società, il mondo del lavoro, le regole del lavoro e il soggetto detenuto che, non dimentichiamo, è parte integrante della società stessa.

A tal proposito Hegel diceva: “Il lavoro è il modo fondamentale con cui l’uomo produce la sua vita dando inoltre una forma al mondo”. Io aggiungerei :”diventando la fonte di ogni valentia terrena, di ogni virtù e di ogni gioia”.

Vi lascio riflettere…

vostro Francesco