“Infibulazione”


di Francesco Sabatino

Donna dannata,
brutta strega senza cuore,
affamata di carne,
assetata di sangue
puro e innocente.
Schiava di una legge tribale
che con il profeta arabico
nulla ha a che fare.
Non recidere
da quel corpicino
infante
ed innocente,
da quel candido biancofiore,
l’amore.
Uomo d’Africa,
padre e padrone
di incolpevoli creature,
consegnate al dolore
assai premature,
non recidere
la dignità,
la vita,
l’amore,
il piacere.
Non infibulare,
impara ad amare.

Africa: gli schiavi bambini delle piantagioni di cacao


di Matteo Clerici

Africa. Gli schiavi bambini delle piantagioni di cacao
Il cioccolato fatto con materie prime di Ghana e Costa d’Avorio sfrutta il lavoro di schiavi bambini. La denuncia arriva dalla ONG Oxfam ed è stata ripresa dal quotidano belga ” Het Laaste Niews”.

Secondo tali fonti, in tali regioni dell’Africa occidentale, i bambini impiegati nel settore del cacao sono più di 100.000, di cui almeno 15.000 ridotti in condizione servile.

Gli esperti spiegano che buona parte di essi proviene dal Mali, venduti dai genitori ai mercanti di uomini per una cifra intorno ai 30 dollari USA. Successivamente, vengono ceduti ai proprietari delle piantagioni: lì,il loro compito sarà quello di trasportare e lavorare il cacao, per trasformare la polvere del cioccolato.

Il problema del lavoro minorile forzato coinvolge anche le grandi aziende dolciarie europee, prime clienti delle piantagioni incriminate ma non sempre in grado di selezionare la materie prima.
Qualcosa però sta cambiando; come spiega un portavoce, dal 2009: “Lavoriamo con cacao certificato da Rainforest Alliance e le piantagioni che impiegano il lavoro dei bambini perdono automaticamente questo riconoscimento”.

In ogni caso, per molti studiosi il cuore della questione si trova nel Mali, stato dalle numerose contraddizioni.

Secondo la BBC, che sta conducendo un’inchiesta in loco, la situazione politica è stabile e l’economia sta vivendo un momento positivo, anche grazie al turismo dall’estero. Eppure, la maggior parte della popolazione vive con un dollaro USA al giorno

da www.newsfood.com

Sesto suicidio in cella dall’inizio dell’anno, uno ogni 60 ore


Un detenuto originario dell’Africa del Nord si e’ tolto la vita nel carcere di San Vittore a Milano. Dall’inizio dell’anno sono gia’ 6 i detenuti suicidi: in media, un morto ogni 60 ore. E’ quanto sottolinea l’Osservatorio permanente sulle morti in carcere, rilevando che “con la morte di Mohamed El Aboubj, ritrovato esanime nel bagno della sua cella nel carcere di San Vittore salgono a 6 i detenuti suicidi dall’inizio dell’anno: una frequenza mai registrata prima”.

fonte Repubblica.it

Morire, vivere


di Alessandro Leogrande

Come in molti, in queste settimane, mi sono trovato a confrontare la morte di Stefano Cucchi con quella di Federico Aldrovandi. Non solo perché erano entrambi giovani, e in fondo a essere stata uccisa è stata innanzitutto la loro giovinezza. Non solo perché sono morti allo stesso modo, e al modo di Franco Serantini, pestati a sangue, massacrati, da uomini in divisa che in quel preciso momento incarnavano e rappresentavano lo Stato. Non solo perché identico è stato, in entrambi i casi, il tentativo di calunniare la vittima dopo l’omicidio, e quello speculare di erigere una coltre di nebbia intorno alla vicenda.
I due casi sono stranamente simili soprattutto per un altro particolare. Entrambe le volte, l’unico testimone che ha ammesso di aver assistito al pestaggio, l’unica persona che ha avuto il coraggio (o la profonda dignità) di dire chiaramente ciò che i suoi occhi avevano visto, non era nata in Italia. In entrambi i casi, erano immigrati.  Nel caso di Aldrovandi, ucciso a Ferrara nel 2005, si tratta di Anna Marie Tsangue, una donna camerunese di 35 anni. “Anne Marie Tsague”, ha scritto in uno dei suoi articoli dedicati al caso Cinzia Gubbini, “quella mattina alle sei era sul balcone del suo appartamento al primo piano di via dell’Ippodromo. Era stata svegliata da strani rumori, e dai lampeggianti delle volanti. Si è affacciata alla finestra e, sconvolta, ha assistito all’ultima parte di una strana «colluttazione» in cui un ragazzo solo viene manganellato da quattro poliziotti, che lo atterrano con facilità e continuano a prenderlo a calci anche quando ormai è completamente immobilizzato.”
Nel caso di Cucchi, quattro anni dopo, si tratta invece di un ragazzo gambiano. Ha udito le urla e poi, dallo spioncino della sua cella, avrebbe assistito al pestaggio di Stefano negli interrati del tribunale. Ora vive sotto protezione, in luogo segreto, perché si teme fortemente che venga costretto a ritrattare. Il suo nome non è stato reso noto.
Entrambe le volte, dei giovani africani hanno riferito semplicemente ciò che avevano visto, al contrario del lungo rosario di omissioni, silenzi, tentennamenti, connivenze, ripensamenti messo in campo da tutti gli altri potenziali osservatori o ascoltatori. E che con ogni probabilità ci sono stati. Quanto costa dire di aver assistito a un pestaggio finito in morte? Che prezzo hanno quelle parole? E perché abbiamo infinitamente bisogno degli occhi di Alì (si potrebbe dire, parafrasando Pasolini), degli occhi di Anne Marie Tsangue, per aggrapparci a un brandello di giustizia?
Parrebbe una costruzione letteraria. In entrambi i casi – nell’Italia xenofoba del pacchetto sicurezza, nell’Italia dell’identità bianca e cristiana, nell’Italia in cui un ragazzo che muore “di sicuro se l’è andata a cercare” – a vedere e a dire sono stati due di coloro che si vorrebbe segregare, allontanare, respingere in mare, detenere a lungo nelle prigioni o – quando va bene, quando vince il buonismo – ridurre all’unico rango di forza-lavoro mansueta da spremere finché serve. 
Parrebbe una costruzione letteraria, ma non lo è. È andata davvero così. Senza la dignità, l’umanità, e soprattutto l’immediata propensione a dire la verità, di un ragazzo e di una ragazza africani, diversissimi tra loro, che per motivi diversissimi si sono trovati, l’uno e l’altra, casualmente sul luogo del pestaggio, le coltri di nebbia sarebbero ancora lì a nascondere, celare, violare ogni minimo senso del diritto.

P.s. Il 21 novembre è spuntato un secondo testimone, nel caso Cucchi. Si tratta di un altro detenuto che, sempre, nelle celle del Palazzo di giustizia a piazzale Clodio, lo avrebbe sentito urlare e lamentarsi. Qualora le sue parole venissero giudicate attendibili, sarebbe lui il primo italiano ad avallare l’accaduto. Non ha visto nulla, pare, ha solo ascoltato quanto stava accadendo. E forse non ne avrebbe mai fatto parola, se a fare il primo passo non fosse stato un ragazzo dell’Africa occidentale.

da www.innocentievasioni.net

Le lumache africane contro la fame nel mondo


di Matteo Clerici

Mangiare lumache per combattere il problema fame nel Terzo Mondo.

E quanto sostiene una ricerca, prossimamente pubblicata su “International Journal of Food Safety”.

In particolare, si ritiene come la carne bovina non sia adatta come cibo globale, a causa della quantità limitata, i costi elevati e l’impatto degli allevamenti sull’ecosistema.

Ecco quindi che alcuni studiosi (come Upkong Udofia, economista dell’Università di Uyo, in Nigeria) propongono come sostituto la lumaca gigante dell’Africa Occidentale, o “Archachatina marginata”.

Innanzitutto, spiegano i fan, la lumaca africana è un cibo ecologico ed a buon mercato, in quanto diffusa nelle foreste e nelle paludi dell’Africa centrale. Inoltre, fa bene alla salute: la sua carne contiene pochi grassi (per di più polinsaturi), antiossidanti, ferro, calcio magnesio e varie vitamine.

Tra le tante, viene proposta la una ricetta a base di lumaca africana al forno. Secondo Upkong Udofia, ha sapore e consistenza simili a quelle del pasticcio di carne e fornisce proteine e ferro “Raccomandati per i bambini in età scolare e le giovani madri”. Tra i maggiori problemi dell’Africa, ricorda tra l’altro l’OMS, va annoverata appunto l’anemia da carenza di ferro.

da www.newsfood.com

Musica: l’Africa all’altro Sanremo, il Premio Tenco


  • Al via il Premio Tenco: sul palco, tra gli altri, la beninese angelique kidjoAngelique Kidjo e il senegalese Badara Seck

di Silvano Rubino

 La canzone d’autore allarga i suo confini. Sarà un’edizione che valica i continenti, la 34a  del Premio Tenco, in programma dal oggi al 14 novembre al Teatro Ariston di Sanremo e organizzata dal Club Tenco

L’Africa sarà rappresentata dalla beninese Angélique Kidjo (vincitrice del Premio Tenco, quello assegnato dal Club stesso, a differenza delle Targhe assegnate da una giuria di esperti e giornalisti) e dal senegalese Badara Seck.

Ma l’invito al viaggio del Tenco di quest’anno spingerà anche verso altre latitudini: un importante spazio sarà dato al tango argentino, con la presenza di Horacio Ferrer e Daniel Melingo. A Ferrer, il grande poeta e scrittore che scriveva i testi delle canzoni di Astor Piazzolla, andrà il Premio Tenco per l’operatore culturale.

A Franco Battiato l’altro Premio Tenco di quest’anno, insieme alla Kidjo: un fatto eccezionale, visto che solitamente è un riconoscimento che va ad artisti stranieri.

Insieme a loro al Teatro Ariston di Sanremo si esibiranno una ventina di artisti di varia estrazione stilistica, a comporre un cast di prim’ordine, che affianca nomi consolidati ad esordienti. Ci saranno i vincitori delle Targhe Tenco 2009, ovvero Max Manfredi (miglior disco dell’anno con “Luna persa”), Enzo Avitabile (miglior disco in dialetto con “Napoletana”), Elisir (miglior opera prima con “Pere e cioccolato”), Ginevra Di Marco (miglior disco di interprete con “Donna Ginevra”). Clicca qui per saperne di più.

Fra gli amici storici della Rassegna saranno presenti Alice, Vinicio Capossela, Morgan, Mauro Pagani e Yo Yo Mundi, ma ci sarà spazio anche per alcuni personaggi che da tempo il Club Tenco avrebbe voluto invitare come Vittorio De Scalzi tra gli italiani e Z-Star, londinese con genitori di Trinidad. Folta ed eterogenea la rappresentanza di nomi nuovi sui quali da sempre il Tenco punta: Franco Boggero, Edgardo Moia Cellerino, Dente, Gli Ex, Alessandro Mannarino e Piji.

 da www.vita.it