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Costruzione di un dialogo tra padre e figlia – sempre dal diario, ancora inedito, di Claudio Crastus

Pubblicato il 14 settembre 2010 di Daniela Domenici

Per tutti noi genitori, a maggior ragione per quelli di noi che vivono in libertà, non “ristretti” come Claudio, perchè prendiamo esempio dalle sue parole…

…Domenica telefonerò a Serena, non vedo l’ora di sentire la sua voce, chissà cosa ci diremo in quei cinque minuti, chissà se saremo sciolti o meno, se ci faremo cogliere dall’emozione…

In cinque anni ci siamo scritti, con una interruzione di due anni, dato che Serena era arrabbiata con me, forse per ciò che sentiva dire dal suo nonno.

Ultimamente sono io ad avercela con lei: ha lasciato la scuola, senza ragione, ma dopo che l’ho invitata a spiegarmi cosa volesse fare nella vita, non mi risponde, sospende o, meglio, per ora interrompe il dialogo. Da un lato vorrei scriverle una lettera dura, dall’altro mi domando se ne ho il diritto, se è giusto che proprio io, che sono mancato e tuttora manco nella sua vita, prenda posizione. Spero solo che tra noi nasca un bel dialogo. Vorrei riallacciare pian piano o meglio costruire di sana pianta un rapporto tra noi, non necessariamente come tra ogni padre e figlia, perché mi rendo conto che tra di noi non c’è mai stato, se non sporadico, a spezzoni. Quindi credo che, vista anche la nostra giovane età, potremo instaurare un rapporto d’amicizia, ma nemmeno questo è molto facile, tuttavia dobbiamo provarci…

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Lettera di una professoressa dal carcere

Pubblicato il 16 giugno 2010 di Daniela Domenici

AVREI VOLUTO SCRIVELA IO.

GRAZIE, COLLEGA DOCENTE E VOLONTARIA, PER AVER TROVATO LE PAROLE GIUSTE ANCHE PER ME

Scrivo da Udine e sono una docente di lettere presso il carcere di massima sicurezza di Tolmezzo. Esperienza unica e bellissima. Ho conosciuto tante storie e tante non vite. Lavoro per quelli della sorveglianza speciale. Tre volte alla settimana il mio lavoro si traduce in missione. Sono laureata n lettere ma sto conseguendo seconda laurea in psicologia a Trieste. Lavorando in carcere ti rendi conto di diverse realtà che ti si presentano davanti. Io voglio bene ai miei ragazzi, mi rifiuto di usare due parole con loro: detenuti e celle, preferisco parlare di ragazzi e di stanze. I miei ragazzi sono stati ragazzi di strada (20 anni fa) ora sono diventati ragazzi di lettere (scrivono, compongono poesie, studiano, c’è chi si iscrive all’università, parlano di amore, fratellanza, di giustizia e di ingiustizia.)

 I miei ragazzi hanno capito il concetto di “colpa”, loro hanno elaborato il concetto di “male” come male che c’è stato per vari motivi (provenienza geografica, culturale, oserei aggiungere substrato, giovane età, incoscienza, sogni di gloria, materialismo…) Oggi, a 20 anni di distanza, posso affermare con coscienza morale che sono cambiati. Mi ritrovo a parlare con uomini da una forte valenza morale a cui bisogna dare una chance. CHe senso ha privare un uomo nuovo ad un destino nuovo? …Sbagliare è umano… ovviamen te, il loro, non è un piccolo sbaglio… Ma 20/25 anni non bastano per ripulire le loro e nostre coscienze? Considero l’ergastolo ostativo un crimine quanto quello commesso dai detenuti. Il carcere? Un gatto che si morde la coda e in cui la logica non sovviene.

 

La libertà, purtroppo, è fortemente apprezzata da chi ne viene privato.Vivere sulla propria pelle certe esperienze ti segna per tutta la vita. Entri in una cella e senti chiudere alle tue spalle una porta di acciaio. Il rumore freddo e sordo ti penetra violento nel cervello e nelle ossa, ogni minuto di ogni ora di ogni giorno che trascorri in quella condizione disumana. Cerchi di fartene una ragione, di capire, ma non c’è nulla da capire. Alla fine ti rassegni ad una condizione di assoluta dipendenza dal tuo custode che ha il potere di toglierti o restituirti la facoltà di uscire dalla gabbia. Ti chiedi il motivo, se c’è, di tanta raffinata lucida crudeltà ma non trovi una risposta. Il sonno è l’unico rifugio che ti permette di lenire il dolore di tanta apprensione, ma, al mattino, apri gli occhi ed il tremendo incubo continua forte, potente, straziante. Ancora ferro, sbarre, quel rumore assordante che continua a penetrare devastandoti senza pietà. Vorresti urlare, ribellarti, uscire da quell’incubo, ma finisci per subirlo supinamente. Inizia un nuovo giorno, una nuova tortura, un lento inesorabile stillicidio. Oggi, però, è una giornata importante, il processo. Sono sveglio e fisso i fori della branda di ferro illuminati dalla luce gialla riflessa dei fari appesi ai muri di cinta. Chiudo gli occhi…Pensieri confusi mi accompagnano nel dormiveglia finchè non sento il tintinnio del mazzo di chiavi della guardia di sezione che si avvicina alla mia cella e mi avvisa di prepararmi. “La scorta è pronta tra mezz’ora, si sbrighi!”Mi vesto rapidamente, entro nel piccolo bagno e mi lavo il volto asservandomi in un minuscolo specchio appoggiato ad un pacchetto di sigarette incollato al muro con il “vinavil”. E’ tutto così surreale! A volte, mi sento aggrappato alla vita con quello stesso “vinavil” che, in carcere viene utilizzato per appendere al muro qualsiasi cosa. E’ un pensiero totalmente buffo che le mie labbra sorridono ed io mi osservo allo specchio, protagonista di questa situazione bizzarra, quasi fosse spettatore di me stesso. Il tempo scorre e non mi resta che attendere. Ora sono pronto, ho paura, sta arrivando l’appuntato. Ancora una volta il rumore sordo di quella serratura che scandisce il tempo immobile nella mia cella. “Andiamo c’è il processo!” E’ l’ultima udienza, il verdetto, il cruccio tra la fine di un incubo o l’inizio della fine. “Si, sono pronto, andiamo!” Intorno a me il vuoto, mi manca l’aria. Ecco il furgone blindato, mi mettono le manette. Ancora ferro su di me, lo detesto, mi sento strangolare l’anima. Salgo sul furgone e vengo rinchiuso in una piccola gabbia fatta di tre pareti e soffitto in lamiera ed una porta scorrevole in lama di ferro forata. Naturalmente mettono anche un lucchetto alla serratura di questa gabbia. Ammanettato e rinchiuso riesco a malapena a muovermi. Cerco di tranquilizzarmi, ma il cuore batte forte, lo sento. Un accenno di panico ha il sopravvento al pensiero di una fine atroce nel caso in cui il furgone facesse un incidente. E’ un pensiero terribile comune tra noi detenuti di alta sicurezza. Un respiro profondo e, per fortuna, siamo arrivati. Il tragitto era breve ed ora le porte si aprono. L’impatto con l’indifferenza della gente mi stordisce, mi sento quasi ebbro in presenza di spazi così ampi rispetto ai luoghi sistematicamente circoscritti del carcere. Nell’aula c’è il solito brusio, persone distratte, avvocati indaffarati, discutono tra loro dell’ultimo film uscito al cinema o di come si mangia in quel ristorante. Tutto sembra normale, naturale, poi silenzio… “Entra la Corte”. L’interrogatorio è secco, perentorio… “Bene! Basta così, conosciamo i fatti!”… “Ma signor giudice… vorrei aggiungere…” “No! Basta! Facciamo silenzio!”. Il Presidente è atento, severo, niente eccezioni. E’ una questione di principio, di economia processuale… Poi la Difesa, l’avvocato si esprime bene, declama austere citazioni in lingua latina, sostiene l’assenza di prove, la leggerezza nello svolgere le indagini ma di mezzo c’è un “morto ammazzato”.

Il Pm legge il giornale, sbadiglia annoiato, assorto, indifferente. La sua tracotanza malcelata trasuda dalla toga che indossa a metà schiena per non sgualcire l’abito nuovo. Tocca all’accusa. Il tono solenne iniziale si trasforma in un’arrogante, supponente, quasi insofferente sproloquio supportato dai soliti assiomi: “Non poteva non sapere! Non poteva non vedere! Non poteva non pensare!” Il solito gioco di prestigio, il solito virtuosismo dialettico e viene dissipato ogni ragionevole dubbio, ogni perplessità. Sono confuso, non capisco, la corte si ritira e le speranze si affievoliscono. Pasa un’ora, ne passano due, forse è buon segno… Sono attenti… Ricomincio a sperare… Continua il brusìo, la testa mi scoppia, sento le vene pulsare. Non ne posso più, mi sembra di esplodere! Ho fumato un intero pacchetto di sigarette, la mia bocca è impastata, la saliva vischiosa, dal sapore acre, è velenoso, ho sete. Oddio!!! Un po’ di aria vi prego! Ci siamo, la tensione è palpabile, suona il campanello. Mi arriva una violenta scossa alla nuca, mille pugnali la trafiggono. “Entra la corte, in piedi!” poche parole crude e gelide: ” In nome del popolo italiano, visto l’art. 533 condanno l’imputato alla pena dell’ergastolo!” Sento l’eco di questa frase nella mia testa, è la fine, sono annichilito. Non riesco a ragionare, resto senza parole, mi sembra di sognare. Un incubo da cui non c’è via di uscita. “Stai tranquillo, c’è l’appello”… Odo la voce del mio avvocato dal suono distante e ovattato, quasi provenisse da un’altra dimensione. Avanzo con gli occhi sbarrati, un agente mi dice… “Su, coraggio!” mentre, come un’automa, porgo i polsi per essere ammanettato. Si rientra in carcere. Finalmente mi posso rifugiare nella mia cella dove, paradossalmente, mi sento al sicuro, come un bimbo nel grembo della madre. Si… Sto impazzendo, sto delirando!La vita continua, la vita di un sepolto vivo. Sulle mie spalle un fardello crudele, nel mio fascicolo una frase che non lascia speranza: “Fine pena mai”.


Questo scritto appartiene ad Emanuele Pavone, detenuto presso la casa circondariale di Tolmezzo. Mi autorizza a diffondere questo splendido graffito umano. Vi chiedo di riflettere. Come lui, tantissimi altri nella stessa condizione. Auguro giustizia a tutti, alle vittime, ai parenti, ai detenuti. Giustizia come “Giusta punizione”. Ringrazio tutti i detenuti, sezione massima sicurezza di Tolmezzo, vi ho trovato pentimento (radicato, forte, sentito), dignità, sguardi fieri e in alcuni una sensibilità fuori dal comune. Grazie per avermi sostenuto durante l’anno scolastico, grazie di avermi protetta e a modo vostro “amata”. Mi sono sentita “amata” come non mi era mai capitato fuori. Nessuna volgarità o mancanza di rispetto nei confronti di una giovane donna di 35 anni. L’odio, l’invidia, i cattivi pensieri non fanno parte dei miei otto ragazzi. Grazie per il meraviglioso anno scolastico passato insieme
Patrizia Pugliese,  Docente di lettere presso Carcere di Tolmezzo

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Firenze: il “panneggio” di Sollicciano, lo straccio sventola e così nasce un amore

Pubblicato il 6 giugno 2010 di Daniela Domenici

di Laura Montanari

L’amore al tempo del carcere si sventola come una bandiera, è uno straccio bianco o rosso o nero che naviga nell’aria e cerca le parole come può, nel deserto senza intimità di una cella, nel tempo negato di una prigione. Ci sentite da li? Le mani sbucano dalle feritoie di Sollicciano, alla periferia di Firenze. Le mani si allungano fuori dalle finestre con le sbarre e “parlano” da un’ala all’altra di questo istituto che è un edificio ad anfiteatro, così largo che in mezzo ci potrebbe stare quasi un campo da calcio. Le voci non viaggiano abbastanza in quel vuoto e allora i detenuti e le detenute si arrangiano con il “panneggio”. È una specie di chat senza computer, un T9 senza telefonino, un alfabeto morse senza suoni.
Un dialogare per mezzo degli stracci, qualcosa di antico e primitivo, un viaggiare lento, da terza classe rispetto ai bit che attraversano il mondo libero. Un giro del panno per dire “a”, due per dire “b”, tre “c” e così lungo tutte le lettere fino alla “z”. Una fatica leggersi a distanza, ma quando le ore non passano e il silenzio è un mattone, la mano che sventola il pezzetto di stoffa diventa un’ancora, una compagnia, un ciao, un come stai. Qualcosa.
Una giovane regista teatrale, Elisa Taddei, che lavora con la gente di Sollicciano (il 17 e il 18 giugno porterà in scena al Giardino degli Incontri lo spettacolo “Il giardino degli animali”) racconta che nel carcere fiorentino, il panneggio è un linguaggio che va avanti da anni. “Me l’hanno spiegato alcuni detenuti, sono nate anche delle storie d’amore”. Una di certo. Quella fra Marinella e Vito. Lei dentro per spaccio e qualche scivolata precedente, lui per cose analoghe commesse in un’altra città. “Ci siamo spediti qualche lettera dall’interno del carcere, poi un giorno Vito mi ha scritto: stasera vieni al panneggio?”.
Marinella ha venticinque anni e sigarette che si inseguono incessanti sulle labbra mentre nella cucina di casa sua a Pistoia, dove è agli arresti domiciliari racconta: “Una zingara, Salia, che stava in cella con me, mi ha insegnato come si fa. Per un po’di mesi ho detto no, che non mi interessava, ma stavo ore e ore distesa sulla branda della mia cella a guardare il soffitto, con la musica nelle orecchie, a pensare al mio bambino di otto anni, fuori e dato in affido per i miei errori”. Un giorno anche “Mari” allunga le braccia dal terrazzino della sua cella e sventola segnali di stoffa nell’aria: “Ciao, sono qui”.
C’è qualcuno? Una bandierina che sventola, un messaggio di solitudine in bottiglia. Dall’altra parte qualcuno fa altrettanto. Chi è? Sarà lui? “Era proprio Vito, ci eravamo incrociati tramite un’altra ragazza che era in cella con me e che continuava a parlarmene. Così è come se fosse già stato un mio amico. In carcere l’amore scatta subito, basta poco”.
Il cuore sale sull’ottovolante, non è come fuori. Ovunque la passione grida, nel carcere grida come può. “Il panneggio per me era diventato un’ossessione – riprende Mari – c’è stato un periodo in cui andavo a lavorare, in lavanderia o come badante di una detenuta invalida. Lei era in isolamento e da lì non si panneggia. Allora la mattina prima di uscire io e Vito ci si dava il buongiorno sventolando i nostri stracci e poi si contavano le ore e si riprendeva quello strano modo di parlare, a sera”. Lo straccio ha il suo alfabeto: se è rosso vuol dire che il soggetto è occupato, se è nero meglio girare alla larga, se è bianco e steso come un lino ad asciugare tra le sbarre, vuol dire che si aspetta una chiamata. L’altra metà di Sollicciano è in linea. Ma ci sentite da lì?

da www.ristretti.org

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Morire a Kabul

Pubblicato il 22 Maggio 2010 di Daniela Domenici

di Loretta Dalola

“Ogni volta che muoiono i nostri soldati all’estero è doveroso ricordare il loro sacrificio ed è anche opportuno   prestare attenzione sul motivo per cui lo fanno”. Queste le parole  di Alessio Vinci per l’apertura  del tema della serata di Matrix, su Canale 5, che ha tentato di prendere in esame la missione italiana  in Afghanistan e  i recenti fatti di cronaca che hanno avuto come protagonista la  morte di  due soldati  riaprendo  il dibattito sull’impegno militare nel paese.

 Siamo in guerra o no con i Talebani?  Ufficialmente no, e il Ministro della Difesa Ignazio La Russa ne ha chiaramente spiegato i motivi  in una “concitata”, per usare un grosso, abnorme eufemismo, puntata di Matrix. Soprattutto nella seconda parte del programma , il tono della discussione degenera in un modo che risulterà poi irrimediabile , riuscendo a scalfire anche il noto  self control del conduttore.

 Il Parlamento ha detto che è giusto tributare un saluto ai nostri ragazzi, ha esordito il ministro, che ogni giorno fanno qualcosa per la pace e tengono lontano il pericolo del terrorismo.

 La presenza dei nostri soldati è una forza di pace, si tratta di ottenere la pace utilizzando determinati strumenti che non possono prescindere dai metodi di militarizzazione.

 

 Gli argomenti di discussione sono stati sostanzialmente due e principalmente uno: che ci facciamo in Afghanistan?  Ci dobbiamo rimanere o no? E perchè? E’  veramente utile rimanere? Serve a qualcosa o rischiamo solo la vita dei nostri militari?.

 L’altro è quello della presenza delle donne sul campo di battaglia, oggettivamente poco analizzato durante la trasmissione. Si potrebbe anche pensare, a dire il vero, che sia stato giusto così, le donne soldato infatti sono militari alla stregua dei loro colleghi maschi, niente di più, niente di meno. Che siano oggetto di discussione potrebbe anche essere visto da parte di alcuni come una sorta di discriminazione.

 Secondo Ferrero, il rimanere in “zona di guerra” è controproducente, vale a dire mette appunto a rischio la vita dei nostri soldati senza che però si ottenga niente è da ormai 9 anni che si sta prolungando l’attività dei militari.

 Il portavoce della Sinistra più “radicale” sostiene a gran voce il ritiro delle nostre truppe, bisogna cambiare strategia e intavolare una “conferenza di pace” e aprire il dialogo.

 La Russa comincia scaldarsi, e dopo varie scaramucce inizia a chiedere “con chi” ?  i Talebani non vogliono la pace dice il Ministro.

 E da questo momento, inevitabilmente la situazione precipita e nonostante la serata sia all’insegna del ricordo doloroso della morte dei nostri soldati, La Russa scatena la polemica.

 ll sentire concetti “sbagliati” sulla guerra in Afghanistan pare essere per La Russa qualcosa di insopportabile. Il Ministro si trova a discutere con quasi  tutti i presenti in trasmissione, Alessio Vinci compreso. Quest’ultimo a tratti appare un po’  spaesato, per diversi minuti non riesce a tenere in mano la trasmissione e non certo per incapacità sua, quanto per l’incontenibile “esuberanza” di La Russa, un vero e proprio “carroarmato verbale”.

 Nemmeno il concetto dei “due militari morti” li ferma, gli argomenti, sfociati nella politica dura e pura sono, almeno per loro, professionisti del mestiere, troppo importanti per fare un passo indietro. Vinci, sconsolato, chiude la trasmissione con un: “ è più facile pacificare l’Afghanistan che questo studio“, e rivolgendosi a La Russa , “la critica è legittima ma per parlare di politica non siamo riusciti a spiegare agli italiani perché siamo in Afghanistan”!

 Ma non credo che questo abbia scosso la coscienza del ministro.

 Personalmente ritengo che a  livello politico sia ora più che mai utile aprire un dialogo,  un conferenza internazionale sui problemi, quelli veri,  con tutti, anche con i talebani.

 Come pensiamo di risolvere la situazione se non parliamo a loro per capire cosa vogliono? Li si ascolti, se poi non ci si trova si potrà decidere metodi alternativi. La nostra missione? Si può cambiare etichetta alle missioni ma alla fine risulta  quello che è, una guerra ,diversa dal passato, assimetrica ma sempre guerra è.

 Visualizza altro : http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=102709&sez=titolidicoda

 http://it-politica.confusenet.com/showthread.php?t=206020

 http://www.youtube.com/watch?v=PwcUOCT

 da htttp://lorettadalola.wordpress.com

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Carcere di Augusta: 5 settimane fa…

Pubblicato il 17 marzo 2010 di Daniela Domenici

di Daniela Domenici

Fred Bongusto cantava “Tre settimane da raccontare”

…sono 5 settimane oggi che abbiamo salutato i nostri amici detenuti e di cui, purtroppo, non sappiamo più niente perché, tra l’altro, non mi fanno più arrivare le loro lettere (ma questo non potrò mai dimostrarlo).

Dalle altre carceri, italiane e straniere, su www.ristretti.it arrivano quotidianamente notizie positive e negative: a Pordenone una mostra, a Bologna i detenuti escono per recitare Dostojevski, tanto per citarne alcuni…e ad Augusta cosa stanno facendo?

Finché ci hanno fatto stare “dentro” quel pianeta, che ormai era diventato la nostra seconda casa, ho avuto la possibilità di far sapere al mondo esterno cosa veniva fatto di positivo per mettere in pratica l’art 27 della Costituzione che parla di rieducazione e reinserimento: dal presepe alla corale, dal progetto “Reload” al cineforum tanto per citarne alcuni.

Ma siccome non mi limitavo a raccontare solo le iniziative positive ma ospitavo nel mio sito anche le lettere di alcuni detenuti che raccontavano sprazzi di vita quotidiana in cella oltre che poesie, fiabe e riflessioni (che stanno ancora andando “forte” come numero di passaggi e ne sono immensamente felice) e, soprattutto, siccome non ci limitavano solo a far vedere il film ma provavamo a far dialogare queste persone, che è il primo passo verso una rieducazione, siamo diventati “scomodi” e 5 settimane fa…

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Niente carcere, due settimane oggi…

Pubblicato il 24 febbraio 2010 di Daniela Domenici

Dato che purtroppo non mi arriva più posta dal carcere e non posso dimostrare in alcun modo che stiano filtrando e bloccando le lettere in uscita dirette a me che prima mi arrivavano pubblico testi di detenuti da varie carceri d’Italia presi da www.urladalsilenzio.wordpress.com

questo dialogo surreale è stupendo, leggetelo…

Capita che si cerchi persino conforto nella matematica per avere una speranza. Ma alla fine resterà solo un grande mal di testa. Questo testo giunge da Francesco Mammolliti, detenuto a Carinola. E’ assolutamente parvaso da una capacità umoristica, che sotto la vernice demenziale graffia senza che neanche te ne accorgi. E’ stata sempre un’arte quella di sfoderare i pugni coi guanti di velluta, quella particolare comicità che non ti fa ridere e basta, ma pensare e interrogarti anche dietro la leggerezza. Fare sorridere mentre il fondo del bicchiere è amaro è un gioco di sfumature, qualcosa di estremamente difficile. Il professore di matematica applicato all’ergastolo è naturalmente il trionfo della demenza. Ma mentre la maschera è in scena, si parla di… collaborazioni e pentimenti, ergastolani da 15 anni piantonati, il fine pena mai come Moloch, la disperata voglia di aggrapparsi a qualcosa.. fossero pure le stramberie di un professore di matematica.. Si ride.. a denti stretti.. un retrogusto amaro, dopo il “teatro”, resta in bocca.

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Ergastolano: Mi scusi prof. Zwirner, le posso fare una domanda?

 Prof Zwirner: Mi dica?

 E: Io sono stato condannato all’ergastolo, secondo lei, matematicamente parlando, potrà uscire dal carcere? E se si quando?

P: Ma che domanda è questa? Non ha senso. Se uno è condannato all’ergastolo nonuscirà più, altrimenti che ergastolo è.

 E: Professore si dice che in Italia l’ergastolo è solo scritto sulla carta, ma che in realtà nessuno lo espia veramente.

P: Quindi lei non ha mai conosciuto nessuno che ha scontato veramente l’ergastolo?

 E: No, nessuno. Tutti quelli che ho conosciuto sono morti prima di scontarlo. Comunque quello che volevo dire è il fatto che, ormai, con questi computer si riesce a calcolare tutto, non possiamo calcolare il fine pena di un ergastolano con qualche equazione?

P: Assolutamente no! Sono atti che decidono gli uomini. Al massimo possiamo fare una statistica, un pò approssimativa, ma mi servono dei dati: Quanti ergastolani ci sono? Quanti ne sono usciti? Quanti anni di pena hanno espiato prima di uscire? Quanti ne sono morti prima di uscire? Ecc.

E: In Italia ci sono circa 1700 ergastolani. Qui a Carinola siamo circa 80 ergastolani. Un’altra cosa che Le posso dire è che ogni anno, se un detenuto si comporta bene può uscire tre mesi prima con la liberazione anticipata.

P: Questa è una buona notizia, tre mesi prima a partire da quale data?

E: Tre mesi senza data… tre mesi… prima.

P: Con questi dati difficilmente possiamo fare qualche calcolo, ma comunque proviamoci facendo qualche ragionamento. La matematica è ragionamento. In questo caso dobbiamo utilizzare la statistica. Ogni giorno questi 1700 ergastolani espiano, con la liberazione anticipata di cui lei mi parlava, 5 anni e 10 mesi, in una settimana 35 e 7 mesi, e così via. Un’altra cosa che sappiamo è che sono entrati nel corso degli anni  e non in un giorno, pertanto dovranno uscire via via. Cioè se si fa espiare mediamente ad ogni ergastolano 35 e 7 mesi, ogni settimana deve  uscire dal carcere un ergastolano.

Secondo le sue conoscenze, ogni settimana, esce un ergastolano?

E: Ma che fa, scherza professore? Ogni settimana.. magari!.

P: Immaginiamo questi ergastolani che posti in fila attendono il trascorrere della loro pena per poter riacquistare la libertà, ipotizzando che questa pena abbia un ipotetico fine e rappresentiamo queste persone con tanti quadratini.

Se la porta si apre ogni anno per fare uscire uno di questi tanti quadratini, cioè ogni anni esce un ergastolano.

E: 1700 anni… e non muore prima?

P: Sì che muore prima, ma poiché la vita media è pari a circa 75 anni, sottraendo gli anni in cui probabilmente e mediamente sono entrati in carcere, 30 anni, non tutti, purtroppo per loro, riusciranno ad ottenere la libertà.

E: Professore non mi dica che possiamo morire in galera?

P: In sostanza 45 persone riacquisteranno la libertà e gli altri 1655, purtroppo o fortunatamente, periranno. Cioè, solo lo 0,026% dei detenuti potrà riacquistare la libertà anche sse l’ultimo dei 45 ergastolani tornerà libero a 75 anni di età.

E: Facciamo che un ergastolano sconti 30-35 anni, ogni quanto tempo si deve aprire la porta?

P: Se si vuole che un ergastolano espii mediamente una pena di 35 anni la porta dell’istituto dovrebbe aprirsi, mediamente, ogni 7 giorni. Qualora, invece, si volesse che espii, sempre mediamente, una pena di circa 70 anni, la porta deve aprirsi ogni 14 giorni.

E: E se non si apre la porta ogni sette giorni?

P: Se ogni 7 giorni almeno un ergastolano non lascerà il carcere, qualcuno, conseguentemente, morirà in carcere!

E: Professore io volevo qualche parola di conforto e Lei mi sta facendo preoccupare.

P: Se non ci sono altri istituti giuridici, purtroppo, la realtà è questa.

E: Veramente, un artificio, tutt’altro che fantasioso, c’è. Molti lo considerano assolutamente immorale, altri immorale ma necessario. In poche parole, si deve consegnare alla giustizia qualcuno che sconti l’ergastolo al posto dell’ergastolano.

P: Tale artificio, così come me lo descrive, consente ad uno dei quadratini dell’esempio di prima di saltare la fila e passare davanti agli altri. Per fare un parallelismo e per sdrammatizzare si può paragonare al metodo che alcuni furbetti utilizzano durante le lunghe attese negli uffici pubblici, alla posta, alla banca, ecc. Si salta la fila!! Differentemente dagli uffici pubblici, nel sistema penitenziario, c’è un “controllore” che consente il salto della fila purché il detenuto consegni altri quadratini da mettere in fila.

E: Mi sembra di aver capito. Ma così gli ergastolani non diventeranno sempre di più?

P: In tal procedere dovrebbe crearsi, come Lei dice, un’inflazione molto rilevante di ergastolani, se non fosse che il passar a miglior vita di alcuni di loro riesce a portare una deflazione e un moderato equilibrio.

E: Professore se facciamo il calcolo sugli ergastolani di Carinola, qualche speranza c’è di non morire in galera?

P: Ritornando al ragionamento di cui abbiamo detto e affidandoci ancora alla madre di tutte le scienze possiamo fare qualche calcolo in modo più realistico. Quanti detenuti ci soo a Carinola?

E: Qui c’è un’alta concentrazione di ergastolani: attualmente siamo circa 80!

P: Quanti ergastolani sono usciti da qui negli ultimi anni?

E: Io sono qui da 15 anni e non ho mai visto nessuno uscire.

P: Questo è un problema, ma per fare qualche calcolo da cui ricavare, per ipotesi, possimo immaginare che ne sia uscito almeno uno. Ottanta per cinque quarti fanno se non erro mille e cinquecento… quindi gli 80 ergastolani in questi 15 anni hanno espiato 1500 anni di pena. Se si proseguirà con questa media ne potranno uscire altri 2, tra cui l’ultimo all’età di 75 anni. Gli altri 77 per la statistica periranno a poco a poco in galera.

E: Quindi io posso essere uno dei due?

P: Si ricordi che abbiamo ipotizzato che il primo sia uscito, ma non è vero!

E: Comunque quanti anni devo espiare prima di uscire?

P: Io veramente non ho parlato di uscire!

E: Senta Professore, prima o poi dovrò uscire. Da morto mi faranno uscire?!

P: Per rispondere alla sua domanda facciamo un altro calcolo, cioè quanti anni potranno espiare gli ergastolani di Carinola prima di morire. Calcolando una vita media di 75 anni e immaginando che siano entrati mediamente all’età di 30 anni, 80 ergastolani X 45 anni x 5/4 (liberazione anticipata) = 4500 anni.

E: Ma non sono troppi?

P: Tutto è relativo, comunque la sua quota è di soli 56 anni.

E: Professore, sa che le dico? La matematica è dura!

P: La scienza di cui stiamo avvalendoci, propriamente non è matematica, è statistica. La statistica è una scienza di derivazione matematica che si occupa di studiare e descrivere la realtà fenomenica nei suoi aspetti di rilevazione numerica.

E: Professore la prego, non mi confondi con questi paroloni, ho la testa piena di numeri.

P: Mi auguro che i miei discorsi siano stati soddisfacenti.

E: Come no?… La ringrazio tanto… ma Lei pensa che con tutti questi numeri in testa riuscirò a prendere sonno stanotte?!

P: Da una recente statistica l’uomo, mediamente, dorme otto ore per notte… se Lei…

E: Professore, per favore, per favore, si fermi… Ho un impegno piuttosto urgente… ci vediamo un altro giorno. La saluto…

P: La saluto anch’io, quando ha bisogno di qualche spiegazione non si crei problemi…

E: Ma Le pare… che io proprio ora… che so tutte queste cose.. mi crei dei problemi…?

 (Francesco Mammoliti)

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Una cena in cella, dialogo tra tre detenuti nel carcere di Spoleto

Pubblicato il 23 febbraio 2010 di Daniela Domenici

Mi è appena arrivato per posta dal carcere di Spoleto dove evidentemente non bloccano la posta in uscita neanche a chi non solo ha l’ergastolo ma addirittura ostativo come Carmelo Musumeci, l’autore di questo delizioso dialogo che ho copiato dal cartaceo parola per parola e che pubblico con piacere.

Carmelo – Ciao Salvatore, entra! Venite Ivano, Carlo. Guardia non chiuda, manca ancora Piero, eccolo! Accomodatevi, ho preparato due spaghetti aglio, olio e peperoncino, due minuti, appena l’acqua bolle buttiamo giù la psta.

Salvatore – Nel frattempo ci facciamo l’aperitivo?

Ivano – Sei appena entrato e già vuoi bere!

Carmelo – Salvatore, prendi il vino, è nel lavandino al fresco sotto l’acqua.

Salvatore – Salute a tutti, ah! Fresco va giù meglio.

Carmelo – Ma come fai ad essere sempre d’ottimo umore?

Ivano – Non è mica scemo, pensa solo a mangiare.

Salvatore – A proposito, non c’è più nulla da mangiare? Il secondo dov’è?

Carmelo – Aspetta un attimo, fammi riscaldare i fagioli e le salsicce.

Salvatore – L’odore è buono!

Carmelo – Ecco, è pronto, metto direttamente la padella in tavola e ci serviamo da soli…

Ivano – Mangiamo…un piatto così non lo fa neppure il cuoco di Berlusconi.

Carmelo – con quest’aria che tira…chissà se ci proibiranno persino di prepararci un piatto caldo da soli…

Beppe – Ottimo!

Ivano – Molla la salsiccia, Salvatore, la tua razione l’hai già presa, non fare il Berlusca…

Carmelo – Calma ragazzi, ce n’è per tutti, ne ho comprato due chili ed ho fatto due piatti per Franco e Angelo.

Ciro – Quanto te l’hanno fatta pagare?

Carmelo – Trenta euro.

Beppe – Ladroni!

Carmelo – D’altronde se quello dell’impresa non fa così come potrebbe mantenersi la Ferrari, l’amante e forse anche il travestito? Tanto se rubi ai prigionieri non vieni mai scoperto.

Ivano – Hai visto che ci hanno aumentato la somma che possiamo spendere al mese…in compenso ci hanno diminuito le paghe…

Beppe – io ‘sto mese ho preso centoventi euro…neppure per le sigarette e dobbiamo inoltre lavorare a turno.

Carmelo – Mangiate, ci sono rimasti solo i fagioli, diamoci una botta.

Ciro – Picchia questo peperoncino! Vogliono cambiare persino la legge Gozzini…

Carmelo – Questa è buona, io sono per l’abolizione, per uno che ne usufruisce ne rimangono in galera mille…pensiamo alla salute.

Alla salute

Cin cin

Salute

Alla vostra.

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