Ci sono persone che hanno seppellito altre persone che amavano. E aspettano di sapere perché. La verità non elimina il dolore, non lo rende meno agro. Almeno porta una consapevolezza, una spiegazione che è riposo, se non sollievo. Questo non si capisce e non si è mai capito nel paese che pensa ai vivi, tanto i morti sono morti. E ha codificato l’andazzo in un proverbio. Invece dovremme pensare ai morti, per badare alla salute dei vivi che ai cadaveri e agli interrogativi sono rimasti appesi, in un infernale gioco dell’oca con le caselle al contrario, in un nascondino che incrudelisce il lutto. Dovremmo alzarci ogni mattina, da cittadini in piedi, con la nevrosi, con l’idea fissa di Ustica, dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, delle stragi del ‘93. Dovemmo impedirci di trovare ristoro, con le nubi dei misteri sempre dense e mai attraversate se non da radi riflessi di verosimiglianza. Tiriamo avanti, acefali e senza cuore, come se il dramma di altri – italiani e siciliani come noi – non ci riguardasse. Come se ogni vicenda fosse un filamento a parte. A chi tocca è toccata. I morti sono morti e noi siamo vivi. E’ il destino, bellezza. Un’ignavia su cui contano le menti raffinatissime di oggi e di ieri. Hanno costruito progetti sull’omertà delle pecore, sulle nostre assuefazioni al non voler sapere. Sì, qualche anniversario ribollisce, saltuariamente e senza che si sappia perché, di indignazione particolare. Ma poi tutto si quieta. Sì, ogni tanto si alza in piedi un signore anzianotto che di mestiere fa il presidente della Repubblica e strepita. Ma poi si ri-siede per un anno. Sì, ogni tanto incrociamo lacrime che ci turbano. Ma poi c’è da discutere sulla nazionale, su Prandelli che deve rifondare il calcio, come se un futuro digiuno di vittorie calcistiche fosse l’argomento all’ordine del giorno delle nostre inquietudini. Intanto le voci diventano più flebili, inudibili. E noi stessi camminiamo senza scopo né sentieri alle spalle. Quello che conta è il passo che imprime l’impronta qui e ora. Contano la pentola e la tv. Per le altre incombenze, ci sono gli storici e sognatori e che facciano il loro dannato mestiere! Spetta a loro parlarci di ieri e domani. Noi di Livesicilia, oggi, nel giorno di Ustica, abbiamo raccolto voci che non vogliono diventare silenzio. Marco Paolini, Salvatore Borsellino, Giovanna Chelli. E speriamo che non durino appena un attimo, che siano un po’ più resistenti dei fiori scarlatti di sangue e memoria che lasciamo appassire senz’acqua né amore sul nostro balcone.
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Ustica non finisce mai
di Roberto Puglisi
MAZARA DEL VALLO. E poi Pasquale Diodato (nella foto), che tutti chiamano Lino, sale le scale della sua casa di Mazara, sale fino a una stanza adornata di immagini e memoria. In diverse foto, in varie pose, in una sorta di lapide moltiplicata, riposano sua moglie Giovanna Lupo, sua figlia Antonella, i figli Vincenzo e Giuseppe. Il 27 giugno del 1980, Giovanna, Antonella, Vincenzo e Giuseppe si legarono al disastro con le cinture di sicurezza del DC 9 Itavia di Ustica. Pasquale accompagnò tutti e quattro all’aeroporto di Bologna. Era la vigilia delle ferie. I saluti delle partenze non si ricordano, quando segue la normalità degli arrivi. Ma, da quel giorno, gli ultimi sorrisi della signora Lupo e dei suoi figli sono rimasti sospesi in una nuvola che accompagna la vita di Lino. Lui si porta appresso la sua nube. Le foto al muro sono gocce di pioggia in continua caduta su ciò che è stato perduto. Lino è stato muratore. Anche nella vecchiaia i muscoli restano possenti, seppure piegati. Gli occhi si inumidiscono, le parole si stringono in un nodo alla gola. Trent’anni non bastano se il dolore continua a urlarti dentro come una bestia. E non c’è risarcimento che tenga e non c’è consolazione che sollevi, quando la verità, dopo tre decenni, è ancora quasi impalpabile, dissolta come i corpi in mare. Mntre Lino racconta, un coro muto lo ascolta in condolente partecipazione. Ecco la sua nuova moglie e il suo nuovo figlio. Sono coloro che vennero dopo Ustica e che hanno scelto di portare un macigno che non gli apparteneva. La donna ha scelto subito, accettando di sposare un uomo con un bagaglio carico di fotografie e lacrime. Il ragazzo ha scelto col tempo, imparando a circondare di tenerezza la ferita nel cuore di suo padre, a suo modo è stato una medicina portentosa il farmaco dell’ineluttabile. Il figlio postumo accarezza le foto degli altri figli che morirono: “Li ho sempre considerati come miei fratelli. Infatti mi chiamo Vincenzo, come il mio fratellino che non conosco, macinato nella sciagura”. Il primo Vincenzo aveva dieci anni e non crescerà mai più, rimarrà con quella dolce e interrogativa espressione infantile nel ritratto appeso al muro. Il secondo Vincenzo ha superato il confine dell’età bambina. E’ partito dopo ed è approdato più lontano, come un sasso scagliato nel mare per rabbia e per speranza. Lino con gli occhi umidi parla: “Non ce l’ho con i politici di adesso. Non ce l’ho con i militari che eseguono gli ordini. Ce l’ho con i signori onorevoli di allora, con chi ha depistato, con chi ha allontanato, con chi ha impedito che saltassero fuori la responsabilità. Non ci sono soldi per pagare questa infamia”. I soldi del risarcimento, Lino il muratore, li ha presi. E gli sono serviti a poco. “Non ho potuto dare un lavoro, una prospettiva a Vincenzo (il nuovo figlio). L’assicurazione voleva pagare quindici milioni per i miei. Teneteveli, ho detto. La vita dei miei cari non vale così poco”. Antonella aveva sette anni, Giuseppe solo dieci mesi. Lino racconta col passato prossimo, tempo e modo della vicinanza desiderata: “Li ho messi sull’aereo, ci siamo salutati. La mia era una famiglia allegra. Ricordo ogni sguardo, ogni frase, ogni piccolo dettaglio. Mi sono sistemato in macchina. All’ora dell’incidente ho sentito una fitta, un cazzotto allo stomaco. Sì, lo so che può sembrare incredibile, però è andata così. Me la sono presa con me stesso: Lino, che vai a pensare”. Lino-Pasquale avrebbe raggiunto i suoi dopo, nella terra natale di Sicilia, per le vacanze. Il programma di un’estate serena era tracciato e sorvegliato da un radar benevolo. A Punta Raisi, a Palermo, c’erano i nonni e gli zii. Aspettavano la famiglia Diodato per indirizzarla lungo la strada di un giugno accogliente. Il resto è la storia di tutti i parenti degli ottantuno passeggeri del DC 9 Itavia. E’ la storia degli alibi, dell’aereo che non atterra perché c’è ritardo, forse sta girando sull’aeroporto, forse chissà che diavoleria è accaduta. Invece, mentre sbocciavano le domande e cominciavano a tingersi d’angoscia, tutto era già compiuto. Lino parla. Ha una faccia da muratore stanco. Troppi muri, troppa polvere. La ricostruzione della sua integrità, ammesso che ci sia riuscito, è stata lenta e faticosa. “Ci sono poche persone che devo ringraziare. Ringrazio gli avvocati Vanessa e Vincenzo Fallica che ci hanno assistito con scrupolo, Ringrazio la signora Bonfietti che tanto ha lottato perché altrimenti non ce l’avremmo mai fatta. Ringrazio Andrea Purgatori, il giornalista che ha scopertto il mistero di Ustica. Senza di lui nulla sarebbe emerso”. Lino non può sapere che proprio in questi giorni è morto, a 48 anni, Corso Salani, l’attore che dava volto e voce al cronista coraggioso ne “Il muro di gomma”. Lino non ha mai voluto vedere quel film che è servito soprattutto agli altri, a quelli che non c’erano, né dentro, né intorno a quel maledetto aereo. Salani ha organizzato il suo decollo, quasi alla vigilia del trentennale del disastro che così profondamente ha incarnato. Sempre le rotte sono misteriose in ogni tipo di viaggio. E poi, quando il fiato si scioglie in risacca, quando non c’è più nulla da sussurrare, quando non è più possibile stringere le dita tra le dita senza spezzarle, Pasquale Diodato che tutti chiamano Lino sale le scale della sua casa, sale fino alla stanza di Ustica. Dice: “Li ho davanti agli occhi, nel mio cuore, in ogni giorno, in ogni momento. Non passa mai. Non finisce mai”. E sua moglie, la donna con gli occhiali che è venuta dopo la tragedia, la donna che è arrivata per raccattare i cocci, annuisce e piange anche lei. Non ha mai rifiutato la memoria della famiglia precedente e il riflesso di un’altra che fu madre e moglie dello stesso sguardo. Ha condiviso le spine, ha accolto le foto, ha abbracciato le poche gocce di sole e le molte gocce di pioggia. Ha preso il buco nero di Ustica e, nel suo campo straziato, ha seminato indicibile amore.