Il primo “collocamento” per detenuti


Al via per tre anni in via sperimentale in cinque regioni l’agenzia ANReL, il più importante progetto di recupero mai realizzato in Europa

L’art. 27 della Costituzione Italiana recita che le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”, una rieducazione che deve puntare al recupero umano, sociale e spirituale della persona.  E  proprio questo è l’obiettivo che si propone il progetto di una “agenzia di collocamento” per i detenuti varato su iniziativa del Ministro della Giustizia Angelino Alfano e del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap), Franco Ionta. Un progetto che riceverà dalla Cassa delle Ammende del
 Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria la somma di 4,8 milioni di euro, nasce da una convenzione quadro siglata con il Ministero della Giustizia e sarà gestito dalla Fondazione “Mons. Di Vincenzo”.

Si chiama Anrel (Agenzia Nazionale Reinserimentoe Lavoro) ed è stata subito definita come il “più importante progetto di recupero dei detenuti ed ex detenuti”. Al via in cinque regioni pilota (Sicilia, Campania, Lazio, Lombardia e Veneto) si propone di dare un’alternativa a circa 1.800 ex-detenuti avviati al lavoro; di questi 1100 dovrebbe essere collocati in cooperative sociale, 550 come dipendenti e 150 avvieranno nuove imprese o si aggregheranno a progetti esistenti. Cento in totale le imprese che – stimano i promotori – potranno essere costituite dai detenuti. Sarà creata una banca dati dove inserire i curriculum (circa seimila) dalla quale i datori di lavoro possano attingere informazioni e, eventualmente, risorse. Tra gli obiettivi, la presa in carico delle famiglie dei detenuti con la creazione di Cittadelle su territori confiscati alle mafie. 

Alla guida del progetto di recupero c’è il Movimento Ecclesiale “Rinnovamento nello Spirito Santo”, di cui è presidente Salvatore Martinez, in collaborazione con altre realtà, tra cui: Caritas Italiana, le Acli, Coldiretti e Prison Fellowship International.

ANReL è una vera e propria “agenzia di collocamento” che opererà attraverso percorsi personalizzati di orientamento, di formazione, di avviamento al lavoro, d’inserimento professionale, borse lavoro, attraverso partnerariati con le principali organizzazioni sociali e datoriali, con un significativo cofinanziamento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dei Partner operativi e attuatori.

Si tratta del primo e più grande incubatore di buone prassi sociali per la redenzione e la rigenerazione del mondo carcerario mai realizzato in  Europa, un intervento concreto per un percorso di recupero sociale, umano e spirituale dei detenuti, ex detenuti e delle loro famiglie, da sottrarre all’influenza e al controllo della criminalità organizzata che, attraverso la vicinanza alle famiglie dei detenuti, punta a intrappolare sempre più una persona nella ragnatela della criminalità e della devianza sociale.

Partenza in 5 regioni

Destinatari, in via sperimentale e per un percorso triennale, sono i detenuti e gli ex detenuti delle Regioni Sicilia, Campania, Lazio, Lombardia e Veneto – che ospitano oltre la metà della popolazione carceraria in Italia – con il coinvolgimento attivo dei nuclei familiari dei soggetti coinvolti. Sono oltre 68.000 oggi i detenuti nelle carceri italiane; di questi 7.500 lavorano in parte alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, in parte per datori di lavoro esterni o in proprio (dati DAP). Nella prima fase il progetto porterà ad un ampliamento dell’anagrafe della popolazione carceraria (banca dati) fino a 6.000 soggetti, ad un aumento del numero di detenuti avviati al lavoro pari a 1.800 soggetti e all’ampliamento del numero di imprese costituite da detenuti che, nel primo triennio dovrebbero essere già più di 100. Nel corso degli anni, si potrà inoltre procedere in modo graduale al coinvolgimento di altre regioni italiane.

L’avvio delle attività

L’operatività si concretizza in una serie di fasi e di piani di azione: dalla costruzione di una banca dati dei profili professionali dei detenuti ed ex-detenuti coinvolti, all’avvio di percorsi di formazione personalizzati; attività di informazione e sensibilizzazione di soggetti pubblici e privati per ampliare il target di potenziale impiego delle figure professionali disponibili; sostegno alle iniziative e ai progetti di imprese sociali;  tutoraggio e accompagnamento continuo dei soggetti presi in carico dall’Agenzia e aderenti al Progetto. Saranno immediatamente avviati contatti per la proposta, il coinvolgimento e l’accesso dei detenuti al progetto mediante apposita informativa; a 6 mesi dall’avvio del progetto è prevista la partenza dei percorsi di formazione. Il lavoro con i detenuti inizierà già durante il loro soggiorno in carcere; nelle 5 regioni coinvolte saranno creati centri di coordinamento sul territorio e centri di consulenza.

Polo di Eccellenza in Sicilia

ANReL conta oggi sull’esperienza pilota realizzata in Sicilia, presso il Polo di Eccellenza della solidarietà e promozione umana “Mario e Luigi Sturzo”. Avviato nel 2003, alle porte di Caltagirone, su un Fondo agricolo di 52 ettari appartenuto agli Sturzo, dotato di un antico Casale e di un Baglio oggi rifunzionalizzati. Ad oggi sono stati coinvolti nel progetto 12 detenuti ed ex-detenuti, impegnati in attività di formazione umana e professionale altamente specializzati focalizzate sulle attività peculiari della tradizione del territorio, quale la produzione delle famosissime ceramiche di Caltagirone, la coltivazione, la trasformazione e il confezionamento di prodotti agricoli.

da http://www.vita.it

Carceri: Rita Bernardini continua lo sciopero della fame


E’ la seconda settimana di sciopero della fame per Rita Bernardini, deputato Radicale eletto nel Pd, membro della commissione Giustizia. Una ”protesta non violenta” assieme ad altri compagni di partito per ”scandire i tempi dell’illegalita’ che si protrae da anni nelle carceri italiane” ha ricordato la Bernardini oggi in una conferenza stampa dei Radicali alla Camera. Una situazione esplosiva che
”viaggia ad un ritmo di 700-800 detenuti in piu’ ogni mese – ha detto la Bernardini – e che per l’estate arrivera’ a contare 70 mila unita’ a fronte di 43 mila posti disponibili negli istituti italiani”.
I Radicali esprimono comunque un giudizio positivo sul ddl Alfano che ”si sta muovendo nella direzione giusta per quanto riguarda la messa in prova e le pene alternative”. Ma la Bernardini ha sottolineato l’esigenza di inserire modifiche nel
disegno di legge, per il quale sono stati presentati degli emendamenti, affinche’ non vadano esclusi i condannati per i reati come terrorismo, associazione mafiosa, traffico di droga e per coloro condannati per evasione dagli arresti domiciliari.
Assieme alla Bernardini oggi alla Camera anche il segretario dei Radicali italiani, Mario Staderini, Luigi Manconi, presidente di ‘A buon diritto’, Irene Testa dell’associazione ”Il detenuto ignoto” (che partecipa anche allo sciopero della fame) e Giulio Petrilli responsabile Dipartimento diritti e garanzie del Pd della Provincia dell’Aquila. Ma anche la carenza di organico negli Istituti penitenziari, ha spiegato oggi Rita Bernardini produce effetti devastanti sia nella gestione delle carceri che sullo stesso personale della Polizia penitenziaria. ”Servono piu’ agenti, educatori, psicologi e figure sanitarie” hanno sottolineato i Radicali in conferenza. Per non parlare ”del fatto che i detenuti che svolgono un lavoro all’interno delle carceri sono solo il 15% mentre gli altri stanno 20-22 ore in cella senza fare nulla”. Sulla situazione della Polizia penitenziaria la Bernardini ha ribadito l’esigenza di ”richiamare a servizio negli istituti tutti quegli agenti ‘imbucati’ in servizio presso il Dap e al ministero della
Giustizia”. Anche i sindacati ”diano una risposta perche’ sono tre anni che non viene rinnovato il contratto di lavoro agli agenti, esiste una disparita’ di trattamento anche nei confronti delle altre forze di polizia. Il segretario dei Radicali Staderini infine ha fatto un appello alla chiesa cattolica, ”che proprio nelle carceri ha i suoi cappellani, per alzare forte la sua voce e farsi sentire dall’opinione pubblica e dalla politica con la stessa forza con la quale parla di aborto, nei confronti della situazione di emergenza delle carceri. Non e’ una provocazione – ha detto – ma un vero e proprio appello”.

da http://ildetenutoignoto.blogspot.com

http://www.radioradicale.it/scheda/302278/conferenza-stampa-di-radicali-italiani-la-giustizia-impiccata-iniziative-nonviolente-in-corso-e-da-intrapr

La situazione. Ancora sull’emergenza carceri. Ma il ministro Alfano e il capo del DAP Ionta, hanno mai visto Poggioreale, l’Ucciardone?


  di Valter Vecellio

Le notizie che arrivano dal carcere sono di una costanza sbalorditiva: i suicidi si susseguono con ritmo settimanale e anche con maggior frequenza. Parliamo dei casi di suicidio “ufficiali”, come l’ultimo nel carcere romano di Rebibbia; dall’inizio di quest’anno sono, ufficialmente una ventina, ed è già una cifra enorme, spaventosa. Ma sono senz’altro di più. Per esempio, non ci sono casi che non vengono rubricati come suicidio in carcere. Poniamo il caso di un detenuto che tenta di impiccarsi, oppure che infila la testa in un sacchetto di plastica e si lascia morire così. Però gli agenti di polizia o i compagni di cella intervengono, e riescono a impedire che muoia, anche se le sue condizioni sono gravi. Il detenuto viene portato subito in ospedale, e dopo due-tre giorni di agonia, lì muore. Ecco, in quel caso non viene contato tra i suicidi in carcere, perché la morte è avvenuta altrove. Poi ci sono casi in cui si parla di malattia, di incidente, magari overdose…Insomma, il numero dei suicidi è di molto superiore a quello ufficiale, che sono comunque tanti. Per ognuno di questi casi parlamentari di buona volontà, radicali ma non solo, anche di altri gruppi, presentano interrogazioni al ministro. Proprio ieri il senatore Francesco Ferrante lamentava di averne presentate almeno una decina, a nessuna delle quali il ministro ha ritenuto di dover rispondere. L’arroganza del silenzio. Dite quello che volete, noi facciamo quello che ci pare.

 “Ristretti orizzonti” è una benemerita, lodevole organizzazione che da Padova, con i detenuti e gli operatori, si occupa dei problemi del carcere. Ogni giorno, da anni, confeziona tra le altre cose, una puntuale, dettagliata newsletter, fondamentale strumento per chi vuole essere informato di quello che accade nel mondo carcerario.

 Qui ci si limita a scorrere i titoli, sufficienti per dare un’idea della gravità della situazione:

Caserta: detenuto muore nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Morto suicida.

Cie di via Corelli a Milano: continua lo sciopero della famedi detenuti che chiedono condizioni migliori all’interno del centro, e una revisione del pacchetto sicurezza.

Roma, carcere di Rebibbia: Daniele Bellante si impicca annodando una striscia del lenzuolo alla finestra della cella.

Carcere di Porto Azzurro: ospita 305 detenuti, ma nel giro di qualche settimana ne dovrà ospitare altri 287; gli agenti di polizia penitenziaria dovrebbero essere 208, sono 126. Porto Azzurro semplicemente esploderà.

Casa di reclusione di Castelfranco, Modena: 95 detenuti, i posti sono 39. Gli agenti di polizia penitenziaria sono 37, il 60 per cento in meno.

Carcere palermitano dell’Ucciardone: 720 detenuti, dovrebbero essere la metà. Gli agenti di polizia penitenziaria sono 300, dovrebbero essere 500.

Milano, carcere di Opera: un detenuto scrive: “Sono malato di cuore. Qualche settimana fa mi sono sentito male. Erano le sette di sera. Un forte dolore al petto e al braccio mi ha messo in ginocchio. Temendo fosse un infarto ho chiesto aiuto. Nessuna risposta. Poi anche i miei compagni hanno iniziato a sbattere sulle grate e a urlare per chiedere aiuto ed è così che alla fine si è presentato un medico”.    

Si potrebbe andare avanti così per ore. Non so se il ministro della Giustizia sia mai andato a visitare un carcere. Probabilmente no, i ministri della Giustizia, non solo l’attuale in carica, si limitano al più alle inaugurazioni, al taglio dei nastri. Però dovrebbe visitarli, vedere in che condizioni vivono detenuti e agenti di polizia penitenziaria, toccare con mano la situazione. Una volta Leonardo Sciascia scrisse che nel bagaglio formativo di ogni magistrato sarebbe stato utile e necessario un soggiorno di tre-quattro giorni in un carcere come quello napoletano di Poggioreale o il palermitano dell’Ucciardone. Per patire in corpore vili quello che per via della loro professione i magistrati avrebbero poi fatto patire a quanti avrebbero dovuto giudicare. E non solo ai magistrati sarebbe utile quel soggiorno, ma anche per senatori e deputati; forse finalmente comprenderebbero quello che tanti mostrano di non riuscire a capire. Al posto del ministro della Giustizia Alfano, del responsabile del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Ionta, non riusciremmo a chiudere occhio, al pensiero di quello che accade in quel mondo della giustizia e del carcere di cui sono titolari e responsabili. Ma tutto fa invece pensare che riescano a dormire benissimo; e allora toccherà a noi fare sì che si scuotano dal loro olimpico e sereno distacco, che si destino.

Questa la situazione, questi i fatti. 

 da www.radicali.it

Carceri: un altro decesso fra gli internati di Sulmona. Bernardini al Dap: sono morti annunciate, non c’è tempo da perdere


Dichiarazione di Rita Bernardini, deputata Radicale-Pd, membro della Commissione Giustizia

“Ormai il passare del tempo nelle carceri italiane è sempre più scandito dal macabro conteggio delle morti. L’ultimo decesso fra gli internati del supercarcere di Sulmona era più che annunciato ed era stato preceduto dal suicidio -appena sei giorni fa- di un altro tossicodipendente come lui. Come si fa a mettere una persona così bisognosa di cure sia materiali che psicologiche in una cosiddetta casa di lavoro dove il lavoro non c’è e dove si sta chiusi in cella tutto il giorno senza fare alcunché?
Sembra invece confermata la notizia, che denunciavo alcuni giorni fa sottolineando l’irresponsabilità del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, secondo la quale nel supercarcere di Sulmona si mandano via i detenuti comuni per portarci altre decine di internati. Gli internati, lo ricordiamo, sono coloro che dovrebbero finire nelle cosiddette “case lavoro” per “ragioni di sicurezza” avendo già espiato la pena e perciò pagato il loro conto con la giustizia. Io credo che il DAP debba necessariamente rivedere l’insensata “politica” messa in atto fin qui, prevedendo per i tossicodipendenti e i disagiati psichici strutture alternative dove possano essere seguiti e curati”

Empoli: il ministero ha bloccato l’arrivo dei detenuti transessuali


Bloccato. Questa volta l’inghippo viene dal ministero. Angelino Alfano ha messo il veto al trasferimento dei transgender da Sollicciano a quello di Empoli. E la struttura di Pozzale rimane ancora vuota e improduttiva, sulle tasche dei contribuenti. Doveva essere aperto il 9 ma a ieri non si sa quale sarà il suo destino. Il progetto dei transessuali è stato congelato. Quale è, però, il motivo di questo ennesimo blocco dopo che il carcere è vuoto da quasi un anno? Sconosciuto. La domanda è stata girata all’amministrazione penitenziaria. Ma il provveditore, Maria Pia Giuffrida, non c’è. Dall’ufficio spiegano che: “la situazione è stata fermata dal ministero, siamo in attesa di ulteriori disposizioni”.

Altro non emerge. Se non che il carcere di Pozzale, che era femminile a custodia attenuata, è vuoto da quasi un anno ormai e che i lavori di riconversione sono ormai terminati e collaudati da tempo. Tanto che era stato predisposto anche un corso di formazione per il personale che doveva lavorare nel carcere. E che a un tratto è stato sospeso in attesa di ulteriori disposizioni. Che il ministro Alfano ci abbia definitivamente ripensato e che abbia optato per una diversa categoria di detenuti? Forse Pozzale avrà un destino diverso.

Ma rimangono gravi il susseguirsi di ritardi e il fatto che tutto questo avvenga a dieci chilometri da una struttura, quella dell’Opg, dove gli ospiti sono ammassati in celle vecchie, sporche e inadeguate. Nel frattempo il garante per i detenuti di Firenze Franco Corleone ha lanciato di nuovo un appello per Pozzale. “Lo chiedo ancora una volta: cosa succede nel carcere di Empoli? – ha detto – dal 9 marzo doveva ospitare detenute transessuali, invece è ancora vuoto. E questo di fronte a un sovraffollamento che riguarda tantissime situazioni, da Sollicciano al carcere minorile di Firenze.

Proprio al Comune, tra l’altro, abbiamo chiesto di trovare una sede per i detenuti in semilibertà”. Non solo. Corleone va avanti. Un’iniziativa giudiziaria, sotto forma di denuncia, contro Franco Ionta, capo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria e, forse, anche nei confronti di Angelino Alfano, ministro della giustizia, per la violazione del regolamento di esecuzione per l’ordinamento penitenziario del 2000 che riguarda il trattamento dei detenuti e le loro condizioni di vita in carcere. È questa l’ipotesi su cui sta lavorando Franco Corleone, garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze.

“Ci riferiamo all’area fiorentina – ha detto Corleone – ma ci sono situazioni simili in Italia”. Corleone ne ha parlato ieri mattina. “Stiamo valutando, con i nostri avvocati, se ci sono gli estremi”, ha aggiunto il garante. “Il Dap ha sempre spiegato la mancata applicazione del regolamento con la scarsità di risorse ma ora i fondi ci sono: 500 milioni dalla Finanziaria per il piano carceri e altri 150 dalla cassa ammende. Non ci sono più scuse”.

da www.ristretti.it

“Chi vigila sul controllore” di Carmelo Musumeci dal carcere di Spoleto


Sarebbe importante che il luogo carcere diventasse spazio aperto per i giornalisti.

L’appello del giornale “Il Manifesto”  e dell’Associazione Antigone per  favorire l’accesso ai giornalisti in carcere è di fondamentale importanza.

 La prigione è un mondo ignoto per tutti quelli che sono liberi:  far  conoscere ai cittadini l’inferno che i politici hanno creato e mal governato sarebbe vitale per portare la legalità in carcere.

Sarebbe importante che i giornalisti, e quindi i cittadini, sapessero degli abusi, dei soprusi, delle ingiustizie, dei pestaggi e delle  violenze che accadono in carcere.

Sarebbe di grande interesse che i cittadini sapessero che la galera in questi ultimi anni è diventata uno spazio solo per “allontanare, emarginare, isolare e controllare” il disagio sociale.

Sarebbe importante che i cittadini sapessero che in carcere  ci sono sempre  meno delinquenti e sempre più emarginati, tossicodipendenti, barboni, extracomunitari e “avanzi sociali”.

Un carcere trasparente e aperto alla stampa, come qualsiasi luogo pubblico, ovviamente con delle regole, farebbe bene al carcere, ai detenuti e alla polizia penitenziaria, per affrontare le contraddizioni di questo “non luogo”.

Rendere trasparente il luogo carcere farebbe bene alla democrazia.

 In questi anni alcuni giornalisti, anche qualcuno della stampa estera, hanno cercato d’intervistarmi per il mio attivismo per l’abolizione dell’ergastolo e, anni fa,  per essere stato uno dei promotori di una lettera al precedente Presidente della Repubblica, firmata di 310 ergastolani, per tramutare l’ergastolo ostativo in  pena di morte.

Il Dipartimento Amministrativo Penitenziario ha sempre negato l’autorizzazione affinché qualsiasi giornalista mi potesse intervistare,  come se non solo il mio corpo ma anche i miei pensieri fossero prigionieri dell’Assassino dei Sogni (come io chiamo il carcere).

Non molto tempo fa “ Tg3 Linea notte” mi aveva chiesto un’intervista,  ma non ho saputo più nulla e ne deduco che anche stavolta il DAP non l’abbia autorizzata.

Le uniche interviste che ho potuto rilasciare, finora, sono state solo per iscritto.

Mi viene spontanea una domanda:

-Perché l’Assassino dei Sogni ha paura che si sappia com’è fatto, cosa fa e cosa pensa?

Spero che un giorno non lontano i giornalisti possano entrare in carcere per fare conoscere all’opinione pubblica quello che accade nelle prigioni di stato  e per far sapere perché molti detenuti preferiscono suicidarsi che vivere. Ma questo ve lo posso dire anch’io:  il carcere in Italia non ti toglie solo la libertà, ti toglie soprattutto la dignità, ti prende a calci l’anima, ti strappa il cuore e ti ruba quel poco d’amore che ti è rimasto dentro.

 In questi nostri giorni, innocenti o colpevoli, tutti possono entrare in carcere,  ed è meglio per tutti che si  sappia quello che si può trovare dentro.

Carceri: nasce il concorso letterario “Racconti dal carcere”


Nasce il Concorso letterario “Racconti dal carcere”, per la prima volta si ritroveranno insieme, sulla pagina, detenuti e scrittori di fama. La scrittura in carcere, il racconto autobiografico, l’incontro tra persone recluse e scrittori. Detenuti che raccontano di sé, che esplorano la propria esistenza attraverso la scrittura e che potranno avere l’occasione di farlo con dei tutor d’eccezione, scrittori affermati che li aiuteranno a dare più compiuta espressione letteraria al racconto della propria vita. E’ questa in sintesi l’idea da cui è nato il concorso letterario “Racconti dal carcere”, intitolato a Goliarda Sapienza, attrice teatrale e cinematografica, scrittrice che visse anche l’esperienza del carcere.

Il concorso è stato ideato da Antonella Bolelli Ferrera, giornalista e autrice di Radio3 Rai, promosso dalla Siae e dal Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. E con Dacia Maraini in veste di madrina. Un contributo concreto – sottolineano gli organizzatori – al principio della rieducazione del condannato sancito dall’articolo 27 della Costituzione, che promuove l’incontro tra scrittori, mondo editoriale, Siae e amministrazione penitenziaria.

Franco Ionta, Capo del Dap, ha accolto con convinzione l’invito rivolto da Giorgio Assumma, Presidente della Siae, a promuovere il concorso letterario negli istituti penitenziari perché, ha affermato, “la rieducazione delle persone condannate è un processo personale, che riguarda l’individuo, ma che non può prescindere dal contributo concreto e costante della società, dalla sensibilità e dall’interesse autentico di tutti coloro che, persone singole e istituzioni, si rivolgono al mondo della detenzione. Ben vengano, quindi, iniziative come queste, che rafforzano il rapporto tra carcere e società”.

Per il Presidente Giorgio Assumma “la Siae può dare un contributo significativo al concorso e il lavoro intellettuale della scrittura è una risorsa preziosa di elevazione spirituale e questa iniziativa può contribuire alla superiore finalità rieducativa della pena prescritta dalla nostra Costituzione”.

Fonte APCOM

Da www.notizie.virgilio.it

Il ministro della Giustizia tace e i suicidi aumentano


“Il silenzio del ministro della Giustizia Angelino Alfano e del capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, è a dir poco indecente. In appena sette giorni, nelle carceri italiane si sono tolti la vita quattro detenuti. È un ritmo tragico, che minaccia di ripetere e sopravanzare il cupo record dell’anno scorso, quando si sono verificati ben 72 suicidi: la cifra più alta dell’intera storia penitenziaria della repubblica. Il sovraffollamento, che ha raggiunto livelli intollerabili, ha un ruolo determinante nell’indurre a queste scelte estreme:  e se è vero che ogni suicidio è una storia a sé e tutti i suicidi hanno molteplici cause, va considerato un dato assai preoccupante. Ovvero il fatto che in ben tre casi su quattro la modalità scelta dai suicidi sia stata l’impiccagione: il che segnala un pericoloso fenomeno di emulazione. Su tutto ciò, a partire dal dato generale (in carcere ci si uccide 17 volte più di quanto si faccia fuori dal carcere), ministro e responsabili dell’amministrazione continuano a tacere, incapaci anche solo di indicare misure e politiche, in grado di fermare questa strage”. 

da www.innocentievasioni.net


  

 

 

Il nostro personaggio dell’anno: Stefano Cucchi


Vogliamo ricordare questo giovane perché la sua morte non sia vana. Non era un eroe, non era un martire, non era un personaggio pubblico e non era famoso. Era solo un ragioniere di 31 anni con tanti problemi. Come tanti ragazzi come lui aveva solo bisogno di cure e di amore. Per lui lo stato ha scelto il carcere e la morte.

 Il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e Capo della Polizia Penitenziaria Franco Ionta, in relazione alle indagini svolte dalla Procura di Roma per il decesso di Stefano Cucchi, esprime piena fiducia nell’operato degli organi inquirenti.

Il Capo del DAP rivolge parole di stima e riconoscimento agli uomini della Polizia Penitenziaria che, pur nella difficile situazione in cui si trovano ad operare, a causa del sovraffollamento e della carenza di organico, assicurano le condizioni di legalità nelle carceri, con piena professionalità, spirito di sacrificio e senso di umanità.

Il Capo del DAP si dichiara orgoglioso del Corpo di Polizia Penitenziaria che con senso del dovere continua quotidianamente a svolgere il proprio operato.

E’ a queste persone, dichiara Franco Ionta, che dobbiamo solidarietà e rispetto.

E noi concordiamo con Ionta. Ne condividiamo completamente la dichiarazione, riconoscendo alla polizia penitenziaria un ruolo insostituibile nel’amministrazione della giustizia. Sono uomini che lavorano in condizioni difficili, con una popolazione carceraria doppia rispetto alle capacità del sistema, abituati a convivere con un sentimento che si chiama “paura”, un sentimento che da bravi cittadini deleghiamo in cambio di un salario, a questi oscuri lavoratori.

Mai abbiamo pensato di mettere sotto accusa la loro categoria. Anzi, ogni giorno siamo coscienti di dover rivolgere loro un pensiero di gratitudine e di riconoscenza.    

Questo non toglie l’obbligo di capire perché un ragazzo normale, con i suoi problemi e la sua famiglia a sostenerlo è morto dopo sei giorni dal suo arresto, un ragazzo qualunque, con i suoi amici, la palestra e la Lazio allo stadio la domenica.  Forse un po’ più fragile ma allo stesso tempo pieno di vita e di amore. Purtroppo però è morto: solo dopo sei giorni il suo ingresso in carcere, dopo il suo arresto perché è stato trovato in possesso di alcune dosi di sostanze stupefacenti. Come è morto si sa. È stato picchiato, umiliato e lasciato morire in una barella. Per mano di chi è morto ancora no. Perché sotto accusa sono finiti nell’ordine secondini, carabinieri, agenti, medici. Ma ancora non si riesce a capire di chi sia la responsabilità

La famiglia ha avuto il coraggio di pubblicare le immagini di quel corpo straziato dalle botte restituito ai suoi cari solo dopo l’autopsia. Un corpo esile, con una smorfia di terrore che rimarrà scolpita per sempre nel cuore degli italiani. Come lo ha definito il referto «è morto in modo disumano e degradante». Se non fosse stato per quelle immagini probabilmente questa storia sarebbe rimasta ai margini dei giornali.

Ma la storia di Stefano, nella sua tragicità, ha avuto i suoi aspetti positivi. Perché questa triste vicenda ha costretto tutti a prendere atto delle proprie responsabilità. A cominciare dai benpensanti sempre pronti a erigersi a giudici delle disgrazie altrui, a cominciare dal ministro Giovanardi, che dopo qualche esternazione sciocca, ha dovuto chiedere scusa alla famiglia e al popolo italiano. Utile a risvegliare le coscienze di tutti coloro che ancora credono nello stato di diritto, che hanno a cuore le istituzioni, la civiltà che nasce e si misura anche negli istituti di rieducazione. Utile allo Stato che non ha recitato la solita parte ma ha da subito attivato i meccanismi di indagine: anche se ancora però non si riesce ad abbattere il muro di omertà e l’insopportabile rimpallo di responsabilità. Utile alla politica che si è ritrovata unita nel non ricercare alcuna forma di autoassoluzione, e lo ha fatto istituendo un comitato unitario. Utile alla società civile, che dalle piazze ai forum della rete, si è stretta attorno alla famiglia chiedendo con civiltà una sola cosa: verità per Cucchi.

Ecco perché è giusto e doveroso mantenere alta l’attenzione mediatica e politica su questa storia. Lo dobbiamo a Stefano che nel 2010 non ci sarà. Lo dobbiamo alla sua famiglia che ha così decorosamente e con senso civico esemplare lottato per la verità. Lo dobbiamo al figlio di Ilaria, la sorella di Stefano, che si chiede il perché suo zio non tornerà a giocare con lui.

Ecco perché Stefano Cucchi è il personaggio dell’anno.

Perché ci ha costretto ad affrontare problemi tabù come quello delle carceri e della violenza.

Perché fare i conti con la sua storia sarà la cartina tornasole di che paese siamo. Di che razza di paese racconteremo ai nostri figli se non facciamo nulla affinché questa storia si concluda con una sola parola: giustizia.

da www.informarezzo.com

Cucchi, il Dap: “Una morte che viola i diritti umani”


Stefano Cucchi Stefano  

La di Stefano Cucchi è stata una “continuativa mancata risposta alla effettiva tutela dei di­ritti” proprio mentre era nelle mani dello Stato e della sua burocrazia. Mancanze che “si sono sus­seguite in modo probabilmente non coordinato e con condotte in­dipendenti tra loro”, ma questo non assolve nessuno. A comincia­re dal personale dell’amministra­zione penitenziaria, agenti compre­si. Le possibili colpe di “altri orga­ni e servizi pubblici” dai quali Cuc­chi è transitato, non attenuano “la responsabilità di quanti, apparte­nendo all’amministrazione peni­tenziaria, abbiano partecipato con azioni e omissioni alla catena della mancata assistenza”.

Queste le conclusioni dell’indagine della Direzione genera­le delle sulla fine del tossico­dipendente arrestato dai carabinie­ri e deceduto all’ospedale Sandro di Roma, dov’era stato rico­verato per le fratture subite. La magistratura ipotizza che sia stato pic­chiato nelle celle di sicurezza del tri­bunale di Roma dagli agenti peni­tenziari, ma non si sa bene ancora dove, quando e da chi. La rela­zione della commissione formata da Sebastiano Ardita, Maria Letizia Tricoli e Federico Falzone e altri funzionari del Dap è stata inviata al­la procura di Roma, che la valuterà e ne trarrà eventuali conseguenze.

Il rapporto del Dap dà atto delle “condizioni lavorativa­mente difficili” in cui gestiscono gli arrestati e i detenuti in attesa di giudizio nei sotterranei del tribuna­le di Roma. Ma spiega che “risulta difficile accettare che il personale non sia stato posto a conoscenza neppure dell’esistenza della circola­re per l’accoglienza dei ‘nuovi giun­ti’ (quella con le regole sulla ‘pri­ma accoglienza’ ai detenuti, ndr)” . Non c’era, ad esempio, il registro coi nomi degli arrestati e l’annota­zione dei movimenti con gli orari.

Le camere di sicu­rezza del tribunale di Roma versa­no, inoltre, in condizioni degradate e degra­danti, perché hanno spazi ridotti, non ci sono servizi igienici, non prendono aria né luce dall’esterno ed è possibile che lì vengano richiu­se persone rimaste a digiuno anche da ventiquattr’ore: “All’atto del so­pralluogo le condizioni igieniche presentano evidenze di materiale organico ormai essiccato sui muri interni (vomito) che risultano in parte ingialliti e sporcati con scrit­te. Sul pavimento, negli angoli, si ri­levano accumuli di sporcizia”.

 In questi ambienti, secondo gli elementi d’accusa raccolti finora dalla procura di Ro­ma, Stefano è stato aggredi­to dagli agenti penitenziari, suben­do le fratture che hanno portato al ricovero sfociato nella del pa­ziente-detenuto. Gli ispettori del Dap non traggono conclusioni sul (per cui sono indagate tre guardie carcerarie e non i carabi­nieri che avevano arrestato la sera prima dell’udienza in tribu­nale, i quali hanno riferito e dimo­strato di non essere stati presenti nelle camere di sicurezza del tribu­nale) rimettendosi alle conclusioni dell’indagine giudiziaria. Però indi­cano la cronologia degli eventi at­traverso le testimonianze, a comin­ciare da quella dell’infermiere del Servizio 118 che visitò la notte dell’arresto, tra il 15 e il 16 ot­tobre, nella stazione dei carabinieri di Torsapienza. Trovò il giovane in­teramente coperto, e poco o per nulla collaborativo. “Ho cercato di scoprirgli il viso per verificare lo stato delle pupille e guardarlo in volto… C’era poca luce perché nella stanza non c’era la luce accesa… Ho potuto notare un arrossamento, ti­po eritema, sulla regione sottopal­pebrale destra. Non potevo vedere la parte sinistra perché il paziente era adagiato su un fianco”.

L’infermiere, visto che “comunque rispondeva a tono e ri­fiutava ogni intervento”, se n’è an­dato dopo mezz’ora. I carabinieri avevano chiamato il 118 “riferendo di una crisi epilettica”, ma il neuro­logo dell’ospedale Fatebenefratel­li  che ha visitato il detenuto la se­ra del 16 ottobre riferisce che Cuc­chi «precisò che l’ultima crisi epilet­tica l’aveva avuta diversi mesi fa”. Al dottore, come ad altri, disse che era “caduto dalle scale”, ma nella relazione del Dap sono ri­portate anche testimonianze di al­tro tenore. Dall’incontro di con altri detenuti, durante il quale faceva il sacco,  all’ammissione del ragazzo che a domanda rispose “sono stato pestato al momento dell’arresto”.

 Quanto al ricovero nel reparto carcerario dell’ospedale — a parte l’odissea vissuta dai geni­tori di che non sono riusciti a vederlo né ad avere notizie, e han­no saputo della solo dalla no­tifica del decreto che disponeva l’autopsia — il giudizio finale è che le regole interne dell’ospedale ab­biano finito per incidere perfino su residui spazi che risultano assoluta­mente garantiti nella dimensione penitenziaria. Ragione per cui il trattamento finale del degente-de­tenuto è risultato essere la somma di tutti i limiti del carcere, dell’ospe­dale e della burocrazia”.
 
Per gli ispettori questa vicenda “rappresenta un indicatore di in­sufficiente collaborazione tra re­sponsabili sanitari e penitenzia­ri”, e certe giustificazioni avanza­te da alcuni responsabili “non me­ritano qualificazione”. In conclu­sione, “risulta censurabile l’opera­to complessivo nei confronti del detenuti e dei suoi familia­ri, in particolare nell’ambito del ‘’, laddove non è stata po­sta in essere delle prescrizioni vol­te all’accoglienza e all’interpreta­zione del disagio del detenuto tos­sicodipendente”.

 da www.blitzquotidiano.it