Disabili in viaggio, le regole, i diritti


di Franco Bomprezzi

Ho atteso qualche giorno. Avevo letto subito su Repubblica.it la denuncia di Shulim Vogelmann, giovane scrittore nato a Firenze, di cultura ebraica e cittadinanza anche israeliana, testimone di un trattamento discriminatorio nei confronti di un viaggiatore disabile in treno. Un racconto a tinte forti, pieno di particolari, ma anche, per certi versi, ai limiti dell’incredibile, pur essendo io, abbastanza logicamente, pronto a prendere le parti di una persona con disabilità che venga maltrattata.

La storia è nota ormai quasi a tutti, perché è diventata una delle notizie più commentate e riprese da giornali, tv e radio a fine d’anno. Una storia di ordinaria maleducazione, peggio, di maltrattamento verbale da parte del personale delle Ferrovie e della Polfer, nella totale indifferenza degli altri passeggeri, tranne lo scrittore, che racconta tutto per filo e per segno. In estrema sintesi un ragazzo disabile probabilmente romeno, privo di braccia, sale in treno senza biglietto ma con i soldi giusti pronti per pagarlo. Siamo sull’eurostar Bari-Roma del 27 dicembre. Atteggiamento ostile del controllore donna, parole pesanti nei confronti dei disabili da parte degli agenti della Polfer, unico paladino del malcapitato disabile è lo scrittore che peraltro non provvede direttamente a pagare il biglietto mancante, ma si limita a intavolare una discussione con il capotreno. Alla fine, secondo Vogelmann, il giovane disabile viene fatto scendere dal treno.

Prima ancora che sia possibile avere una versione da parte delle Ferrovie, che in verità subito si scusano in attesa di verificare la vicenda, si apre sul sito di Repubblica.it una valanga incontenibile di commenti, quasi tutti di indignata solidarietà, senza alcun dubbio, nella convinzione che la storia non solo sia credibile così com’è stata raccontata, ma la sua veridicità dipende dal fatto che si inserisce in un quadro disastroso di episodi, citati dai lettori, a conferma della maleducazione dei ferrovieri, dei passeggeri, del popolo italiano, e così via lamentando.

Per la verità arrivano anche i commenti di altri passeggeri di quel treno, che non confermano affatto la versione dello scrittore fiorentino, ma anzi, raccontano di un finale diverso. Leggiamo su un altro articolo di Repubblica.it, “Secondo quanto scrive un testimone, l’atteggiamento degli altri passeggeri non è stato affatto indifferente. “Sono uno dei passeggeri che si trovava accanto al ragazzo nel ‘famigerato’ viaggio – si legge in uno dei commenti -. Mi permetto di rettificare l’articolo (…). E’ vero, la ragazza e i due agenti della Polfer saliti alla stazione di Foggia si sono rivolti al giovane romeno con toni francamente evitabili, ma parlare dell’indifferenza dell’intero vagone è assolutamente scorretto – conclude -. Su richiesta della ragazza è infatti intervenuto un altro controllore e il suo comportamento è stato ineccepibile. Ha evitato che il ragazzo disabile pagasse la tratta precedente (a suo rischio) e si è impegnato personalmente a comprargli il biglietto con la modalità self service senza ulteriori sovratasse”. Nel medesimo articolo il quotidiano on line dà conto della versione delle Fs: “Il viaggiatore non è mai stato fatto scendere dal treno, il biglietto gli è stato acquistato a Foggia dal personale di bordo. Il Gruppo Fs è da sempre attento e sensibile ai diritti dei diversamente abili”. La capotreno in servizio sull’Eurostar 9354 Bari-Roma di domenica 27 dicembre, durante le operazioni di controllo dei biglietti ha riscontrato che un viaggiatore privo del braccio sinistro ma in grado di parlare in modo corretto, era senza biglietto. L’ha quindi informato delle regole di ammissione sul convoglio. “Considerata la particolare condizione del passeggero – si legge sul comunicato ufficiale delle Fs -, risulterebbe che la Capotreno si sia ulteriormente attivata per consentire al cliente di proseguire il viaggio sullo stesso treno e senza alcuna sanzione. Per questo è scesa durante la sosta a Foggia provvedendo a recarsi in biglietteria e acquistando il biglietto per conto del passeggero”.

Questa versione coincide con le precisazioni e le rettifiche già espresse dai lettori di Repubblica.it, ma non viene inserita nel corpo del primo articolo, quello di denuncia del fatto, e così i commenti continuano a essere raccolti senza posa, contribuendo a creare il convincimento che sia avvenuta una grave e inaccettabile discriminazione.

Ne traggo ora alcune riflessioni, che offro al vostro pensiero perché magari tutti insieme possiamo trarre qualche piccolo insegnamento dalla vicenda.

Secondo me la verità è à meta strada. Ovvero: la persona disabile è salita sul treno senza conoscere le procedure che consentono di essere registrati (carta Blu delle Ferrovie per i viaggiatori disabili)   e quindi assistiti secondo regole note da tempo. Il personale delle Ferrovie sicuramente non brilla per preparazione nel trattare con viaggiatori in difficoltà e l’atteggiamento peggiora quando si ha a che fare con cittadini stranieri. Ma alla fine il buon senso e le regole prevalgono, e infatti il viaggiatore non ha pagato sovrapprezzo, e ha potuto completare il suo percorso, sia pure dopo una disavventura non piacevole.

Seconda considerazione: la disabilità fa notizia solo quando è clamorosa, altrimenti niente. In questo caso ha fatto presa il racconto ricco di particolari emotivi, compresa una discutibile descrizione delle condizioni fisiche del viaggiatore disabile: “Sì, senza braccia, con due moncherini fatti di tre dita che spuntano dalle spalle – scrive Vogelmann – È salito sul treno con le sue forze. Posa la borsa a tracolla per terra con enorme sforzo del collo e la spinge con i piedi sotto al sedile. Crolla sulla poltrona. Dietro agli spessi occhiali da miope tutta la sua sofferenza fisica e psichica per un gesto così semplice per gli altri: salire sul treno”.  E più avanti: “articolando le parole con grande difficoltà, riesce a mormorare una frase sconnessa: “No biglietto, no fatto in tempo, handicap, handicap”. Con la bocca (il collo si piega innaturalmente, le vene si gonfiano, il volto gli diventa paonazzo) tira fuori dal taschino un mazzetto di soldi”… e infine: “Il ragazzo farfugliando le dice di non avere altri soldi, di non poter pagare nessun sovrapprezzo, e con la voce incrinata dal pianto per l’umiliazione ripete “Handicap, handicap”. Insomma una descrizione alquanto indelicata ma strappacuore. Giusto quello che serve per guadagnarsi l’home page del quotidiano on line e il link in centinaia di profili di facebook e note di commento sdegnato, da parte di lettori in buona fede ma del tutto privi, secondo me, di un minimo spirito critico, oserei dire di un minimo spirito giornalistico.

Da quando sono giornalista, gennaio 1984, ho sempre pensato che le notizie vanno verificate con cura. A maggior ragione se si tratta di fatti che suscitano emozioni forti e condivisione, pathos. In questo caso sin dall’inizio ho nutrito qualche dubbio. Prima di tutto perché ho viaggiato molto in treno, e non ho mai incontrato episodi di così evidente inciviltà. Casomai, e qui sta il punto, ho sempre potuto constatare una certa difficoltà a garantire al meglio i servizi promessi. L’assistenza è efficiente solo sulle tratte principali, le stazioni non servite sono la maggioranza, chi vuole viaggiare in treno e vive in provincia non può proprio farlo, ancora adesso, in moltissime regioni italiane. L’incarrozzamento delle sedie a rotelle spesso è garantito da mezzi obsoleti o non funzionanti. Ora bisogna prenotare con due giorni di anticipo, il che oggettivamente discrimina rispetto agli altri viaggiatori. Voglio dire: i disservizi esistono ma sono altri, e rientrano in un giudizio complessivo scadente sulla qualità e sulla omogeneità del trattamento da parte delle Ferrovie. Un problema dunque che riguarda tutti, non solo le persone con disabilità.

Altra riflessione: si sta consolidando sul web la tendenza allo sfogo collettivo, una “class action” dei sentimenti repressi. Tutti concordano nel protestare, nel denunciare, nell’indignarsi. Chi esprime dubbi viene isolato e bollato come “buonista”. Difficile in questa situazione svolgere quotidianamente un corretto servizio di informazione sui diritti delle persone con disabilità, diritti che si traducono in norme, in regolamenti, in procedure verificabili, in accordi con le associazioni, in corsi di formazione, in buone prassi, in testi da consultare, insomma in strumenti maturi di democrazia partecipata.

Quel viaggiatore senza mani e senza braccia è ora scomparso nel nulla, e nessuno lo ha davvero aiutato a essere consapevole della sua cittadinanza. Ma tutti sono convinti di aver solidarizzato con lui, e si mettono il cuore in pace. Fino alla prossima indignazione.

“La tempesta mediatica mi ha lasciato turbata e in un certo senso ferita”: così scrive in una lettera al direttore di Repubblica la caposervizio del treno Eurostar del 27 dicembre scorso, ossia la persona descritta dallo scrittore Shulim Vogelmann nella ormai nota lettera pubblicata da Repubblica, in questo modo: “la ragazza diventa più dura e si rivolge al ragazzo con un tono sprezzante, come se si trattasse di un criminale; negli occhi ha uno sguardo accusatorio che sbatte in faccia a quel povero disgraziato. Per difendersi il giovane cerca di scrivere qualcosa per comunicare ciò che non riesce a dire; con la bocca prende la penna dal taschino e cerca di scrivere sul tavolino qualcosa. La ragazza gli prende la penna e lo rimprovera severamente dicendogli che non si scrive sui tavolini del treno. Nel vagone è calato un silenzio gelato. Vorrei intervenire, eppure sono bloccato. La ragazza decide di risolvere la questione in altro modo e in ossequio alla procedura appresa al corso per controllori provetti si dirige a passi decisi in cerca del capotreno”.

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Torno sulla vicenda, già commentata su questo blog nel mio post precedente “Disabili in viaggio”, proprio perché le altre testimonianze dei viaggiatori, e adesso questa lettera della dipendente delle Ferrovie, confermano i miei dubbi circa lo stile, il linguaggio, il tono di un racconto che ha suscitato grande emozione, solidarietà popolare nei confronti della persona disabile che non aveva fatto il biglietto prima di salire in treno.

Leggo ancora le riflessioni della ragazza: “La prego di credermi, non è stato facile trovare un equilibrio tra il dovere che il lavoro m’imponeva e la delicatezza che richiedeva l’evidente condizione di difficoltà in cui versava il viaggiatore diversamente abile”. In sostanza il controllore dice: io dovevo applicare una regola, ossia far pagare il biglietto a un viaggiatore che ne era sprovvisto, per equità nei confronti degli altri passeggeri. Se non lo avessi fatto sarei venuta meno al mio dovere. Nello stesso tempo mi sono trovata ad affrontare una situazione complessa, che ho risolto con umanità, scendendo io dal treno a Foggia, e facendo il biglietto al passeggero, con i suoi soldi, senza applicare il sovrapprezzo previsto. Dunque una soluzione di buon senso, venuta sicuramente al termine di un difficile e forse scortese dialogo. Infatti la giovane dipendente scrive: “In quel momento dovevo applicare una regola non per me o per ottenere qualcosa di cui io avrei potuto beneficiare, ma per rispetto agli altri viaggiatori e alla dignità del viaggiatore disabile”.

E qui sta il punto più rilevante: la dignità del viaggiatore disabile passa attraverso il rispetto dei diritti di tutti. Le persone disabili non devono farsi temere dal personale dei servizi pubblici, come se si trattasse di privilegiati, o di una casta intoccabile, pena la pubblica esecrazione. Occorre arrivare a una sana coscienza collettiva, che parta dai principi della Convenzione Onu, a cominciare dal principio di non discriminazione, che significa in concreto mettere tutti sul piano di parità e in condizione di vivere in piena autonomia le proprie scelte personali, comprese le scelte di viaggio.

Il racconto di Vogelmann contiene un errore molto grave, che ha condizionato tutto il dibattito sull’episodio, ossia l’affermazione che il ragazzo disabile era stato “fatto scendere” dal treno. Fatto che non si è verificato. Strano per un testimone oculare ricco di particolari e di “colore”. Ma tanto è bastato a molti per riconoscersi in analoghe situazioni, viste o vissute sui treni italiani. Il ragionamento collettivo è stato quello del “vero in quanto verosimile”, che è uno dei meccanismi che stanno portando nel nostro Paese alle maggiori difficoltà di ragionamento pacato e serio sui temi sociali che emergono dai fatti di cronaca.

Dai commenti, dalle riflessioni più pacate e argomentate, emerge invece con forza che la questione non è il comportamento di un singolo dipendente delle Ferrovie, quanto la scarsa informazione, le regole complicate e comunque non rispettose delle differenze fra situazioni diverse di disabilità (una persona senza braccia non può obiettivamente provvedere in modo autonomo all’acquisto di un biglietto, e non è prevista nessuna vera agevolazione per tutti coloro che non sono invalidi al cento per cento). Di più: il meccanismo della prenotazione dell’assistenza non funziona se non in poche grandi stazioni, viaggiare in treno è quasi impossibile al di fuori di queste tratte privilegiate. E la situazione, lungi dal migliorare, sta peggiorando.

Ma questi argomenti non fanno presa sul grande pubblico, che preferisce emozionarsi e indignarsi di fronte a una storia raccontata bene, perfino troppo bene.

da www.vita.it

Quel ragazzo senza braccia sul treno dell’indifferenza


Quel ragazzo senza braccia sul treno dell'indifferenza

CARO direttore, è domenica 27 dicembre. Eurostar Bari-Roma. Intorno a me famiglie soddisfatte e stanche dopo i festeggiamenti natalizi, studenti di ritorno alle proprie università, lavoratori un po’ tristi di dover abbandonare le proprie città per riprendere il lavoro al nord. Insieme a loro un ragazzo senza braccia.

Sì, senza braccia, con due moncherini fatti di tre dita che spuntano dalle spalle. È salito sul treno con le sue forze. Posa la borsa a tracolla per terra con enorme sforzo del collo e la spinge con i piedi sotto al sedile. Crolla sulla poltrona. Dietro agli spessi occhiali da miope tutta la sua sofferenza fisica e psichica per un gesto così semplice per gli altri: salire sul treno. Profondi respiri per calmare i battiti del cuore. Avrà massimo trent’anni.

Si parte. Poco prima della stazione di (…) passa il controllore. Una ragazza di venticinque anni truccata con molta cura e una divisa inappuntabile. Raggiunto il ragazzo senza braccia gli chiede il biglietto. Questi, articolando le parole con grande difficoltà, riesce a mormorare una frase sconnessa: “No biglietto, no fatto in tempo, handicap, handicap”. Con la bocca (il collo si piega innaturalmente, le vene si gonfiano, il volto gli diventa paonazzo) tira fuori dal taschino un mazzetto di soldi. Sono la cifra esatta per fare il biglietto. Il controllore li conta e con tono burocratico dice al ragazzo che non bastano perché fare il biglietto in treno costa, in questo caso, cinquanta euro di più. Il ragazzo farfugliando le dice di non avere altri soldi, di non poter pagare nessun sovrapprezzo, e con la voce incrinata dal pianto per l’umiliazione ripete “Handicap, handicap”.

I passeggeri del vagone, me compreso, seguono la scena trattenendo il respiro, molti con lo sguardo piantato a terra, senza nemmeno il coraggio di guardare. A questo punto, la ragazza diventa più dura e si rivolge al ragazzo con un tono sprezzante, come se si trattasse di un criminale; negli occhi ha uno sguardo accusatorio che sbatte in faccia a quel povero disgraziato. Per difendersi il giovane cerca di scrivere qualcosa per comunicare ciò che non riesce a dire; con la bocca prende la penna dal taschino e cerca di scrivere sul tavolino qualcosa. La ragazza gli prende la penna e lo rimprovera severamente dicendogli che non si scrive sui tavolini del treno. Nel vagone è calato un silenzio gelato. Vorrei intervenire, eppure sono bloccato.

La ragazza decide di risolvere la questione in altro modo e in ossequio alla procedura appresa al corso per controllori provetti si dirige a passi decisi in cerca del capotreno. Con la sua uscita di scena i viaggiatori riprendono a respirare, e tutti speriamo che la storia finisca lì: una riprovevole parentesi, una vergogna senza coda, che il controllore lasci perdere e si dedichi a controllare i biglietti al resto del treno. Invece no.
Tornano in due. Questa volta però, prima che raggiungano il giovane disabile, dal mio posto blocco controllore e capotreno e sottovoce faccio presente che data la situazione particolare forse è il caso di affrontare la cosa con un po’ più di compassione.

Al che la ragazza, apparentemente punta nel vivo, con aria acida mi spiega che sta compiendo il suo dovere, che ci sono delle regole da far rispettare, che la responsabilità è sua e io non c’entro niente. Il capotreno interviene e mi chiede qual è il mio problema. Gli riepilogo la situazione. Ascoltata la mia “deposizione”, il capotreno, anche lui sulla trentina, stabilisce che se il giovane non aveva fatto in tempo a fare il biglietto la colpa era sua e che comunque in stazione ci sono le macchinette self service. Sì, avete capito bene: a suo parere la soluzione giusta sarebbe stata la macchinetta self service. “Ma non ha braccia! Come faceva a usare la macchinetta self service?” chiedo al capotreno che con la sua logica burocratica mi risponde: “C’è l’assistenza”. “Certo, sempre pieno di assistenti delle Ferrovie dello Stato accanto alle macchinette self service” ribatto io, e aggiungo che le regole sono valide solo quando fa comodo perché durante l’andata l’Eurostar con prenotazione obbligatoria era pieno zeppo di gente in piedi senza biglietto e il controllore non è nemmeno passato a controllare il biglietti. “E lo sa perché?” ho concluso. “Perché quelle persone le braccia ce l’avevano…”.

Nel frattempo tutti i passeggeri che seguono l’evolversi della vicenda restano muti. Il capotreno procede oltre e raggiunto il ragazzo ripercorre tutta la procedura, con pari indifferenza, pari imperturbabilità. Con una differenza, probabilmente frutto del suo ruolo di capotreno: la sua decisione sarà esecutiva. Il ragazzo deve scendere dal treno, farsi un biglietto per il successivo treno diretto a Roma e salire su quello. Ma il giovane, saputa questa cosa, con lo sguardo disorientato, sudato per la paura, inizia a scuotere la testa e tutto il corpo nel tentativo disperato di spiegarsi; spiegazione espressa con la solita esplicita, evidente parola: handicap.

La risposta del capotreno è pronta: “Voi (voi chi?) pensate che siamo razzisti, ma noi qui non discriminiamo nessuno, noi facciamo soltanto il nostro lavoro, anzi, siamo il contrario del razzismo!”. E detto questo, su consiglio della ragazza controllore, si procede alla fase B: la polizia ferroviaria. Siamo arrivati alla stazione di (…). Sul treno salgono due agenti. Due signori tranquilli di mezza età. Nessuna aggressività nell’espressione del viso o nell’incedere. Devono essere abituati a casi di passeggeri senza biglietto che non vogliono pagare. Si dirigono verso il giovane disabile e come lo vedono uno di loro alza le mani al cielo e ad alta voce esclama: “Ah, questi, con questi non ci puoi fare nulla altrimenti succede un casino! Questi hanno sempre ragione, questi non li puoi toccare”. Dopodiché si consultano con il capotreno e la ragazza controllore e viene deciso che il ragazzo scenderà dal treno, un terzo controllore prenderà i soldi del disabile e gli farà il biglietto per il treno successivo, però senza posto assicurato: si dovrà sedere nel vagone ristorante.

Il giovane disabile, totalmente in balia degli eventi, ormai non tenta più di parlare, ma probabilmente capisce che gli sarà consentito proseguire il viaggio nel vagone ristorante e allora sollevato, con l’impeto di chi è scampato a un pericolo, di chi vede svanire la minaccia, si piega in avanti e bacia la mano del capotreno.

Epilogo della storia. Fatto scendere il disabile dal treno, prima che la polizia abbandoni il vagone, la ragazza controllore chiede ai poliziotti di annotarsi le mie generalità. Meravigliato, le chiedo per quale motivo. “Perché mi hai offesa”. “Ti ho forse detto parolacce? Ti ho impedito di fare il tuo lavoro?” le domando sempre più incredulo. Risposta: “Mi hai detto che sono maleducata”. Mi alzo e prendo la patente. Mentre un poliziotto si annota i miei dati su un foglio chiedo alla ragazza di dirmi il suo nome per sapere con chi ho avuto il piacere di interloquire. Lei, dopo un attimo di disorientamento, con tono soddisfatto, mi risponde che non è tenuta a dare i propri dati e mi dice che se voglio posso annotarmi il numero del treno.

Allora chiedo un riferimento ai poliziotti e anche loro si rifiutano e mi consigliano di segnarmi semplicemente: Polizia ferroviaria di (…). Avrei naturalmente voluto dire molte cose, ma la signora seduta accanto a me mi sussurra di non dire niente, e io decido di seguire il consiglio rimettendomi a sedere. Poliziotti e controllori abbandonano il vagone e il treno riparte. Le parole della mia vicina di posto sono state le uniche parole di solidarietà che ho sentito in tutta questa brutta storia. Per il resto, sono rimasti tutti fermi, in silenzio, a osservare.

di Shulim Vogelmann
L’autore è scrittore ed editore
 
da repubblica.it