“Ti amo, nonna”


di Fabiola Rinaldi

Sveglia al primo canto del gallo e subito all’opera come se dovesse rincorrere il tempo, mani segnate da un lavoro duro che alla fine non dà nessun premio eppure affrontato con parsimonia e diligenza, un viso ormai segnato dal tempo che potrebbe raccontare un’intera vita solamente guardandolo, occhi che col passar degli anni si rimpiccoliscono come se non volessero più vedere l’orrore del mondo, labbra che continuano a elargire benedizioni e consigli, corpo piegato dal tempo ormai attraversato da dolori ma che è stato il tempio della bellezza e della giovinezza pura, piedi ormai stanchi per aver attraversato tempi e spazi ormai lontani, mente che conserva in sé i ricordi più dolci di una famiglia ormai allargata, cuore di una nonna che  batte e scandisce il mio tempo e le mie ore.

DONNA splendida e meravigliosa che fin dal mio primo secondo di vita mi hai tenuta per mano, un grazie per tutto ciò sarebbe nullo in confronto a ciò che tu ancor oggi, nella pienezza dei tuoi 8o anni, mi dai.

La verità non detta


di Fabiola Rinaldi

A volte resto ferma, immobile , osservando tutto ciò che mi circonda, vedo sguardi che si incrociano, labbra che sorridono, mani che si stringono e mi chiedo se tutto ciò realmente porta con sé la parola “amore”. Dicono che sia un sentimento che porta con sé tanta emozione e gioia ma mi sono resa conto che in realtà e’ facile da pronunciare e difficile da affrontare.
I due si incontrano per pura casualità in un posto non a loro appartenente, sembra come se già si conoscano, scambi di sguardi e di sorrisi…e poi???? Quella  verità non detta attraversa le loro menti… e subito entrano nel panico non prestando attenzione a ciò che stanno per perdere ma a  ciò che potrebbe dirne la gente, lui sta li chiuso nei suoi pensieri, vorrebbe trovare la soluzione giusta per uscirne ma anche per vivere questo sentimento ma sa che qualunque soluzione prenderà non sarà mai quella giusta; allora pur di non arrendersi continua dentro di se a interrogarsi e magari…chissà… si interroga proprio su quella verità non detta che, in qualche maniera, avrebbe potuto fermare tutto prima ancora di nascere. Lei è sola, pensa a lui, vorrebbe tendergli una mano per cercare di fargli capire ciò che realmente è disposta a fare per lui, ciò che potrebbe cambiare nella sua vita pur di non perderlo ma non ne ha il coraggio, vuole imparare ad amarlo in segreto auto-convincendosi che forse ci riuscirà mentre copiose lacrime attraversano il suo volto per quella verità non detta…crede che l’unica soluzione sia scappare da lui ma alla fine sa che non ci riuscirà mai perché’ e’ proprio lui che la trattiene promettendole un’ amicizia sincera…forse nessuno saprà mai se quella verità non detta avrebbe cambiato qualcosa…

Fabiola


di Daniela Domenici

Fabiola è stata una regina del 20esimo secolo

Fabiola Rinaldi è una trans del 21esimo secolo

Fabiola è nata maschio e quando ha decidere di fare la transizione per diventare donna si è scelta un nome da regina per essere… la regina delle trans siciliane

Fabiola è diventata una mia carissima amica, quasi una figlia

Fabiola ama la notte, ama la luna, ama i gatti, ama il mare…ama l’amore.

Claudio diventa un nonno giovanissimo – sempre dal diario, ancora inedito, di Claudio Crastus


In questi giorni sto molto male, mi sono reso conto di quanto sia distorta la visione che ho della felicità, della vita, del mondo, di me stesso, dell’amore mio e di quello universale.

Serena è incinta. L’ho appreso ieri al telefono dalla mamma. Era tutta allegra per il fatto che sta diventando bisnonna. Lei è fatta così: probabilmente, avendo subìto le cose peggiori della vita, anche in una situazione così “difficile” riesce a vedere il lato positivo. Tutto questo mi fa paura.

Credo che a sedici anni ci si dovrebbe occupare di cose molto più semplici e leggere e non delle

gravi vicende della vita: lotte per la sopravvivenza, maternità con tutti i disagi che comporta, a

quell’età, l’essere madre.

Diventerò nonno in aprile, non avrei mai pensato che potesse accadermi a trentadue anni, sono emozionatissimo, impacciato, esattamente nella situazione in cui Serena e il suo ragazzo mi hanno voluto mettere. Non so che cosa fare. Mi domando se, essendo stato una figura paterna inesistente, devo comportarmi da amico più che da padre. Certo è che a questo punto non si può tornare indietro. Inoltre non riuscirei a farle una paternale: non sarei proprio la persona adatta in tal senso. La storia si ripete: sedici anni fa nasceva Serena, oggi lei ha in grembo una gemma inestimabile. Vorrei vedere la mia bambina, vorrei poterle narrare tutte le favole mai narrate, vorrei poterle parlare, sentirla parlare, osservarla mentre attua la parte più impegnativa della sua vita: quella di moglie e di madre.

La metamorfosi, fiaba di Claudio Crastus


In un bosco fitto di vegetazione, in un paese sradicato dal mondo, tra le incavature e le radici degli alberi secolari, viveva il popolo delle formichine azzurre. Erano bellissime, potevano essere più di sette milioni ed erano una per una e tutte per tutte: praticamente tutte insieme erano invincibili.

La loro vita si svolgeva da sempre con ritmi e percorsi identici: erano abitudinarie e gran lavoratrici.

Passavano gran parte del loro tempo a riempire le immense dispense di viveri per assicurarsi la sopravvivenza nell’inverno freddo e crudele che sarebbe giunto da lì a poco.

All’interno di un’immensa quercia vi era il loro quartier generale, una città meravigliosa ricavata da una sorta di scala a chiocciola scavata e lavorata nel legno. Ad ogni gradino vi era l’abitazione di una famigliola; tra un gradino e l’altro, invece, vi erano le campanelline d’allarme, così che in caso di emergenza chiunque era in grado di avvisare le altre dell’imminente pericolo. Ogni mattina verso le 6.00 si incamminavano verso un torrente per rifornirsi d’acqua potabile; tutte insieme “armate” di secchielli e pale (quest’ultime per scavare il terreno alla ricerca di cibo) cantavano in coro le belle canzoni imparate da bimbi.

Tra queste formichine vi era un gruppo di giovani che non aveva tanta voglia di alzarsi presto e di lavorare, ma che comunque con gli occhi appena socchiusi seguiva in fila i più laboriosi. Spesso borbottavano tra loro che la vita delle formichine era grama e faticosa e che vi erano poche feste e divertimenti.

All’udire queste lamentele gli altri si giravano e, canzonandoli, li facevano passare avanti tra loro, in modo da incoraggiarli ad affrontare la giornata che li attendeva.

Un giorno, mentre erano intenti a lavorare, giunse un violento acquazzone che le sommerse d’acqua e fango; le immense gocce cadevano sulle loro testoline come grandi macigni, e di lì a poco buona parte di esse annegò nelle pozzanghere. I sopravvissuti erano riusciti ad aggrapparsi a dei rami: galleggiavano sull’acqua e osservavano i corpicini dei compagni esanimi e li piangevano.

Mentre erano in balia della corrente, disperati, ecco giungere una ranocchia, la quale sopra una grande foglia osservava la desolazione delle formichine. Appena si accorsero della sua presenza, tutte insieme gridarono: “Aiuto! Aiuto! Ranocchia bella, per favore, portaci sulla terraferma, altrimenti annegheremo”.

Udendo la loro supplica, la rana si commosse e aiutò le formichine scampate al diluvio.

“Tenetevi forte, si vola!” gridò tutta felice, mentre con tutte le formiche aggrappate alla sua schiena saltava tra le pozzanghere enormi.

Non appena furono sulla terraferma, le formichine ringraziarono la rana e si incamminarono verso la grande quercia per dare la notizia della tragedia avvenuta. Giunti a destinazione a tarda sera, quando furono davanti alla loro dimora, non trovavano il coraggio di entrare. Ciononostante, dopo qualche minuto si fecero coraggio l’un l’altra e pian piano salirono nell’incavatura principale della quercia.

Appena furono di fronte al primo campanellino d’allarme, incominciarono a tirare forte la corda e in tutta la quercia si diffuse l’eco del suono: “Din, din, din…”. Così nel giro di dieci minuti svegliarono tutte le altre formichine. A drappelli si affacciavano dalla infinita scala a chiocciola, tutte assonnate, con i pigiamini di lana, le pantofole, i cappucci per scaldare le teste, borse d’acqua calda, ecc., chiedendosi cosa fosse accaduto di così grave per essere svegliate in piena notte.

Osservavano in attesa di una spiegazione il nugolo di sopravvissuti che non riusciva ancora a proferire parola, sopraffatto dal pianto.

Di lì a breve tutte le formichine furono sull’entrata della quercia a domandare cosa fosse accaduto e dove fossero le altre formiche lavoratrici.

Dopo un interminabile minuto di silenzio assoluto, una voce si elevò nell’atrio: “Siamo state sommerse dalle acque: un violento acquazzone ci ha colte di sorpresa, inaspettato, devastante; noi siamo tutto ciò che rimane della spedizione”.

A queste parole seguì un lungo silenzio; tutti i parenti delle vittime della tragedia si incamminarono con il loro dolore verso le loro case. Gli scampati al pericolo furono accolti nei loro nuclei familiari con gioia e trepidazione.

Trascorsero molti anni e la vecchia quercia era sempre più bella, non solo esternamente, ma soprattutto al suo interno.

Quello che stava arrivando era un inverno gelido e tutte le formiche si erano assicurate che non mancasse proprio nulla dalla scorta, dal cibo all’acqua, alla lana e alla seta, ai vari tipi di tabacco da pipa, ai giochi per i più piccini, al materiale per l’istruzione e via via tutto l’occorrente.

I falegnami avevano scavato all’interno della quercia altre stanzette, una sorta di classi di scuola ove i più piccoli potessero trascorrere le giornate in modo sereno e costruttivo.

Quando incominciò l’anno scolastico, tutti i piccoli delle formiche , forniti di tutto punto di cartelle, astucci con matite, quaderni, penne e libri, si presentarono all’entrata della scuola, ove attaccate sul portone si potevano vedere dei bachi che in seguito sarebbero mutati in farfalle, ma questo ancora i piccoli lo ignoravano. Il primo giorno di scuola fu sereno; la vecchia professoressa fece l’appello per conoscere i nomi di tutti gli alunni. All’ultimo banco, in un silenzio impenetrabile, vi era una formichina orfana di padre e di madre; non sapeva più cosa fosse un momento di gioia, lo stare insieme con i compagni di gioco: a lei piaceva dipingere fiori bellissimi e viveva esclusivamente per i suoi colori.

Un giorno, ad anno iniziato, fuori dalla grande quercia giunse un piccolo ranocchietto che era stato abbandonato forse senza volere dai genitori, anzi: sicuramente non era stato abbandonato, ma si era semplicemente perso! Le formichine azzurre dalle loro torri di vedetta scorsero quel piccolo essere

smarrito e, vedendo che era incapace di provvedere a se stesso, lo fecero entrare nel loro regno.

Il capo delle formiche era un tipo barbuto con capelli arruffati; si diceva che fosse colto, intelligente, saggio e tutti i suoi sudditi si domandarono che cosa gli frullasse in testa quando intimò di inserire il ranocchio nella classe dei più piccini, ma nessuno azzardò chiedergli nulla.

Fu così che avvenne l’incontro tra le formiche azzurre e il ranocchietto.  osservandolo, le formichine si resero conto che era incapace di esprimersi, così incominciarono a deriderlo e a isolarlo: erano convinte che la malattia del ranocchietto contagiasse tutte. Avevano il terrore di non riuscire più a esprimersi e così lo lasciarono nell’ultima fila, accanto alla formichina orfana.

I due cominciarono ad osservarsi con cautela, appena appena con la coda dell’occhio, con timore, fino a quando un giorno la formichina chiese al ranocchietto: “Ti andrebbe di mangiare con me?”

Il piccolo ranocchietto, affamato, rispose: “Sì!”

Dentro di sé, però, si meravigliò di essersi fidato subito di quella formichina azzurra, tuttavia si incamminò verso la casetta dell’amico, seguendolo velocemente.

Non appena entrò, vide appesi alla parete tanti bellissimi quadri colmi di colori bui, scuri, ma con fiori mai visti prima; la cosa che li caratterizzava erano gli intrecci dei rami e delle foglie, davvero particolari, i quali immediatamente mettevano in risalto il mondo interiore, ricco e fantastico della formichina.

Il ranocchietto con il suo nuovo amico imparò tante cose, perché la formica era un tipo intelligente e colto; si divertì persino a dipingere con il suo aiuto, ma comprese che non era tagliato per la pittura.

La formica, essendo un tipo provocatorio e originale, incominciò a convincere la rana a scrivere poesie, perché a suo dire (dopo aver letto alcuni versi dell’amico) scriveva bene ed in quel modo si sarebbe fatto comprendere universalmente.

Quando il ranocchietto mostrò le sue prime poesie, raccolse molti consensi, ma questo non lo rassicurava affatto sulle sue capacità, anzi lo rattristava, perché in cuor suo pensava che quei complimenti fossero dettati dalla pena che suscitava la sua malattia; così era sempre solo e triste.

La formichina non perdeva occasione per provocarlo quando non si dedicava alla scrittura. Alle volte era veramente odioso agli occhi dell’amico, che tuttavia (seppure litigassero spesso) non smetteva di stimare e di volergli bene come a un fratello maggiore, a cui è necessario dare ascolto.

Dopo circa tre anni che viveva con il popolo delle formichine azzurre, il nostro ranocchio un bel giorno notò i bachi nei pressi della scuola, proprio mentre mutavano in farfalle multicolori, e così da allora iniziò a pensare al volo, alla libertà interiore, alla metamorfosi degli esseri viventi. Nel suo cuore era avvenuto qualcosa: non gli bastava più la compagnia dell’amico, era triste, infelice e

consapevole che, seppure l’amico l’avesse fatto crescere e guarire dal “mutismo” interiore e gli avesse mostrato i colori della libertà, era giunto il momento di andar via, di sperimentare l’esperienza acquisita fuori dal mondo delle formiche azzurre.

Dopo alcuni mesi di profonde riflessioni, il ranocchietto con immenso dolore salutò l’amico formichina, l’insegnante occhialuta e tutte le formichine. La formichina più dolce, che tanto lo aveva aiutato, non avrebbe voluto che partisse, ma rispettò il suo volere: era una damigella molto forte e saggia, perciò sapeva bene che le cose buone che aveva donato non sarebbero state vane e

sapeva che sarebbe rimasta per sempre nel cuore del ranocchio. Così, in un giorno di pioggia come quello in cui era arrivato, s’incamminò verso il suo destino, nel fitto bosco, abitato da animali sconosciuti che lo incuriosirono.

Salto dopo salto giunse in un laghetto bellissimo, fitto fitto di canne gialle. Il silenzio era interrotto dai grilli e dal gracidare delle rane; era giunto nel suo ambiente naturale, ma era molto timoroso, perché non ricordava nemmeno la lingua delle ranocchie. Comunque si spinse all’interno del canneto, saltando di foglia in foglia, finché improvvisamente si imbatté in due bellissime ranocchiette che, vedendolo, si spaventarono e dissero: “E tu chi sei? Ci hai spaventate sbucando

dalle canne all’improvviso!”

Il ranocchietto, più spaventato di loro, iniziò a raccontare le vicissitudini della sua vita e pianse tante lacrime dai suoi occhini tristi. Le due ranocchiette si commossero e dissero al ranocchietto che non doveva piangere più, perché da quel momento avrebbero pensato loro a stargli vicine e a farlo

sorridere. Infatti da quel giorno incominciarono ad incontrarsi tra le canne dorate e insegnarono al loro amico la lingua dei ranocchi.

Il nostro piccolo ranocchietto, avendo acquistato fiducia, ricominciò a scrivere poesie per farsi volere più bene, dato che credeva che con lo scritto riuscisse ad esprimersi meglio. Le due amiche erano molto contente di quella nuova amicizia, in particolare la più piccina che, non avendo il fidanzato, aveva iniziato ad osservare con occhi dolci dolci quel ranocchietto solo al mondo; di contro, era evidente che anche lui fosse cotto di lei. Vederli giocare era davvero meraviglioso:

formavano una coppia di ranocchi bellissima, tanto che nel canneto suscitavano l’invidia di tutti, ma questo per loro non aveva nessuna importanza.

Un brutto giorno una ranocchia cattiva, dato che era gelosa della bellezza e intelligenza della bella ranocchietta, la invitò nel laghetto delle streghe, determinata a farle del male. La dolce ranocchietta aveva molta paura, dato che non aveva fatto nulla di male a quella cattivissima rana brutta, tuttavia sperava che con il dialogo l’avrebbe fatta desistere dai suoi propositi malvagi.

Il giorno prima dell’incontro i due ranocchietti innamorati si incontrarono e lei ebbe modo di sfogarsi un po’; lui cercò di rasserenarla, così da infonderle coraggio e sicurezza per quell’incontro.

Quando la ranocchietta andò all’appuntamento al lago delle streghe, il ranocchietto si incontrò con l’amica ranocchia e insieme parlarono a lungo della loro amata amica. In quei momenti di ansia si rendevano conto ancor di più di quanto lei fosse importante per loro.

Tuttavia il ranocchietto fin dai primi giorni di vita aveva imparato a “percepire” i pericoli e così sentenziò alla cara amica ranocchia che la loro ranocchietta se la sarebbe cavata benissimo da sola.

Quanta felicità nel rivederla nuovamente, quanta gioia provarono mentre felici saltellavano tra le canne del laghetto, che emozione bella comprendere sempre più che erano fatti l’uno per l’altra! Si amavano tantissimo e avevano bisogno di stare insieme sotto il sole o la pioggia, sfiorati dal vento,

addormentati sotto la luna. Nonostante fossero tanto felici, erano consapevoli che la “vita” avrebbe potuto riservare loro amarezze e dolori e per questo gustavano e si godevano ogni attimo di felicità.

In quei canneti, infatti, volavano delle terribili api velenose, che a volte con i loro pungiglioni uccidevano altri animaletti.

Loro sapevano bene quanto fossero cattive quelle brutte api e così stavano molto attenti a non farsi individuare. Nonostante questo, un brutto giorno d’inverno il piccolo ranocchietto fu punto da un’ape velenosa e restò agonizzante su una foglia che galleggiava nel lago.

I ricordi incominciarono a farsi sbiaditi, confusi; i giorni trascorsi nella quercia riaffiorarono: il ranocchietto “vedeva” l’amico formichina, i fiori multicolori dei suoi quadri, la scala a chiocciola, quel giorno buio in cui fu raccolto sullo spiazzo della quercia, la damigella che nella quercia era la formichina più attenta ai bisogni degli altri, il capo formica, e poi il buio impenetrabile lo avvolse nel silenzio.

Le due ranocchiette piansero per lungo tempo il loro piccolo amico e di tanto in tanto si recavano sotto l’alberello dove lo avevano deposto per farlo riposare al riparo dalle intemperie del tempo.

Lì sul tronco incisero una poesia del piccolo ranocchio che diceva:

Fui raccolto

in un giorno

di pioggia,

bagnato,

sporco,

privo di parola.

Mi fu insegnato

ad esprimermi,

a vedere i colori,

ad amare il prossimo

e la vita;

avvenne così

il miracolo

della mia metamorfosi.

Voi che passate

senza “vedere”

né udire:

soffermatevi

un attimo

ad amare la vita.

Da www.claudiocrastus.it

La preghiera di Eli Jenkins da “Sotto il bosco di latte” – Under the Mikwood by Dylan Thomas


Ogni mattina quando mi sveglio

Caro Signore, una piccola preghiera io faccio,

Oh, per favore, tieni il Tuo occhio buono

Su tutte le povere creature nate per morire. E ogni sera al tramonto del sole

Io Ti chiedo una benedizione sulla città

Perchè anche se abbiamo trescorso la notte o no

Sono sicuro/a che è sempre “mordi e fuggi”. Noi non siamo totalmente cattivi o buoni

Che viviamo le nostre vite sotto il Bosco del Latte,

e Tu, lo so, sarai il primo
a vedere il nostril lato migliore, non il peggiore. Oh, lasciaci vedere un altro giorno!

Benedici noi questa notte, ti prego,

e al sole noi ci inchineremo

e diremo “arrivederci” ma solo per ora.

Every morning when I wake,
Dear Lord a little prayer I make,
O please to keep Thy loving eye
On all poor creatures born to die.

And every evening at sun-down
I ask a blessing on the town,
For whether we last the night or no
I’m sure is always touch-and-go.

We are not wholly bad or good
Who live our lives under Milk Wood,
And Thou, I know, wilt be the first
To see our best side, not our worst.

O let us see another day!
Bless us all this night, I pray,
And to the sun we all will bow
And say, good-bye – but just for now!

Pesci fuor d’acqua


“Quanti esseri umani sono come pesci fuor d’acqua! Si sentono a disagio, come stranieri nel luogo in cui vivono; allora, appena possono, lasciano la loro famiglia e vanno esuli in un altro paese, dove vivono completamente ai margini della società. In realtà, la questione che si pone agli esseri umani non è unicamente quella del posto che devono occupare fisicamente, socialmente; è necessario che non solo il loro cuore e il loro intelletto, ma anche la loro anima e il loro spirito trovino in quel posto delle buone condizioni per espandersi. Finché non trovano il proprio posto, sono come semi che aspettano di essere seminati; e il loro posto è una terra fertile, la terra spirituale, dove potranno crescere. Quanti sono ancora simili a dei semi depositati in un granaio! Quando avrete trovato il posto del vostro cuore, del vostro intelletto, della vostra anima e del vostro spirito, sarete al vostro vero posto. A quel punto, ovunque vi troviate e qualunque sia la vostra situazione materiale e sociale, sentirete che quello è il vostro posto.”
Omraam Mikhaël Aïvanhov

“Il capo” di Giovanni Farina dal carcere di Siano Catanzaro


Il corpo umano chiede a chi lo abita e lo fa vivere perché fa lo sciopero.

Il cervello chiede la parola e dice:

–      Io sono l’organo che pensa, il più intelligente  e chiedo che mi sia riconosciuto di essere il capo.

Gli occhi a loro volta dicono:

–      Il riconoscimento di capo tocca a noi perché siamo la luce che guida il corpo dove andare.

Le mani replicano

–      Noi dobbiamo essere il capo, se non fosse per noi che imbocchiamo la bocca il corpo morirebbe di fame.

Anche le gambe dicono la loro

–      E noi non rappresentiamo nulla? Se non fosse per noi che trasportiamo l’intero corpo on ogni angolo del mondo nessuno saprebbe che esistete. Il ruolo del capo tocca a noi.

Per ultimo parla il buco del culo e dice a tutti i subordinati del corpo:

–      Il ruolo del capo tocca a me, se non fosse per me che elimino dal corpo i vostri avanzi il cervello dopo qualche giorno non riuscirebbe a pensare, le mani e le gambe si appesantirebbero nei movimenti, non sarebbero più efficienti, gli occhi non riuscirebbero più a vedere perché le tossine dello stomaco gonfio gli annebbierebbero la vista.

Il buco del culo conclude:

–      Se io non avessi un funzionamento corretto eliminando tutta la vostra merda nessuno organo del corpo funzionerebbe alla perfezione.

Dopo un vivace dibattito a porte chiuse gli abitanti del corpo umano decidono che, per fare il capo, bisogna fare lo stronzo e anno il ruolo del capo al buco del culo e smettono così di fare lo sciopero vivendo tutti felici e contenti.

“La storia di Pinocchio” di Giovanni Farina dal carcere di Siano Catanzaro


Ricevuta, copiata e pubblicata

Un giorno un personaggio del governo italiano va in un paese del sud chiamato LEGO a fare una visita elettorale per le votazioni amministrative.

Il sindaco del paese voleva far vedere che il suo era un paese dove tutto funzionava a perfezione, che i suoi cittadini erano laboriosi e rispettosi delle leggi e della loro città che tenevano pulita, facevano la raccolta differenziata, tutto era in ordine: un paese da prendere come esempio per l’Italia

Per fare la sua bella figura il sindaco ordina alla polizia di stato di rastrellare la città da capo a fondo e arrestare tutti i barboni, i lavavetri, chi nel passato si era reso responsabile di qualche furtarello.

In questa retata viene portato in prigione anche Pinocchio.

In carcere tutti gli arrestati si raccontavano per quale motivo erano stati arrestati. Pinocchio trova un suo conoscente che gli domanda “E tu, Pinocchio, che cosa hai fatto? Perché ti hanno arrestato?” Pinocchio risponde che lui non aveva fatto nulla.

Quando arriva il personaggio atteso al paese LEGO le strade erano piene di cittadini festanti che applaudivano: tutto era perfetto.

Il personaggio governativo, conclusa la sua visita, visto che nel paese LEGO tutto funzionava alla perfezione, si domanda che cosa poteva fare di utile per quel paese. Si domanda: “ci deve essere qualcosa che non funziona in questo paese.”

Decide di dare un’amnistia ai carcerati.

La guardia carceraria si presenta in carcere con la circolare e la lista dei carcerati che beneficiavano dell’amnistia. Inizia a chiamare tutti i carcerati condannati per i reati connessi all’amnistia, nome dopo nome chiama tutti, si svuota il carcere.

Resta solo Pinocchio che a quel punto domanda alla guardia quando l’avrebbero scarcerato. La guardia gli domanda :”perché, che crimine hai commesso?” e Pinocchio risponde :”Nulla.” La guardia legge la circolare e dice :”Nulla non rientra nell’amnistia, non ti posso scarcerare.” La guardia, non ancora convinta, chiede a Pinocchio come poteva essere in galera senza aver fatto nulla, insiste, gli suggerisce :”Prova a ricordare…nemmeno un piccolo fallimento bancario? Una piccola corruzione? Un’appropriazione di risparmi di pensionati? Non hai fatto dei piaceri a qualche imprenditore che ti ha regalato qualche villetta a tua insaputa?”

E davanti al silenzio di Pinocchio conclude :”Mi dispiace, nella circolare emanata dal governo chi non ha fatto nulla deve restare in carcere”.