Caro amico lettore,
la libertà di scegliere segna la vita delle persone. E fa la differenza.
Il carcere, inconsapevolmente, alimenta i miti del “fuori”: l’amore, il lavoro, la felicità domestica, la vita di relazione. Spesso, invece, libertà significa fare i conti con una vita mediocre, solitaria, povera, a volte difficile e riuscire a tenerle testa. Per chi fuori non ha nulla il carcere può diventare persino un posto dove si “desidera” rimanere o ritornare. Brooks, il detenuto bibliotecario del film “Le ali della libertà di Frank Darabont, preferisce morire: dopo aver fatto il carcerato per cinquant’anni non regge l’impatto con la libertà e si uccide. Storia di celluloide emblematica di tate vite reali segnate dal “meternage” maligno dell’istituzione totale.
Ma anche quando il carcere è “buono” gli effetti possono essere devastanti.
Il portone che si apre spaventa. Se poi si apre all’improvviso restituendo la completa libertà dopo anni, decenni di detenzione è ancora più spaventoso.
Il “dentro” e il “fuori” sono tuttora incapaci di incontrarsi sul terreno comune della realizzazione degli obiettivi.
Nel nostro paese il “fuori” di cui il carcere dovrebbe nutrirsi per produrre libertà ha diverse facce. Anzitutto quella del territorio. Regioni, province, comuni, scuola, privato sociale. Un mondo che cammina sulle gambe dei “civili”, come vengono chiamati gli operatori sociali, i volontari e tutti coloro che appartengono all’amministrazione penitenziaria. “Fuori” c’è anche la magistratura di sorveglianza alla quale un legislatore illuminato ha affidato la tutela dei diritti dei reclusi. Infine il “fuori” è il terreno su cui i detenuti muovono, grazie alla legge Gozzini, i primi passi verso la libertà.
In effetti, se applicata, la legge Gozzini è, ad oggi, la risposta più efficace alla rieducazione e al reinserimento nella società civile. La ricchezza di un territorio, le opportunità lavorative e la capacità di una città di sentire il carcere come parte integrante del proprio tessuto sociale costituiscono un enorme valore aggiunto per dare significato alla pena detentiva. Ma non è così dappertutto.
Il sistema carcerario continua a considerare “la chiave” il simbolo della sicurezza ma, più sono le mandate, più sale la recidiva. Ha rinunciato al cambiamento. Dai prigionieri pretende redenzioni miracolistiche ma non fa alcuna revisione critica su se stesso, sulla propria cultura e sul proprio modo di operare.
La verità è che, nel nostro paese, il carcere rappresenta uno strumento di straordinaria ingiustizia e di annullamento della persona umana.
L’intenzione di riabilitare si rivela solo una vuota retorica perché quel che realmente si presenta all’interno del carcere è un quadro di assoluta ingiustizia mascherata dal pretesto di fare GIUSTIZIA.
In buona sostanza è il carcere come istituzione che deve essere messo sotto accusa ove sveli il suo volto primitivo quale strumento di annullamento della persona umana, quale strumento di de-umanizzazione. In pratica il carcere è concepito come un microcosmo chiuso in cui regnano orari, regole e modus vivendi in tutto peculiari e comprensibili solo a chi, per condanna o per lavoro, è tenuto a trascorrere nel carcere buona parte del suo tempo. In un così spazio si innescano dinamiche di apprendimento troppo spesso distorte che incrementano il disadattamento sociale e cultura violenta del recluso trasmettendogli la sensazione di non poter più sperare in una vita migliore. Viceversa, in un luogo di esecuzione penale, un detenuto deve sviluppare una giusta percezione della società e acquisire una competenza idonea a procurarsi onestamente e decorosamente da vivere una volta restituito al mondo libero.
Se si vuole un carcere che non sia fabbrica di alienati, asociali, di recidivi, occorre testimoniare una maggiore stima nelle persone detenute perché possano fare un cammino di riabilitazione sociale, bisogna farsi carico dei problemi e dei vissuti delle persone detenute. Ma, ahimè, la società è sorda.
Forse è giocoforza ammettere che il carcere è esso stesso un luogo della società e non un luogo al di fuori della società. Evidentemente è ancora lontana da una coscienza civile diffusa di questa necessità di affrontare il carcere, di pensarlo non come una discarica sociale, un magazzino di carne umana, un cimitero dei vivi perduti per sempre ma come luogo sociale dal quale far partire pratiche e processi di risocializzazione sottraendo quanto più spazio possibile all’isolamento e all’afflizione per realizzare alternative socialmente utili alla reclusione.
Occorre , prima di tutto, una presa di coscienza perché sia possibile operare una revisione e una trasformazione dell’attuale cultura fondata sull’eternità del giudicato penale, sull’irreversibilità delle pene erogate che non lasciano spazi, oggi, ad altre logiche che a quella concentrazionaria, di un carcere “custodiale” come unica ed eterna risposta: perché le carceri non siano luoghi in cui il senso della vita di ciascun individuo è destinato a scomparire è necessaria una “catarsi”, una sua radicale trasformazione.
ho sperimantato sulla mia pelle il carcere e posso dire che son o riuscito ad eliminare la realt delle sbarre,dedicandomi all’arte e aggrappandomi alla fede .la libert puo anche annientare i valori della vita puo anche ingannare ,il carcere peggiore e quando l’individuo crea delle situazioni e delle cicostanze che si trasformano in catene virtuali il risultato vivere per mantenere uno stile di vita frutto di un sistema diabolico ingegnoso che funziona e che fa comodo e difficile sliberarsene guidati dalla rassegnazione tutti si lamentano ,una volta dissi ad un detenuto che si lamentava per avere piu benefici io le dissi comincia a cambiare tu la prima cosa che devi fare rinuncia alle tue comodit che sono la vera ragione per la quale tu stai qui chiuso privato della tua liert per aver abusato della stessa libert prova ha trovare nella restrizione la vera libert quella della tua interiorit e di sciogliere tutti i nodi che ti sei fatto intorno alla tua vita.la libert vera va conquistata passo dopo passo e si nasconde dietro il dolore