di Francesco Sabatino
Archivi giornalieri: 6 gennaio 2010
“Somos novios”
Somos novios
Pues los dos sentimos mutuo amor profundo
Y con eso ya ganamos lo mas grande
De este mundo
Nos amamos, nos besamos
Como novios
Nos deseamos y hasta a veces sin motivo y
Sin razn, nos enojamos
Somos novios
Mantenemos un cario limpio y puro
Como todos
Procuramos el momento ms obscuro
Para hablarnos
Para darnos el ms dulce de los besos
Recordar de qu color son los cerezos
Sin hacer mas comentarios, somos novios.
La situazione. Un detenuto si uccide, un altro appena scarcerato si toglie la vita…
di Valter Vecellio
Siamo appena al 5 gennaio, e già dobbiamo segnalare due casi entrambi molto tristi, penosi. Ci siamo appena lasciati alle spalle un 2009 che ha fatto registrare il numero più alto di suicidi in carcere della storia italiana, 72; e questa tragica classifica continua. Nel carcere di Altamura, vicino Bari è morto Pierpaolo Ciullo, 39 anni, detenuto per reati di droga. Secondo le prime informazioni sembra si sia ucciso asfissiandosi con il gas.
Lo hanno trovato ormai senza vita, ai piedi del letto nella sua cella, vicino al corpo un fornello da campeggio di quelli in dotazione ai detenuti. Ciullo, originario della Provincia di Lecce, era arrivato da poco nell’Istituto Penitenziario di Altamura, proveniente dalla Casa Circondariale di Lecce.
Nel piccolo carcere di Altamura, a fronte di 52 posti “regolamentari” i detenuti presenti sono 90. Nel complesso delle carceri pugliesi, invece, i detenuti sono oltre 4.300 (dovrebbero essere non più di 2.535 posti) e nel 2009 si sono verificati 3 suicidi: a Foggia, all’Istituto per minori di Lecce, e a San Severo; i tentativi di suicidio sono stati circa 80. Sul caso di Ciullo i parlamentari radicali hanno presentato un’interrogazione, è da credere che il ministro della Giustizia non risponderà come non risponde alle decine e decine di altre interrogazioni; ma è ugualmente importante che siano fatte, perché resti almeno una traccia in un documento parlamentare di questa ennesima tragedia.
La seconda storia viene da Cagliari. Un ragazzo di 23 anni, uscito dal carcere due giorni fa si è tolto la vita. In carcere per piccoli reati, aveva manifestato l’intenzione di uscire dall’ambiente malavitoso in cui si trovava. Era però senza lavoro, si sentiva senza prospettive e agli amici aveva confidato di sentirsi disperato. Si è impiccato.
Queste storie non fanno storia se non molto raramente. Eppure sono storie che accadono con molta più frequenza di quanto si creda e si dica, si potrebbe dire ogni giorno, più volte al giorno. Storie che dovrebbero far riflettere (ma non c’è da illudersi!) i Giovanardi e i Gasparri, e in generale tutti i sostenitori delle attuali politiche proibizioniste. Grazie a queste norme criminogene, un buon terzo degli ingressi in carcere riguardano tossicodipendenti. Nelle carceri italiane, un detenuto su quattro si dichiara tossicodipendente. Quasi 16mila persone. Se si passa agli arrestati per spaccio, il dato passa dal 25% al 60%. Una situazione vergognosa e insostenibile.
Tempo fa il sottosegretario Giovanardi, incontrando i rappresentanti del Forum Droghe, di Antigone, del Gruppo Abele e altri promotori dell’appello ‘Le carceri scoppiano, liberiamo i tossicodipendenti’, ha riconosciuto che l’obiettivo deve essere quello di creare rapidamente un’analisi e uno studio di fattibilità sui problemi normativi e quelli amministrativi e sulla sostenibilità finanziaria, cosi da incrementare il ricorso alle misure alternative al carcere.
Un programma che permetta di ridurre il sovraffollamento degli istituti attraverso l’affidamento in comunità o l’applicazione di programmi terapeutici territoriali.
Insomma, è il riconoscimento di un fallimento. Ma si continua a non fare nulla; e anche questo è regime, peste italiana, Satyagraha, cioè ricerca di conoscenza e di verità.
USA. Rivoluzione Amanda
ama affida un incarico di governo a una trans
Barack Obama passerà alla storia come il primo presidente americano ad aver nominato un transessuale in un posto chiave della sua amministrazione. Si tratta di Amanda Simpson, 49 anni, membro del consiglio d’amministrazione del National Center for Transgender Equality ed ex collaudatore di aerei, scelta da Obama come Consigliere Capo del Ministero del Commercio Usa. Amanda ha conseguito tre lauree: in Fisica, Ingegneria e in Business Administration.
«Come primo transessuale nel governo americano, spero che la mia elezione apra la strada e dia altre opportunità a persone come me», ha detto Simpson. La nomina è stata immediatamente applaudita dalle organizzazioni gay e transgender americane, ma ha anche diviso il Paese. Nel 2005 Simpson si presentò alle elezioni per la Camera dell’Arizona, ma senza successo. In seguito divenne delegata democratica per Hillary Clinton alla convention che, nell’agosto 2008, incoronò Barack Obama come candidato per la Casa Bianca.
Per Vladimir Luxuria, prima deputata transessuale eletta nel Parlamento italiano, «questa è la dimostrazione che una persona trans può avere incarichi importanti e di una certa responsabilità. E poi la storia stessa di Obama è una storia di lotta alle discriminazioni. Oltre al simbolo c’è una sostanza: ora gli americani potranno sentire una persona trans parlare di questioni economiche e valutarla per le sue competenze». A CNRmedia.com l’ex deputata di Rifondazione Comunista ha detto che anche la società italiana, a suo avviso, saprebbe accettare una nomina di questo tipo: «Gli italiani sono molto meno stupidi e retrogradi di quanto si possa pensare o di quanto possano pensare certi politici. Se solo venisse data la chance a più persone trans di dimostrare quanto valgono nel lavoro e di poter mettere a frutto anni e anni di studio, di competenze, di know how, si potrebbe avere davvero una società meno sessista e meno chiusa».
La nomina di Amanda Simpson è un’eccezione nella politica, ma le opportunità lavorative per i trans stanno crescendo nel mondo professionale americano. Secondo il Corporate Equality Index della Human Rights Campaign, tre quarti delle 590 aziende censite proibiscono ogni tipo di discriminazione basata sul genere sessuale. Tra i grandi gruppi americani che hanno assunto professionisti transessuali figurano la AT&T, la Bank of America, Chevron e ovviamente Raytheon, la società per la quale Amanda Simpson lavorava
da www.vita.it
Carceri: primo suicidio 2010, interrogazione Radicali-Pd ad Alfano
“Stalattite”
di Angela Ragusa
Tintinna la lacrima
lenta….
riga di pianto
le gote arrossate
seguendo quel solco
di rughe che triste
hanno reso lo sguardo…
Gocce incomprese
di dolore confuso
che immagini nuove
hanno evocato alla mente
di paure scordate
e riaffiorate d’un tratto
come se fauci
dai denti appuntiti
avesser voluto
azzannare di me
la mia ingenuità.
Carcere: il “dentro” e il “fuori”, riflessioni di Francesco dal carcere di Augusta
Caro amico lettore,
la libertà di scegliere segna la vita delle persone. E fa la differenza.
Il carcere, inconsapevolmente, alimenta i miti del “fuori”: l’amore, il lavoro, la felicità domestica, la vita di relazione. Spesso, invece, libertà significa fare i conti con una vita mediocre, solitaria, povera, a volte difficile e riuscire a tenerle testa. Per chi fuori non ha nulla il carcere può diventare persino un posto dove si “desidera” rimanere o ritornare. Brooks, il detenuto bibliotecario del film “Le ali della libertà di Frank Darabont, preferisce morire: dopo aver fatto il carcerato per cinquant’anni non regge l’impatto con la libertà e si uccide. Storia di celluloide emblematica di tate vite reali segnate dal “meternage” maligno dell’istituzione totale.
Ma anche quando il carcere è “buono” gli effetti possono essere devastanti.
Il portone che si apre spaventa. Se poi si apre all’improvviso restituendo la completa libertà dopo anni, decenni di detenzione è ancora più spaventoso.
Il “dentro” e il “fuori” sono tuttora incapaci di incontrarsi sul terreno comune della realizzazione degli obiettivi.
Nel nostro paese il “fuori” di cui il carcere dovrebbe nutrirsi per produrre libertà ha diverse facce. Anzitutto quella del territorio. Regioni, province, comuni, scuola, privato sociale. Un mondo che cammina sulle gambe dei “civili”, come vengono chiamati gli operatori sociali, i volontari e tutti coloro che appartengono all’amministrazione penitenziaria. “Fuori” c’è anche la magistratura di sorveglianza alla quale un legislatore illuminato ha affidato la tutela dei diritti dei reclusi. Infine il “fuori” è il terreno su cui i detenuti muovono, grazie alla legge Gozzini, i primi passi verso la libertà.
In effetti, se applicata, la legge Gozzini è, ad oggi, la risposta più efficace alla rieducazione e al reinserimento nella società civile. La ricchezza di un territorio, le opportunità lavorative e la capacità di una città di sentire il carcere come parte integrante del proprio tessuto sociale costituiscono un enorme valore aggiunto per dare significato alla pena detentiva. Ma non è così dappertutto.
Il sistema carcerario continua a considerare “la chiave” il simbolo della sicurezza ma, più sono le mandate, più sale la recidiva. Ha rinunciato al cambiamento. Dai prigionieri pretende redenzioni miracolistiche ma non fa alcuna revisione critica su se stesso, sulla propria cultura e sul proprio modo di operare.
La verità è che, nel nostro paese, il carcere rappresenta uno strumento di straordinaria ingiustizia e di annullamento della persona umana.
L’intenzione di riabilitare si rivela solo una vuota retorica perché quel che realmente si presenta all’interno del carcere è un quadro di assoluta ingiustizia mascherata dal pretesto di fare GIUSTIZIA.
In buona sostanza è il carcere come istituzione che deve essere messo sotto accusa ove sveli il suo volto primitivo quale strumento di annullamento della persona umana, quale strumento di de-umanizzazione. In pratica il carcere è concepito come un microcosmo chiuso in cui regnano orari, regole e modus vivendi in tutto peculiari e comprensibili solo a chi, per condanna o per lavoro, è tenuto a trascorrere nel carcere buona parte del suo tempo. In un così spazio si innescano dinamiche di apprendimento troppo spesso distorte che incrementano il disadattamento sociale e cultura violenta del recluso trasmettendogli la sensazione di non poter più sperare in una vita migliore. Viceversa, in un luogo di esecuzione penale, un detenuto deve sviluppare una giusta percezione della società e acquisire una competenza idonea a procurarsi onestamente e decorosamente da vivere una volta restituito al mondo libero.
Se si vuole un carcere che non sia fabbrica di alienati, asociali, di recidivi, occorre testimoniare una maggiore stima nelle persone detenute perché possano fare un cammino di riabilitazione sociale, bisogna farsi carico dei problemi e dei vissuti delle persone detenute. Ma, ahimè, la società è sorda.
Forse è giocoforza ammettere che il carcere è esso stesso un luogo della società e non un luogo al di fuori della società. Evidentemente è ancora lontana da una coscienza civile diffusa di questa necessità di affrontare il carcere, di pensarlo non come una discarica sociale, un magazzino di carne umana, un cimitero dei vivi perduti per sempre ma come luogo sociale dal quale far partire pratiche e processi di risocializzazione sottraendo quanto più spazio possibile all’isolamento e all’afflizione per realizzare alternative socialmente utili alla reclusione.
Occorre , prima di tutto, una presa di coscienza perché sia possibile operare una revisione e una trasformazione dell’attuale cultura fondata sull’eternità del giudicato penale, sull’irreversibilità delle pene erogate che non lasciano spazi, oggi, ad altre logiche che a quella concentrazionaria, di un carcere “custodiale” come unica ed eterna risposta: perché le carceri non siano luoghi in cui il senso della vita di ciascun individuo è destinato a scomparire è necessaria una “catarsi”, una sua radicale trasformazione.
“Io, loro e Lara” di Carlo Verdone
di Daniela Domenici
Abbiamo avuto il piacere di poter assistere in anteprima, ieri al cinema Golden di Palermo, alla proiezione dell’ultimo film di Carlo Verdone “Io, loro e Lara”, che è uscito in contemporanea in tutte le sale italiane, e poi, nel pomeriggio, in un hotel del centro cittadino, alla conferenza stampa dello stesso regista insieme a due degli attori del cast, Laura Chiatti e Marco Giallini.
In questa sua ultima “creatura” di cui è oltre che interprete principale e regista anche autore insieme a Francesca Marciano e Pasquale Plastino, Carlo Verdone ha voluto dar vita alla figura di un sacerdote un po’ particolare e per delinearlo meglio si è ispirato, come ci ha detto durante la conferenza stampa, a molti sacerdoti, spesso giovani, da lui personalmente incontrati, di parrocchie magari di periferia, che sanno dialogare con i giovani, che sanno mediare.
Ecco, “mediare”, questo è quanto tenterà di fare per tutta la durata del film, e ci riuscirà perfettamente, il protagonista, don Carlo, un sacerdote che dopo aver trascorso dieci anni come missionario in Africa, attraversa una momento di crisi spirituale, di ripensamento e decide di tornare in Italia per una pausa di riflessione.
Ma la situazione che trova nella sua famiglia, composta dalla sorella, Bea, splendidamente interpretata da Anna Bonaiuto, che fa la psicoterapeuta ma che avrebbe bisogno lei di aiuto psicologico, da Luigi, un formidabile Marco Giannini, broker finanziario con grossi problemi di cocaina, e dal padre Alberto, impersonato da un commovente e delicato Sergio Fiorentini, lo porta a chiedersi se forse sia meglio tornare nella sua missione in Africa.
Il personaggio che stravolgerà la vita di questa famiglia ma che, alla fine, la cambierà in positivo, la migliorerà, è quello di Lara, una giovane donna la cui vita viene seguita, dal regista, in parallelo a quella della famiglia di don Carlo fino a quando, e non vi sveliamo naturalmente il momento della “svolta”, il “turning point”, le loro esistenze si incroceranno e le dinamiche relazionali cambieranno. Lara è interpretata da una formidabile Laura Chiatti che riesce a caratterizzare questa giovane donna con una varietà di toni e atteggiamenti davvero perfetti. Altro personaggio che ha un certo peso nella vicenda è la psicologa che ha in cura Lara (e alla fine del film si capirà perché), una divertentissima Angela Finocchiaro che ha saputo, in questo ruolo-cameo, essere, allo stesso tempo, buffa e tenera.
Verdone, in questo suo triplice ruolo di autore, protagonista e regista, ha saputo, ancora una volta, cavarsela egregiamente dando vita a un personaggio, e l’ha sottolineato durante la conferenza stampa, in cui la sua usuale, celebre comicità, soprattutto fisica, viene usata solo a tratti e molto delicatamente; ne viene fuori la figura di un uomo che non trova ascolto ai suoi problemi, che si trova catapultato in un mondo che non conosce, lontano anni luce da quello in cui è vissuto in Africa ma che riesce, con la sua incredibile capacità di mediare, a risolvere tutte le dinamiche e a uscirne a testa alta, arricchito da questa esperienza e lasciandosi dietro solo situazioni risolte positivamente.
Carlo Verdone ha voluto dedicare questo suo film, con cui festeggia i suoi trent’anni nel cinema, al padre Mario, scomparso durante le riprese.