A Brucoli (Augusta) recuperato un motore d’aereo della Seconda Guerra Mondiale


di Gianni D’Anna

Alle 10.35 il motore è affiorato dal fondo del mare dopo oltre 60 anni scoperto casualmente da un sub ,Aldo Podestà, che durante un’immersione ha notato il blocco motore. Questa mattina ,poco fuori, il canale di Brucoli, Aldo Podestà e Piero Bonomo, accompagnati in immersione dall’ammiraglio Andrea Toscano, hanno portato in superficie il reperto. “Il motore del aereo – spiega Aldo – era su un fondale relativamente profondo, circa otto metri, la prima volta mi ci sono imbattuto per caso durante una delle tante immersioni. Subito dopo essere sicuro di cosa si trattava ho avvertito l’amico Jano Di Mauro che ha avvertito la Marina militare nella persona dell’ammiraglio Toscano. Io stesso mi sono proposto per il recupero del motore ,e così e stato . Oggi assieme all’amico Piero abbiamo portato in superfice il relitto. Un ringraziamento particolare – conclude Podestà – va alla Eden Fish per aver messo a disposizione le attrezature e l’imbarcazione, alla Guardia costiera ausiliaria per aver curato il servizio fotografico nella persona di Jano Di Mauro”. Mattinata nuvolosa, mare poco mosso, nella zona di mare a Nord del Castello Aragonese , prima è spuntato il pallone con agganciata la corda a cui era stato legato il blocco motore tipo P XI RC40 marca Piaggio da quel pò che si è potuto distinguere. Il motore è stato sollevato a bordo con la gruetta di bordo, appena issato a bodo l’applauso dei presenti. Poi l’imbracazione ha fatto rotta verso la banchina della piazzetta del borgo marinaro dove ad attenderla c’era una piccola folla di curiosi. Il rperto è stato caricato a bordo di un mezzo meso a disposizione dalla Marina Militare e traportato presso la sede di Mari Sicilia ad Augusta. Adesso verrà custodito e controllato dagli studiosi del museo della piazzaforte per una valutazione storica e tecnica. In tanti si chiedono : ma il resto dell’aereo dove si trova?

Notizie storiche:
Se le indicazioni sono esatte, da una prima ricognizione, si tratterebbe di un motore molto comune nel periodo della II guerra mondiale, a partire dal 1938 fu montato su diversi veivoli della Regia viazione :Breda Ba.88 , idrovolanti CANT Z.1007, Caproni Ca.135, Piaggio P.23R, Piaggio P.32, Piaggio P.50 II,Reggiane Re.2000 Savoia-Marchetti S.M.79 II, Savoia-Marchetti S.M.84.Il Piaggio P.XI era un motore radiale 14 cilindri a doppia stella raffreddato ad aria. Fabbricato dalla Rinaldo Piaggio S.p.A. su licenza della francese Gnome et Rhône.
da www.augustaonline.it

Atti vandalici contro le chiese fiorentine


“Non appena calano le tenebre il deserto”. Queste parole di Don Silvano Seghi, parroco della chiesa di San Giovanni Battista, descrivono limpidamente il clima da Bronx che caratterizza l’area ex manicomiale di San Salvi dove sorge la sua parrocchia. Proprio questa atmosfera fa da sfondo all’atto vandalico che, nel weekend, ha distrutto e incenerito il portone della chiesa.

Ignoti hanno prima sfondato una vetrata e poi, con del liquido infiammabile, hanno dato fuoco al portone d’ingresso. Ma non si sono fermati qui. In seguito hanno spaccato la porta a vetri di un locale adiacente e hanno incendiato due armadietti utilizzati dal personale di una ditta di pulizie che lavora per l’Asl, che nell’area occupa alcuni padiglioni. C’è da dire che non è la prima volta che qualcuno tenta di entrare vandalicamente nella chiesa di San Giovanni Battista. “Altre volte i ladri si erano limitati a penetrare nella sagrestia o nel magazzino dove vengono tenuti oggetti e suppellettili.

Nel corso degli anni sono stati sottratti tappeti, statue del presepe, addirittura degli incensieri. In chiesa, però, non erano mai riusciti a entrare. Lo stesso deve essere successo anche l’altra notte: hanno provato a forzare una finestra per entrare dentro la chiesa, ma non essendoci riusciti hanno pensato bene di dar fuoco al portone” ha aggiunto il parroco. Per ora si suppone che i responsabili siano abusivi, forse anarchici.

Ma nel finesettimana è stato preso di mira anche il Duomo. “Invano si lava il Duomo se non si lava l’anima” c’era scritto su uno striscione affisso a tre metri da terra, poi rimosso, sull’impalcatura montata per lavori di pulitura su una delle facciate. Probabilmente una forma di protesta contro la Chiesa fiorentina agitata nelle settimane scorse dal caso Don Santoro? Questo non ci è noto. E’ certo però che ultimamente stanno aumentando gli atti vandalici nei confronti delle chiese fiorentine. Forse non è il caso di parlare di allarme, ma tra cittadini e fedeli cresce la paura e l’insicurezza.

da www.firenze.virgilio.it

Coma. Lo credono un vegetale per 23 anni, capiva tutto


di Gabriella Meroni

L’incredibile storia di un belga di 46 anni apre interrogativi sconvolgenti sul 40% dei casi di apparente stato vegetativo

Rom Houben è un belga che oggi ha 46 anni. Nel 1983 ebbe un terribile incidente stradale, che gli provocò lesioni tali da far pensare ai medici che fosse scivolato in coma. In effetti, dal 1983 al 2006 Houben non diede segni di coscienza: era paralizzato, muto, incapace di comunicare con l’esterno. Ma il suo cervello funzionava perfettamente, e il povero ragazzo, che oggi è un uomo, era in grado di capire tutto ciò che accadeva intorno a lui. L’uscita dal tunnel, come riferisce la Bbc che ha realizzato un servizio filmato sul caso, è datata solo 2006: tre anni fa infatti i medici dell’università di Liegi hanno sottoposto il paziente a un innovativo esame dell’encefalo da cui è emerso che il suo cervello, ritenuto morto, era quasi completamente funzionante.

Da parte sua Houben, che oggi comunica digitando le parole su una tastiera elettronica, dice di essersi sentito arrabbiato e impotente per molti anni, ma poi di aver imparato a convivere con la situazione. «Gli altri avevano una certa idea di me, un’idea piuttosto patetica», ha detto al giornalista della Bbc che l’ha incontrato. «Io sapevo quello che avrei potuto fare. Ma ho imparato ad avere pazienza e ora finalmente sono tornato su un piano di parità con gli altri». La madre di Houben, Fiona, ha dichiarato di aver sempre saputo che il figlio poteva comunicare. «Non è un depresso, ma un ottimista», ha detto la donna. «Vuole ottenere il massimo dalla vita». Il caso del «falso comatoso» ha scosso il Belgio, sollevando molti interrogativi su quanti casi di apparenti stati vegetativi non siano in realtà tali. Quanti pazienti ritenuti in coma – è la domanda che rimbalza sui media – sono in realtà prigionieri dei loro corpi, e disperati per l’impossibilità di inviare segnali al mondo? Secondo alcuni esperti, intervistati dalla Bbc, circa il 40% delle persone «in stato vegetativo» in seguito a esami approfonditi rivelano segni di coscienza. da www.vita.it

Giulia La Rosa: ritratto di una jazz singer siciliana – Giulia La Rosa: Portrait of a Sicilian jazz singer


di Daniela Domenici

Abbiamo rivolto alcune domande a Giulia La Rosa per conoscere un po’ più da vicino questa formidabile cantante jazz.

–      Ogni tanto vieni a esibirti a Catania come lo scorso 19 febbraio all’Enola Jazz Club, come mai?

–      Catania è la mia città d’origine anche se vivo ormai da 17 anni a Roma ed è sempre rimasta dentro di me; non appena se ne presenta l’occasione torno volentieri a esibirmi qui. E’ una grande emozione per me cantare nella terra dalla quale provengo. Significa ridare alla mia terra le vibrazioni che mi ha donato dalla mia nascita.

–      Da quanto tempo canti?

–      Iniziamo dicendo che la musica è sempre stata presente sin dalla mia più tenera infanzia nella mia famiglia d’origine; i miei genitori avevano un palco al Teatro Massimo Bellini, il tempio catanese della lirica, e quindi sono cresciuta respirando musica lirica. Sono stata fortunata per essermi ritrovata in un ambiente musicalmente curato, ero piccola e ascoltavo Bach, Chopin, Duke Ellington, Brian Auger, modelli di ascolto che mi hanno lasciato un’impronta. Ho iniziato a cantare durante l’adolescenza ma non subito musica jazz, diciamo che le mie prime esibizioni canore sono state di blues. Poi verso i 25 anni quella che sarebbe diventata poi la mia maestra, Rosalba Bentivoglio, ascoltando la mia voce mi ha spronato a iniziare nel campo del jazz e da quel giorno, e sono passati più di 20 anni, non mi sono più fermata.

–      Cos’è, per te, cantare e, soprattutto, questo tipo di songs?

–      Per me cantare jazz è far emergere il mio vero “sé”, è un modo per rapportarmi al pubblico, per avvicinarmi a lui, per dare emozioni, è una maniera di esprimere la mia vera anima. Entrare nell’interpretazione…”the way of feeling” ò la mia caratteristica espressiva…come un anello che fonde la parola alla nota musicale…diventando un unico colore. La Musica può metterci in contato con esperienze passate e prefigurare un futuro migliore. Nel Jazz le imperfezioni, gli errori possono aggiungere sfumature e personalità alla musica diventando un momento di grande insegnamento. L’improvvisazione jazzistica è un momento di elaborazione di una matrice tematica dalla quale…fuoriescono delle varianti che ti ricongiungono al punto di partenza.

–      Per noi “profani” puoi provare a spiegare cos’è una “jam session”?

–      La magia di unire cuori sconosciuti. Quando è notte fonda…la scena si svolge in un qualsiasi posto al mondo…dove i musicisti swingano fino al mattino. Sali sul palco, suona quello che senti…annunci un pezzo…stacchi il tempo e la gente incomincia a sorridere…i musicisti iniziano un viaggio…tra le note insieme a te. Benvenuti ad una jam session!…un sassofonista sbuca fuori non si sa da dove…la sezione ritmica può rimanere…una cantante…si insinua tra le note…e diventiamo ubriachi di swing finchè non sorge il sole.

–      So che hai vissuto lunghi periodi all’estero; pensi che queste esperienze ti abbiano arricchito anche nel campo del jazz?

–      Ogni nazione ha una propria anima…ed è così che esiste la possibilità di decodificare uno spirito jazzistico diverso da un altro ma che diventa un unico colore…il colore del jazz…il colore della libertà.

http://www.myspace.com/larosagiulia

http://www.youtube.com/watch?v=u6Tg47VxCy8

Bambini. Una libreria innovativa apre a Bagnoli


di Antonietta Nembri

Si inaugura a Napoli mercoledì 25 novembre alle ore 11.00 aleph@book, la nuova libreria specificamente rivolta a bambini e ragazzi, aperta dall’impresa sociale Aleph Service del gruppo Gesco con il marchio Farepiù, che promuove originali iniziative imprenditoriali per l’inserimento nel mondo del lavoro di persone svantaggiate.

Dopo il primo market solidale a chilometro zero in via Poggioreale, aleph@book è la seconda iniziativa del genere sul territorio napoletano. Si trova in via Giusso 11/13 a Bagnoli, nei pressi dell’Istituto Alberghiero.
In un periodo di crisi per l’editoria e in una città in cui le poche esperienze di librerie per ragazzi sono state costrette a chiudere dalla concorrenza dei megastore generalisti, aleph@book vuole rappresentare una scommessa del mondo sociale verso i più giovani e anche un’opportunità di inserimento lavorativo per alcuni di loro che provengono da condizioni di svantaggio sociale.

aleph@book propone libri di narrativa per bambini e ragazzi, materiale di cancelleria e informatico. Inoltre mette a disposizione dei giovani un internet point gratuito in alcune fasce orarie e promuove nei suoi spazi iniziative di musica e di animazione, a partire dalla stessa giornata inaugurale. Nel pomeriggio di mercoledì (dalle ore 16.30) si terrà infatti una festa aperta alla partecipazione di tutti i bambini e ragazzi del territorio e alle loro famiglie, con giochi realizzati dagli operatori della cooperativa Terra e Libertà , una merenda pomeridiana fornita dalla cooperativa Zenzero   e un ottimo caffè del circuito equo e solidale offerto dalla cooperativa Altro Mondo.
Parteciperanno all’inaugurazione il presidente di Aleph Service Luca Sorrentino; il presidente del gruppo Gesco Sergio D’Angelo; l’assessore all’Istruzione, Formazione e Lavoro della Regione Campania Corrado Gabriele. Interverrà come testimonial l’attore Patrizio Rispo.

da www.vita.it

 

Pronto soccorso per i peluches a Napoli


Funziona tutto come in un vero e proprio pronto soccorso: ci sono i medici con il camice, ci sono le visite e anche la diagnosi. I pazienti, però, sono un po’ fuori dalla norma visto che si tratta di pupazzi. Accade a Napoli dove i bimbi potranno far ‘curare’ i loro ‘amici di gioco’. Dove? Nel primo Pronto Soccorso al mondo per animali di peluche.

Si trova all’interno del Parco Zoo di Napoli e due, spiegano gli organizzatori, sono gli obiettivi che si ha intenzione di raggiungere: diffondere l’amore per gli animali, quelli veri, ed educare i più piccoli al riciclaggio e al riutilizzo, anche delle cose vecchie. “Ormai i nostri bambini sono abituati a buttare subito il giocattolo che si rompe – spiega Francesco Emilio Borrelli, presidente dell’associazione ‘Watchdog’ che ha ideato l’iniziativa insieme all’amministratore del Parco Zoo, Cesare Falchero – invece devono rendersi conto che un pupazzo rotto si può aggiustare e, quindi, riutilizzare”.

Il pronto soccorso funziona così: il bimbo porta il suo animale di peluche, il medico lo visita e fa la diagnosi. Se l’aggiusto è cosa di poco conto viene fatto in tempo reale, altrimenti si ritira il ‘paziente’ il giorno dopo quando ai bimbi viene anche consegnato l’attestato di ‘Amico degli animali’, in questo caso quelli veri. Al bimbo vengono, infatti, consegnate le dieci regole del giovane animalista.

Il punto prima recita così: “Ricorda sempre che chi non sa amare gli animali, non sa neppure amare le persone”. Nel giorno del debutto oggi sono stati circa dieci i bimbi che hanno portato al pronto soccorso i propri pupazzi che saranno curati dal personale dell’Ospedale delle bambole, diretto da Tiziana Grassi. “E’ una iniziativa unica e talmente originale – spiega Falchero – che già siamo stati contattati da altre parti del mondo per realizzare progetti simili. Siamo felici di dare ai nostri bambini un messaggio positivo e di amore dopo le tristi vicende che abbiamo letto in questi giorni legate ai baby neomelodici che cantano di sesso, violenza e camorra”.

fonte ANSA

Mai più soli, una guida per i detenuti


di Paola Pioppi

CAPIRE DOVE si è finiti, quali sono i punti di riferimento e le procedure, come chiedere e a chi. Poterlo fare nella propria lingua, abbattendo le distanze tra chi non ha padronanza dell’italiano e chi deve, con difficoltà, dare le minime coordinate a chi finisce in carcere per la prima volta. Un problema reale, che al’interno della casa circondariale di Como è cresciuto assieme alla percentuale di popolazione straniera, giunta ormai al quaranta per cento.

LA «GUIDA per i detenuti di Como», presentata ieri all’interno del Bassone, è il risultato di un progetto nato tre anni fa, a cui hanno collaborato dieci detenuti e uno staff di cui hanno fatto parte la Cooperativa Questa Generazione e l’Auser, realizzata graficamente dal Centro Stampa Bassone. Si tratta di un volume destinato ad essere consegnato a chi entra in carcere per la prima volta, in cui sono racchiuse le informazioni essenziali per orientarsi, per capire quali sono le procedure, le figure a cui fare riferimento, le leggi essenziali, il personale, le attività e il lavoro all’interno dell’istituto. Il tutto realizzato in sette lingue in considerazione del numero di stranieri presenti – italiano, inglese, francese, spagnolo, albanese, rumeno, russo, arabo – a cui si aggiungono le versioni pronte in pdf di turco e cinese.

PER ORA ne sono state stampate mille copie, distribuite in tutto il carcere e a disposizione di chi farà ingresso in futuro. «È una guida transculturale – ha spiegato Mauro Imperiale, responsabile dell’area educativa, realizzata con l’aiuto di educatori e mediatori. È uno strumento di comunicazione per avvicinarsi al nuovo giunto, in un momento di adattamento alla vita carceraria». Dario, detenuto che lavora al centro stampa e che ha realizzato l’impaginazione della guida, ha spiegato che «è un progetto nato attraverso il confronto, senza distinzione tra detenuti, educatori, operatori penitenziari: confronto che non è una cosa scontata all’interno di questa realtà, dove ognuno ha i suoi ruoli e doveri, ma nonostante ciò è stato possibile fare un lavoro sinergico. Abbiamo creato un gruppo di persone di diverse etnie e culture, con una capacità comune: condividere l’ascolto reciproco, essere capaci di guardare al prossimo e prodigarsi per lui.

INIZIATIVE di questo genere devono avere la precedenza, perché attraverso l’impegno per la realizzazione di un bene comune, una persona ha la possibilità di crescere e di cambiare». Dal pubblico, uno dei detenuti è intervenuto ricordando che all’interno della guida si faceva riferimento a servizi che spesso sono carenti o inaccessibili all’interno del carcere: «È vero – ha risposto Federica Pisani – educatrice che ha fatto parte del progetto – ma questa guida non è una soluzione ai problemi. Serve piuttosto a individuare le criticità e a cercare di risolverle».

da www.ilgiorno.ilsole24ore.com

Gravidanza: se la madre beve alcol, rischio depressione per il bambino


di Matteo Clerici

Bere alcol, anche in maniera moderata, durante la gravidanza, raddoppia i rischi di depressione per i figli.

E’ quanto emerge da uno studio del Telethon Institute for Child Health Research (Australia), diretto dalla dottoressa Colleen O’Leary e pubblicato da “Addiction”.

La dottoressa ed i suoi collaboratori hanno lavorato con più di 2000 donne incinte ed i loro figli, intervistando le prime sull’abitudine al bere e studiando i secondi riguardo alla loro salute fisica e mentale. In generale, i ricercatori hanno osservato come solo un terzo delle volontarie si sia astenuta dall’alcol, nonostante gli avvertimenti medici di rinunciarci completamente durante la gestazione.

Riguardo agli effetti, è così emerso come sia sufficiente una bottiglia di vino la settimana nel primo trimestre della gravidanza per raddoppiare le possibilità’ di ansia e depressione nei figli. Al contrario, bere alla fine della gravidanza sembra aumentare il rischio di aggressività’ e di dolori fisici nei bambini.

Spiega la dottoressa O’Leary: “La maggior parte di questi problemi non e’ evidente fino a che il bambino non cresce. C’è’ una chiara evidenza che i problemi comportamentali dei figli aumentano all’aumentare del consumo di alcol da parte delle madri. L’alcol in gravidanza agisce in modi diversi. l tempo e la quantità’ di esposizione all’alcol sono essenziali per comprendere a pieno i suoi effetti. Non tutti i bambini hanno problemi se sono stati esposti all’alcol nell’utero, ma tuttavia il rischio c’è’ e le madri dovrebbero essere informate a riguardo”.

da www.newsfood.com

Robben Island, dove il calcio fece scuola a Mandela


di Dario Ricci

Il sole caldo dell’estate sudafricana oggi ha concesso una tregua. Come se anche lui avesse deciso di prendersi una pausa, per fermarsi ad ascoltare la storia che Itcy Malengue sta narrando ai visitatori appena sbarcati a Robben Island. Perché se tutti – più o meno – sanno che cosa è stata Robben Island per il Sudafrica (il carcere per antonomasia, quello in cui Nelson Mandela scontò 18 dei suoi 27 anni di prigionia, immatricolato col tragico e celebre numero 466/64), praticamente nessuno sa che qui, sotto lo sguardo dei carcerieri bianchi che osservavano dall’alto delle torrette e il latrato dei cani di guardia, si giocava anche a calcio. Di più. Proprio il calcio fu la “scuola politica” attraverso la quale si sono formati i quadri dirigenti del Sudafrica multietnico e democratico.

Tutti in campo – «Questo era il nostro campo da gioco. E qui non giocavamo solo a calcio. Ma anche a rugby e atletica leggera. E in altre aree del carcere riuscimmo a ottenere il permesso di allestire campi da tennis, o di giocare ai nostri giochi da tavolo preferiti. E durante il periodo di Natale fummo capaci anche di organizzare una giornata dedicata ai Giochi Olimpici di Robben Island!». Così racconta Itcy ha chi lo ascolta, sbigottito e perplesso. Malegue è stato prigioniero a Robben Island: decise di lottare con le sue povere armi – il desiderio di rovesciare il regime dell’apartheid e le proprie mani – contro l’ingiustizia e il sopruso dei bianchi sui neri. Troppo, per il potere razzista di Pretoria, che lo spedì qui, su quest’isola a circa 10 chilometri al largo di Città del Capo, lingua di terra fra due oceani spazzata continuamente dai venti. Qui Malengue fu addetto alle cucine durante gli anni di carcere, e ora lavora come guida turistica, accompagnando i visitatori che ogni giorno sbarcano dalla costa alla scoperta del dolore e degli orrori di Robben Island. Ma anche della speranza e dei miracoli che queste celle e le cave di pietra dell’isola – scavate dai prigionieri costretti ai lavori forzati – hanno saputo restituire alla Rainbow Nation. «La nostra lega calcistica è stato uno di questi. La Makana Fotball Association ci diede gioia, speranza, fiducia e convinzione che un giorno questo paese sarebbe stato libero, e che noi saremmo stati capaci di guidarlo».

La storia – Quasi banale dire che lo sport, e il calcio in particolare, era tra le passioni più vive in un carcere di massima sicurezza maschile, come quello che si trovava sull’isola. Le prime partite si cominciarono a giocare nel 1963, di nascosto, nei corridoi dei blocchi, con palloni fatti con vecchi stracci. Chiedere di poter giocare a calcio per davvero non fu semplice. Robben Island non era un carcere qualsiasi e nel Sudafrica dell’ apartheid i neri non avevano diritti. Eppure, grazie alla determinazione dei prigionieri e alla Croce Rossa, in un ventoso sabato mattina del dicembre ‘ 67 si giocò la prima partita: Rangers-Bucks. Le divise erano quelle del carcere, quasi tutti i giocatori erano scalzi e molti si reggevano in piedi a fatica. Ma da quel mattino in poi il calcio divenne centrale nella vita dei prigionieri. Per il calcio si misero da parte le divisioni politiche, che pure contrapponevano i detenuti politici. Per giocare, avere le maglie, le scarpe, cibo migliore, i prigionieri-giocatori rappresentati dalla Makana Football Association cominciarono a negoziare con i loro carcerieri, a evitare risse, proteste isolate. Diventarono un movimento unito, capace di dialogare, lottare, chiedere e ottenere. E con il preciso intento di lasciare futura memoria della loro battaglia per il diritto al football.

Testimonianze scritte – Sì. Perché la cosa che sorprende nell’accostarsi alla storia di questa lega calcistica – chiamata “Makana”dal nome di un ex condottiero zulu che venne ucciso nel tentativo di fuggire dall’isola nel tardo Ottocento – messa in piedi dai prigionieri dopo lunghe trattative con le autorità del carcere, non è solo la complessità dell’organizzazione (la Makana arrivò ad avere nove squadre, ognuna con 3 diverse formazioni per la serie A, B, e C), o la puntualità nel seguire rigorosamente il regolamento della Fifa (esistevano gruppi di arbitri, segretari e referenti per ogni club, un collegio giudicante le controversie e le misure disciplinari). La cosa che più sorprende è che – in un universo dove un pezzo di carta e una penna o una matita erano beni preziosi per garantirsi vantaggi spesso decisivi nella cruda vita del carcere – tutto è stato minuziosamente registrato in atti ufficiali di ogni tipo (referti arbitrali delle partite, classifiche, ricorsi disciplinari, risultati e classifiche marcatori). Tanto che viene spontaneo chiedersi: perché?

Più di un gioco – «Semplice: perché quegli uomini avevano l’esatta percezione che quella che si stava giocando a Robben Island era più di una partita di calcio, e che il football per loro e per il Sudafrica era più di un gioco, di cui bisognava lasciare precisa testimonianza», ci risponde al telefono da St. Louis , Missouri, Stati Uniti, Chuck Korr, professore emerito dell’Università locale e docente del Centro Internazionale di Storia e Cultura dello Sport della DeMontfort University, che ha portato alla luce la storia della Makana Football Association (da cui sono stati tratti un film e un libro, More than just a game, la cui versione italiana sarà pubblicata a marzo da Iacobelli Edizioni, con prefazione di Gianni Rivera, n.d.r.). «La Makana poté avere quella struttura – spiega Korr – perché fondata e animata soprattutto da prigionieri politici. Se il calcio dava loro piacere, gioia, speranza, l’organizzare la Lega li metteva alla prova ogni giorno: saper gestire il football in quelle condizioni estreme voleva dire essere in grado di poter guidare, un giorno il Paese. Scrivere un corretto referto arbitrale in quell’universo, era propedeutico a scrivere una buona legge per il Paese nel momento in cui se ne fossero create le giuste condizioni». Non a caso l’attuale presidente sudafricano Jacob Zuma e il ministro per gli insediamenti Tokio Sexwale furono – oltre che prigionieri a Robben Island – anche tra i protagonisti della Makana FA.

Riconoscimento ufficiale – Seguire scrupolosamente il regolamento del gioco del calcio definito dalla Fifa. Questo fu uno dei dettami seguiti dai prigionieri-fondatori della Makana, per far capire a tutti che si facevano le cose sul serio. E la stessa Federcalcio mondiale ha reso omaggio alla lega calcistica di Robben Island (che oggi è Patrimonio Mondiale dell’Umanità). il 18 luglio 2007, giorno dell’ 89° compleanno di Mandela, il campo da calcio della prigione dell’isola ospitò campioni come Pelé, Eto’o, Weah, Gullit, che segnarono una partita con 89 gol, tanti quanti gli anni del padre del Sudafrica libero e democratico. Omaggio che si ripeterà il 3 dicembre prossimo, quando gli eroi della Makana Fa verranno celebrati in occasione del sorteggio della fase finale di Sudafrica 2010.

da www.ilsole24ore.com

Facebook non è la luna, bensì il dito che la indica


di Franco Bolelli
Ogni volta che un fenomeno facciamo fatica a definirlo, ogni volta che non ne vuole sapere di stare nella gabbia delle nostre categorie mentali, è dannatamente probabile che quel fenomeno abbia qualcosa in più, che sia più ricco, più complesso, più vivo.
Prendiamo – no, non sbuffate, vi prego – Facebook. Non ricordo che gli umani abbiano mai congegnato prima un prodotto meno unilaterale, tanto capace di essere tranquillamente una cosa e anche il suo opposto. Facebook è una moda fatua e un esperimento antropologico senza precedenti. E’ un passatempo se non una perdita di tempo e un’esposizione universale di biografie individuali. E’ sostanzioso confronto di idee e futile cazzeggio, è un diluvio di informazioni in diretta e voyeurismo da buco della serratura. E’ illusorio, consolatorio tentativo di colmare i propri vuoti cercando qualcosa che manca nella propria esistenza ed è straordinaria espansione delle proprie relazioni. Se di questa bipolarità – comunque energetica – vedete soltanto una delle due anime, è perchè quella è la vostra appartenenza, il vostro mondo di riferimento.
Nassim Taleb, autore del Cigno Nero, oggi celebrato per aver previsto la crisi economica, ha elaborato questa tesi: nel nostro mondo ci sono due mondi, che potremmo chiamare Mediocristan ed Estremistan. Il primo è generalista e dentro gli schemi, il secondo portato ad avventurarsi dove gli schemi si dissolvono e si aprono nuove possibilità. Ecco, Taleb non fa riferimento a Facebook, ma la connessione è evidente.
Perchè Facebook non è la luna, è il dito che la indica: la luna è la qualità degli esseri umani che usano il più pop dei social network. Facebook rispecchia chi sei, lo evidenzia, lo amplifica. E’ questo il suo grandioso valore, ed è per questo che trovo Facebook assolutamente appassionante, è perchè crea opportunità e le estende sempre di più. Se tu sei una zucca, non è che Facebook ti trasforma in carrozza con i cavalli: ma genera opzioni che poi tocca a ciascuno di noi giocarsi da sè. Ad esempio, sta a noi decidere se i contatti generati lì resteranno confinati in rete o si estenderanno ai corpi: Facebook ce ne offre comunque la possibilità, anzi di più, ci svela che web e corpo, biologico e tecnologico, non sono affatto in opposizione, stanno benissimo mano nella mano. Una più ampia possibilità di scelta: non credo che a un fenomeno, a uno strumento, si possa chiedere più di così.