RSD SORRISO ONLUS


di Daniela Domenici

Si chiama Massimo Lorusso, ha 39 anni ed è paralizzato dal collo in giù dal 1988 a causa di un tuffo in mare. In qualità di presidente della RSD Sorriso ONLUS conduce un progetto ambizioso e degno di nota rivolto al sostegno di chi soffre. Vive sulla propria pelle una situazione difficile ma nonostante ciò lotta ogni giorno per ottenere quello che, ancora oggi, in molti casi è più simile a un’utopia che alla realtà. Infatti varie strutture attive sul territorio nazionale non sono in grado di coprire ogni esigenza degli ospiti né di garantire, in qualsiasi situazione, il pieno rispetto di tutti i diritti umani. La RSD Sorriso, quindi, si propone lo scopo di attivare un percorso articolato in cui la costruzione di una struttura adeguata ad assicurare l’intimità degli ospiti è solo l’aspetto più evidente e oneroso (il progetto prevede camere singole). La qualità di vita, infatti, necessita di molti altri elementi per diventare effettiva”. La residenza che sognano presta quindi attenzione anche ai “particolari”, vale a dire corsi e attività, sia singole che collettive, in grado di valorizzare le capacità residue di ciascun ospite, insieme a intrattenimenti, alla possibilità di ricevere visite in ambienti adeguati, al rispetto di orari consoni alle esigenze delle persone, qualunque sia l’attività da loro svolta, oltre che alla concreta e professionale presenza di assistenza infermieristica, fisioterapica e socio-sanitaria. Solo così, infatti, ogni ospite della residenza che si vuole creare potrà sentirsi veramente realizzato e vivere nel pieno rispetto dei diritti inviolabili sanciti dalla nostra Carta Costituzionale.

Chi fosse  interessato a sostenere questa nobile causa può avere maggiori informazioni visitando il sito http://www.rsdsorriso.org/

Volano via le rondini


Sussurrata a quattro mani dal respiro poetico di Marco Casini e Maria Grazia Vai

sulle note del Concerto di Aranjuez Adagio di Joaquin Rodrigo

Pindarici distratti
simbolici e tonanti

– I sogni –

nel vuoto pan di zucchero
che il fato ha costruito

dove finisce l’anima
e il cielo si scolora

Tra foglie
di papavero appassito

e la voce
di un cantore senza nome

– Volano via le rondini –

Chimere, fragili
come cristalli d’acqua

– poesie –

Nel pianto di una rosa
sulla neve partorito

dove si posa il vento, e
cantano gli aquiloni

Ritornerò
frammento d’anima e dolore

nei labirinti,
e i mormorii del cuore

Dove tornano
e vanno a stridere
– e a morire,

anche i gabbiani –

Mondiali: apoteosi Mandela, un sorriso per salutare il mondo


n quel sorriso c’e’ l’orgoglio di tutto il Sudafrica, c’è l’orgoglio di un continente intero che adesso è un po’ più  convinto di potercela fare anche con le proprie forze. Nelson Mandela ha rivolto un sorriso felice agli 80mila del Soccer City stadium di Johannesburg e, attraverso loro, a tutto il mondo.

Il calcio stavolta c’entra fino a un certo punto: il sorriso e il saluto di un uomo di 92 anni, vissuti in maniera talmente intensa che di vite non ne basterebbero tre o quattro per contenere tutto quello che è successo nella sua, rimarranno forse l’immagine più rappresentativa di un mondiale che il Sudafrica ha voluto e ottenuto contro le perplessità  del resto del mondo e che con qualche inevitabile sbavatura ha dimostrato di saper organizzare, di poter stare al pari con i paesi più sviluppati (senza pretendere di nascondere problemi e contraddizioni) e di svolgere un ruolo da leader per un continente.

La presenza di Mandela alla finale è stato l’argomento più dibattuto delle ore di attesa, per tutto il giorno si sono rincorse voci, finché i suoi nipoti non hanno lasciato filtrare una speranza. Le sue condizioni di salute lo hanno infatti tenuto spesso ai margini delle iniziative del mondiale e la serata fredda non poteva certo consentire ad un uomo della sua eta’ di stare per un paio d’ore seduto in tribuna ad assistere alla finale. Ma al termine della colorata e spettacolare cerimonia di chiusura segnata dalla musica di Shakira, dai fuochi artificiali e da divertenti giochi di luci e proiezioni, la presenza di Mandela si è cominciata come ad avvertire. Finché  non è  comparso, su un’auto elettrica, avvolto da un cappotto e un colbacco, accanto alla moglie Graca Machel, per un breve giro di campo, durante il quale tutto lo stadio e’ saltato in piedi.

Cinque minuti intensi, semplici e toccanti. Non gli sono servite parole per manifestare al suo popolo, che lo ha acclamato con le vuvuzela e con il coro ‘Madiba Madiba’, e al mondo che lo stava guardando in tv la sua gratitudine per la fiducia concessa al suo paese. E per ottenere in cambio altrettanta gratitudine e affetto.

Gli è bastato salutare, gli è bastato sorridere. Per raccontare solo con gli occhi una vita senza nessun rimpianto. Una vita vissuta per un sogno, un lungo cammino per realizzarlo che lo ha fatto essere un latitante, lo ha fatto stare per 27 anni rinchiuso in una minuscola cella, prima di diventare presidente del suo paese. Gli è bastato rivolgere uno sguardo semplice e grato a quel pubblico sconfinato per salutare un popolo che lo ama alla follia e un pianeta intero che lo riconosce come un simbolo mondiale per l’affermazione dei diritti e di speranza per un mondo migliore. Quel breve giro di campo al Soccer City, con gli occhi lucidi per l’emozione, gli è servito per dire che il lungo cammino per la libertà  non è ancora finito e probabilmente non finira’ mai. Ma varrà sempre la pena percorrerlo.

da http://www.blitzquotidiano.it

Dire addio a Leoluca


di Roberto Puglisi

Il “SinnacOllanno” continua a dividere. E’ bastato il racconto di una storia – la favola triste del condannato Joe O’ Dell – per riattizzare la contrapposizione tra amanti e odiatori. Non c’è mediazione che tenga: i giudizi sono draconiani. Ottimo o pessimo, con qualche punta di moderazione. E’ che Palermo non ha mai risolto il rapporto con questo suo padre nobile e ingombrante. E’ rimasta traumatizzata dai cingolati del passaggio orlandiano. Dopo, boccheggiando, la città ha desiderato un sindaco di basso profilo e l’ha votato. Tardi si è accorta della clamorosa svalutazione.  Il prescelto non era nemmeno un sindaco.  L’errore è dipeso proprio dall’antico e ruvido sfregamento emozionale con la figura di Leoluca Orlando detto Luca. Ci siamo svegliati dopo una sbronza colossale di Europa, di antimafia, di sogni e di cultura. Era naturale andare a sbattere.
Il lato tragicomico è nella probabile ripetizione. Ci infrangeremo di nuovo contro qualche parete liscia,  senza prima aver risolto la natura del nostro legame psicologico con l’era orlandiana, col Leoluca padrone della nostra speranza, legittimo spacciatore di svolte e grandezza, fantasma che di tanto in tanto ritorna.

Il finale è evidente. Il “SinnacOllanno” non  ha cambiato Palermo. La sua rivoluzione si è arenata, per un errore capitale che è anche una caratteristica del’uomo: l’egocentrismo. Leoluca Orlando non ha preparato il ricambio, non ha permesso che una buona classe dirigente studiasse per la successione. Ferocemente, ha decapitato ogni possibile delfino. Un re senza erede prepara il suo reame a un futuro grigio. La rivolta orlandiana ha indicato la strada,  non ha saputo percorrerla fino in fondo. Ha meritoriamente ricusato la “natura per forza mafiosa” della capitale che ha amministrato, ha disegnato un avvenire senza padrini. Tuttavia, nonostante i magnifici orizzonti segnati a dito, i conti nel quotidiano, a un certo punto, non sono tornati più. La linea del sogno – specialmente nell’ultima parte del mandato complessivo – si è identificata con una pallida linea di galleggiamento, in un clima di crespuscolo da basso impero. Palermo è stata straziata da una realtà schizofrenica, contesa tra la scenografia di eventi mondiali e le quinte di un mondo putrefatto. Abbiamo capito – era il motto di una rassegnata fatalità -: non è mutazione, è maquillage, è cipria sul volto di un cadavere. Ecco perché non abbiamo creduto più alle promesse che alzavano la posta in proporzione inversa col precipitare di ogni cosa verso il suolo.

Eppure, nel bene o nel male, la stagione di Orlando è stata l’estate, non la primavera, il canto di cicala della nostra dignità. Per la prima volta, i palermitani hanno pensato al miglioramento, alla diversità possibile. Si sono smarriti nel vagheggiamento di una verità capovolta rispetto al passato. E ci sono stati fermenti che hanno corroborato la felicità pazzesca di una salvezza finalmente a portata di mano. La trama di Orlando si è limitata alla visione onirica di una Palermo celeste e irrealizzabile, dicono i suoi detrattori. In essa è annegata.  Non è già un titolo di merito?

Quella stagione, nel bene e nel male, fu migliore di questa, rassegnata, sporca e umiliata. Qualcuno può affermare serenamente il contrario? Migliore – con tutte le sue macroscopiche pecche – nei fatti, non solo nelle promesse. Ma è una stagione finita. Non tornerà, nelle sue forme e nei suoi riti.  Ricercarla, uguale,  con gli stessi protagonisti sarebbe un secondo errore, più deleterio della rielezione di  Cammarata. Se svolta sarà, un giorno, non avrà più il viso e le parole del “SinnacOllanno”.
E la città di Palermo, che odia sempre ciò che un tempo ha amato per inconsolabile e incongrua doglianza, riuscirà mai a farsene una ragione?

da http://www.livesicilia.it

Polpo Paul, coccodrillo e gatto Pedro: lo zoo degli indovini


Il polpo Paul è diventato una star, ma la finale tra Olanda e Spagna ha scatenato anche il panda Lin Ping, il coccodrilloHerry e persino il gatto Pedro. L’intera fattoria degli animali è scesa in campo per la corsa al vaticinio più originale, dopo quelli del cefalopode dell’acquario di Oberhausen che hanno fatto il giro del mondo: Paul, appunto, che mangia sempre il mollusco nella vasca di plexigas contrassegnata dalla bandiera della squadra che poi vince la partita ai Mondiali, disdegnando invece l’animaletto nella vasca con bandiera della squadra che, puntualmente, perde. Il ‘tedescò, per Sudafrica 2010, è andato sempre dalla parte giusta, scatenando le invidie degli zoo del pianeta: e così sono arrivati gli imitatori del polpo. In una cittadina olandese, Amersford, sconosciuta ai più, nel locale zoo Marjo Hoedemaker. il custode, ha deciso di ripetere l’esperimento-polpo prima con un lemure, armato di arance e peperoni rossi (metafora ortofrutticola di Olanda e Spagna), e la scimmia ha mangiato le arance. Poi, non contento, si è diretto verso il recinto dei cammelli, stavolta con le carote al posto delle arance e gli stessi peperoni. E anche i cammelli hanno mangiato le carote, cioè Coppa sollevata al cielo a Johannesburg da Giovanni Van Bronckhorst.

Infine la giraffa George, messa davanti a un pomodoro rosso e un misto di carote e arance. E il lungo collo di George ha scelto quest’ultimo. E siccome non bisogna farsi mancare nulla, gli ultimi pronostici portano la firma, o meglio il verso, del pappagallo Mani, celebrità di Singapore, e del coccodrillo australiano Harry. Il primo ha sentenziato, come i tre dello zoo olandese, per Robben e Sneijder; il secondo, Harry, 700 chili ben distribuiti, si è mangiato il pollo con la bandiera spagnola, accodandosi al polpo. Non è dato sapere se poi si è pentito del suo pronostico, con quel pianto per il quale è finito miseramente in un modo di dire.

da http://www.blitzquotidiano.it