“Why don’t you do right”


You had plenty of money in 1922.
You let other women make a fool of you.
Why don’t you do right,
like some other men do?

Get out of here,
get me some money too.
You’re sittin down and wonderin what it’s all about.
If you ain’t got no money, they will put you out.
why don’t you do right,
like some other men do?

Get out of here,
get me some money too.

Now if you had prepared 20 years ago.
You wouldn’t be a wanderin now from door to door.
Why don’t you do right,
like some other men do?

Get out of here,
get me some money too.

Get out of here,
get me some money too.

Why don’t you do right, like some other men do?

Giustizia: i Radicali da 5 giorni in sciopero fame per le carceri


Inizia il quinto giorno di digiuno per Rita Bernardini, Irene Testa, Annarita Digiorgio, Alessandro Litta Modignani e me, per la calendarizzazione della mozione presentata dall’onorevole Bernardini e altri, sulla insostenibile condizione delle carceri italiane”.

Lo afferma Claudia Sterzi, segretaria dell’associazione radicale Antiproibizionisti, che aggiunge: “Condizioni carcerarie che ci riportano sempre di più a un medioevo che avremmo voluto fosse rimasto solo un ricordo storico. In queste carceri vivono, o meglio sopravvivono, cittadini rei solo di coltivazione per uso personale di canapa, un reato che farebbe ridere se non fosse per la tragedia sociale, umana e politica delle sue conseguenze. I radicali, da decenni, combattono una battaglia nonviolenta per la depenalizzazione del consumo personale e quindi anche della coltivazione domestica; nella mozione presentata si richiama anche l’ultimo disegno di legge presentato che è, appunto, dell’onorevole Bernardini, e che equipara la coltivazione domestica all’uso personale, come sembrerebbe ovvio ma non è. Quale reato commettono i cittadini che coltivano per se stessi, se non quello di non finanziare il narcotraffico, che contribuisce in misura preponderante alla sopravvivenza delle mafie? Per la libertà di uso e di coltivazione, per liberarsi dalle mafie e dal narcotraffico, prosegue dunque la nostra rivolta nonviolenta alla quale invito tutti gli antiproibizionisti, i consumatori e i coltivatori ad unirsi”.

da www.ristretti.it

Punire o educare?


Una ridotta infinità di norme, una legge troppo particolareggiata uniforma “tutti” a uno stereotipo e l’uomo diventa un burattino tirato dai fili della legge, al punto che si può arrivare al paradosso di una legge che non ha niente a che fare con la “morale” e che, addirittura, diventa un “tracciato per i soprusi”.

Consentitemi di dire che non credo che la punizione serva a chi è andato contro le regole. Esprime la paura di una società di una società che vuol mostrare i propri “muscoli”, che crede nella “pedagogia della durezza”.

“Se fai questo ti rovino” e può arrivare alla pena di morte. Così un giudice diventa forte quanto un Dio. È difficile tuttavia pensare a una “norma” senza un provvedimento nel caso venga tradita. Riproporrebbe la concezione del “buon selvaggio”, capace di autocontrollo e ciò sa di utopia.

Bisogna mantenere il principio della punizione ma, bisogna tener presente che ci sono punizioni più gravi del delitto perché non consentono di “rimediare”. Sono contrario alla pena di morte e all’ergastolo.

Nel primo caso si ammazza tutto, nel secondo si rispetta il corpo e si ammazza la personalità. E crede che il carcere debba essere un luogo di educazione e avere, dunque, le caratteristiche delle “istituzioni educative” attente a tirare fuori dall’uomo ogni elemento che gli permetta di diventare più utile alla società. Il carcere come “camicia di forza”, come “immobilità” per non fare del male e pura follia, è antieducativo.

Senza considerare l’assurdo di un luogo dove si accumula la criminalità, che ha un potere endemico maggiore di un virus influenzale.

L’assembramento di chi è contro la legge è già di per se controproducente, mi piace di più il principio di risarcimento: se uno è andato contro la legge ed ha provocato un danno, nei limiti del possibile, deve poterlo risarcire. E’ vero, vi sono delitti che non ammettono un risarcimento proporzionato (come quando si ammazza) ma anche in questi casi è possibile trasformare l’assassino in una persona che dedica gran parte della propria vita ad aiutare chi è rimasto solo ed abbandonato.

Mi rendo conto di alcune ingenuità insite in questa mia affermazione, pur tuttavia sento che questa modalità è molto più produttiva sul piano riabilitativo di qualsiasi sistema di punizione.

Mi affascina il discorso sull’educazione, sulla formazione dell’uomo a rispetto delle regole è la maniera migliore per impedire e prevenire il crimine. Ogni società deve convincersi che è meglio investire in educazione che spendere in punizione.

La società italiana di oggi spende poco per educare mentre è “dilapidata” dal costo per “carceri, polizia e magistratura”.

Perché non spendere in educazione? Perché non si fa in modo di arricchire i detenuti invece che abbrutirli ancor di più dopo che si sono abbrutiti nel delitto?

Lo stato dovrebbe fare delle carceri il “luogo” più evoluto in quanto ci sono degli uomini da correggere invece è un groviglio di inefficienza e frustrazione.

Il primo segno dell’impegno educativo è la promozione della cultura, il diritto come dovere la cultura come pedagogia dell’errore.

La cultura è tutto quando nasce dall’uomo e serve all’uomo e, assieme all’educazione, sono i punti principali dell’uomo che ha bisogno di imparare avendo anche qualcosa da insegnare.

Azioni capaci di trascinare nel rispetto dei “principi condivisi”.

La giustizia nel nostro paese non deve essere un illusione non si sotterrano le coscienze nel “ferro e cemento” ma, evidentemente, antropologicamente siamo ancora dei primitivi.

La nostra società non può rimanere sorda a questo tema.

Tutti gli organi di competenza devono comprendere che l’indirizzo è quello di incamminarsi verso un carcere dalla fisionomia trattamentale.

Un carcere dove tutti partecipano attivamente e fattivamente a soddisfare i bisogni e le istanze dell’uomo detenuto, il quale dovrà essere consapevole e cosciente della propria soggettività.

Ecco che cosa bisogna fare: ridare una coscienza a chi credeva di averla persa.

 Francesco Antinolfi dal carcere di Rossano, maggio 2007 (attualmente in quello di Augusta)

dal sito www.yairaha.org

Giuseppe Cucè in un nuovo concerto “live” a Catania


di Daniela Domenici

Mercoledì 25 novembre alle ore 21.30 presso ZO – Centro Culture Contemporanee di Catania Giuseppe Cucè sarà protagonista di un nuovo concerto dal vivo: “La mela e il serpente”, titolo anche del suo primo album pubblicato lo scorso 26 giugno con la TRP Music con il quale riscuote un buon consenso di pubblico e di critica non solo in Italia ma anche all’estero.

Giuseppe Cucè, conosciuto anche per lo spettacolo di teatro-musica “Oltre le nuvole – Luigi Tenco Tribute” che l’ha visto protagonista con altri importanti interpreti della tradizione canora siciliana, torna ad esibirsi dal vivo presentando al pubblico catanese questo un nuovo evento: “un concerto a più voci sul tema del libero arbitrio”. Verranno proposte al pubblico interpretazioni inedite tratte dal cd “La mela e il serpente” ma non mancheranno importanti cover di noti cantautori (Tenco, Conte, De Andrè). Sul palco, inoltre, saranno protagonisti con Giuseppe Cucè musicisti del calibro di: Francesco Bazzano (batteria e percussioni); Antonio Masto (chitarra classica); Edoardo Musumeci (chitarra acustica); Marco Carnemolla (basso acustico); Adriano Murania (violino); Alessandro Longo (violoncello).

Sarà ospite della serata Giovanna Damiano, giovane interprete catanese con grande “personalità vocale”, che duetterà con Giuseppe Cucè coinvolgendo il pubblico in un vero e proprio “viaggio artistico” che, partendo dall’oriente, attraverso sonorità mediterranee, condurrà il cantautore ed il suo pubblico nella città natale, Catania, terra di mille contraddizioni rappresentate essenzialmente dal dualismo acqua/fuoco con il quale ogni catanese deve imparare a convivere.

Il live “La mela e il serpente” sarà, infine, impreziosito dalla partecipazione straordinaria di Agata Lo Certo, cantautrice catanese che “ama la musica, ama scrivere e ama raccontare se stessa attraverso le sue canzoni”.

Perchè mangiare poco allunga la vita?


È da tempo noto che restrizioni e rinunce alla dieta diminuiscono gli effetti dell’invecchiamento e delle malattie, ma il meccanismo alla base di questo fenomeno era sconosciuto. Ora i ricercatori della Mount Sinai School of Medicine degli Stati Uniti hanno scoperto come le molecole del nostro organismo prendano parte al complesso processo che associa il mangiare di meno a una vita più lunga.

«Il nostro studio ha tentato di rispondere a una domanda particolare: perchè mangiare poco rallenta l’invecchiamento, mentre mangiare tanto accelera le malattie provocate dall’età avanzata?», ha detto Charles Mobbs, professore di neuroscienze e geriatria della Mount Sinai School of Medicine, e a capo dello studio pubblicato sulla rivista PLoS Biology. «La risposta, come abbiamo scoperto, potrebbe risiedere nello stress ossidativo causato dall’alimentazione», ha aggiunto. Una dieta a basse calorie, infatti, ridurrebbe l’impatto del metabolismo del glucosio, e di conseguenza lo stress ossidativo. Una dieta ipercalorica ha invece l’effetto opposto.

«Non ha importanza quale dieta si segue, se si riducono proteine, carboidrati o grassi», ha spiegato Mobbs. «Quello che conta – ha continuato – è la riduzione complessiva delle calorie. Poche calorie, infatti, promuovono un fattore di trascrizione chiamato CREB-binding protein (CBP). Questo fattore controlla l’attività dei geni responsabili delle funzioni cellulari e dell’invecchiamento delle cellule». Mobbs ritiene che, se si dovesse riuscire a sviluppare un farmaco che imita gli effetti di CBP sull’organismo, gli scienziati potrebbero anche allungare la vita dei pazienti riducendo lo stress ossidativo. «CBP può essere usato per prevedere la durata della vita, ed è il responsabile dell’80 per cento delle variazioni della durata di vita nei mammiferi», ha detto Mobbs. «Ridurre CBP del 10 per cento allungherebbe brevemente la vita, mentre ridurlo dell’80 per cento farebbe morire di fame l’individuo. Tutto sta nel trovare il giusto equilibrio», ha concluso.

da www.lastampa.it

“I have a dream”: in memory of Martin Luther King and John Fitzgerald Kennedy


Ieri era l’anniversario dell’uccisione del presidente americano J.F. Kennedy a Dallas; in pochi anni è riuscito a cambiare il volto dell’America, a lui si deve il “New Deal” e per ricordarlo pubblico il testo di questo celebre discorso tenuto da Martin Luther King, anche lui ucciso cinque anni dopo, sul sogno che condivideva con il presidente Kennedy.

28 agosto 1963 – I am happy to join with you today in what will go down in history as the greatest demonstration for freedom in the history of our nation.

Five score years ago, a great American, in whose symbolic shadow we stand today, signed the Emancipation Proclamation. This momentous decree came as a great beacon light of hope to millions of Negro slaves, who had been seared in the flames of withering injustice. It came as a joyous daybreak to end the long night of their captivity. But one hundred years later, the Negro still is not free. One hundred years later, the life of the Negro is still sadly crippled by the manacle of segregation and the chains of discrimination.

One hundred years later, the Negro lives on a lonely island of poverty in the midst of a vast ocean of material prosperity. One hundred years later, the Negro is still languish in the corners of American society and finds himself an exile in his own land So we’ve come here today to dramatize a shameful condition.

In a sense we’ve come to our Nation’s Capital to cash a check. When the architects of our republic wrote the magnificent words of the Constitution and the Declaration of Independence, they were signing a promissory note to which every American was to fall heir.

This note was a promise that all men, yes, black men as well as white men, would be guaranteed the inalienable rights of life liberty and the pursuit of happiness.

It is obvious today that America has defaulted on this promissory note insofar as her citizens of color are concerned. Instead of honoring this sacred obligation, America has given the Negro people a bad check, a check which has come back marked “insufficient funds.”

But we refuse to believe that the bank of justice is bankrupt. We refuse to believe that there are insufficient funds in the great vaults of opportunity of this nation. So we have come to cash this check, a check that will give us upon demand the riches of freedom and the security of justice.

from www.holidays.net

“Gita in libreria” degli allievi della scuola materna ad Augusta


di Daniela Domenici

Lo scorso 13 novembre la libreria “Letteraria” di via Umberto 270 ad Augusta ha avuto come ospiti i piccoli lettori della scuola materna Domenico Costa per una “gita letteraria”.

I due librai, Viviana e Francesco, hanno illustrato ai bambini, in modo semplice e chiaro, quali siano i meccanismi che regolano il funzionamento di una libreria specializzata nel settore junior. L’attenzione è stata focalizzata sui cinque sensi attraverso i quali si può stabilire un rapporto diretto con il libro; e sono stati così mostrati loro i libri tattili, i libri profumati, i libri di stoffa, i libri pop-up, i libri in movimento, i libri sonori. Meravigliati e colpiti positivamente i bambini sono stati guidati nella scelta di letture adatte alla loro età.

La mattinata si è conclusa con l’augurio di tornare per altre gite così allegre e istruttive.

La libreria ha poi donato ai piccoli lettori un goloso sacchetto di caramelle e cioccolatini e un buono sconto da poter spendere per l’acquisto.

Il miracolo di Daniele (e di Facebook)


di Franco Bomprezzi

Questa è una bella storia. La conoscono già in molti, tutti quelli che in vario modo, negli ultimi mesi, hanno contribuito alla causa del piccolo Daniele Amanti, un bimbo davvero molto bello, il cui destino genetico è segnato dai sintomi della distrofia di Duchenne. Non è certo il solo ad avere questa diagnosi, lo sa bene Filippo Buccella, combattivo presidente di Parent Project onlus, l’associazione che si occupa esclusivamente di selezionare e finanziare la ricerca sulle distrofie di Duchenne e di Becker, ossia le due forme più invalidanti fra le distrofie muscolari.

I genitori di Daniele, in particolare papà Fabio, hanno cominciato a utilizzare il web per non rassegnarsi alla sentenza, e per far scattare una lotta contro il tempo, convinti che sia ancora possibile arrivare ad una terapia capace di restituire a Daniele la speranza di una vita normale. Il tempo della ricerca è lungo e tortuoso, si sa, specialmente quando la ricerca si deve occupare di malattie rare, e all’interno delle malattie rare, dei casi più rari ancora.

Ma le difficoltà si possono superare se si lavora allo scoperto, in rete, con trasparenza e disponibilità continua. E qui entra in campo facebook, il social network all’interno del quale succedono cose tremende, come si sa dalle pagine di cronaca. A volte accadono anche piccoli miracoli virtuosi, come questo.

Una giornalista free lance, scrittrice, Cinzia Lacalamita, scopre la storia di Daniele Amanti e si appassiona, vuole fare qualcosa, e pensa di scrivere un libro, ma non agisce da sola, chiede aiuto alla rete, agli amici, alcuni conosciuti personalmente, altri solo virtualmente, come il sottoscritto. Rapidamente il progetto prende forma, un editore ci crede, Cinzia scrive e nello stesso tempo costruisce un libro che serva da base per una campagna di comunicazione e di raccolta fondi. Anche io cerco di dare il mio piccolo contributo, scrivo una lettera aperta al piccolo Daniele, a Cinzia piace e la inserisce nel libro, che vede la prefazione di un’altra amica comune di facebook, Silvia Tortora, la figlia del grande Enzo.

Inutile qui citare tutti i protagonisti di questa gara di solidarietà. Sul sito di Daniele Amanti è possibile seguire i risultati di questa storia. Attorno al libro “Daniele, storia di un bambino che spera”, di Cinzia Lacalamita (editore Aliberti, € 11,90) è scattata una molla con pochi precedenti: in pochi giorni sono stati raccolti oltre 130 mila euro, che rendono del tutto praticabile la cifra di 250 mila euro, ritenuti necessari per finanziare uno specifico programma di ricerca che individui un approccio terapeutico per tutte le mutazioni meno comuni.

La trasparenza, l’aver inserito una storia individuale, certamente toccante ed emotivamente coinvolgente, nel contesto rigoroso dell’attività di un’associazione seria e riconosciuta a livello nazionale, la tenacia di una giornalista capace di tessere una rete vincente di pubbliche relazioni a tutti i livelli, sono alcuni dei fattori che caratterizzano e spiegano il successo di questa iniziativa. Ma è bello anche constatare come oggi, su facebook, Daniele Amanti abbia oltre quattromila fans. Una comunità virtuale che si infiamma, commenta, fa il tifo, partecipa, alimenta il tam tam della rete e lo sposta nella vita reale.

E stavolta anche i telegiornali, i contenitori tv, i giornali, scrivono, più o meno bene, più o meno con completezza, della storia di Daniele e della battaglia dei suoi splendidi genitori. Anche questa è l’Italia, anche questo è il web. E’ bene saperlo.

da www.vita.it

Sulla morte di Yassine e sui ragazzi che restano dentro


del Gruppo Ipm dell’Associazione “L’altro Diritto Onlus”

In questi giorni, dopo la terribile morte di Yassine, i riflettori dei media sono stati improvvisamente puntati sull’Istituto penale per i minorenni di Firenze, e molti sono stati i commenti di politici e rappresentanti delle istituzioni. Le volontarie e i volontari del gruppo IPM dell’Altro diritto onlus, che entrano nell’istituto da dieci anni, svolgendovi una serie di attività di informazione e sostegno per i ragazzi detenuti, hanno finora taciuto perché troppo colpiti da questo lutto. Solo oggi, dopo molte riflessioni, desideriamo esprimere la nostra profonda tristezza per la morte di Yassine, che per noi non è uno dei tanti, ma è il ragazzo conosciuto in questi mesi e al quale abbiamo sperato di poter fornire un po’ di sostegno e di leggerezza, invano. Chi è entrato costantemente nel carcere minorile in questi mesi, non può dimenticare il suo volto. Vogliamo però non limitarci a una espressione di cordoglio, perché siamo consapevoli del fatto che la storia di Yassine non rappresenta un’eccezione. È sì raro che un ragazzo si uccida in un Istituto penale per i minorenni, ma non è rara la sofferenza che Yassine si portava dentro.

Oggi nell’Istituto penale minorile di Firenze sono rimasti altri 21 ragazzi, che portano dentro di sé un dolore immenso per quel che è accaduto, un dolore che si è andato ad aggiungere alla già difficile esperienza di chi vive in stato di detenzione. Per alcuni di loro questo non è il primo suicidio cui assistono, per molti questo lutto si somma ad altri già vissuti nonostante la giovane età. I compagni di cella di Yassine ne hanno raccolto l’ultimo respiro, uno di loro lo ha vegliato pregando. Tutti ieri hanno voluto incontrare l’imam di Firenze, forse una delle poche figure pubbliche che sia davvero riuscita a portare loro conforto.

Oggi, prima che i riflettori si spengano di nuovo (qualcuno ci ha già detto che è tardi per questa riflessione perché la notizia non è più fresca!), vorremmo segnalare alcune cose che riteniamo importantissime: la prima è che, contrariamente a quanto si pensa, le carceri minorili non sono giardini d’infanzia. Sono luoghi per lo più migliori delle carceri per adulti, sono luoghi – come il “Meucci” – dove gli operatori sono profondamente dediti al loro lavoro, ma sono pur sempre dei luoghi di reclusione.

L’art. 37 della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, di cui proprio in questi giorni si celebra il ventennale, stabilisce chiaramente che: “L’arresto, la detenzione o l’imprigionamento di un fanciullo devono essere effettuati in conformità con la legge, costituire un provvedimento di ultima risorsa e avere la durata più breve possibile”. Il Consiglio d’Europa non ha fatto altro che ribadire questo principio a più riprese, affermando che la carcerazione non è uno strumento adatto alla risocializzazione dei minori autori di reato, e che essa deve essere inflitta loro solo quando non sia possibile ricorrere a un diverso sistema di controllo o di sanzione.

Nella stessa direzione va, lo sanno tutti, la normativa italiana sul processo penale minorile, considerata come una delle punte più avanzate del mondo occidentale in tema di tutela dei diritti dei minori. Non possiamo allora accettare che persino di fronte al suicidio di un ragazzo detenuto per mesi in attesa di giudizio per un tentato furto si dica che “spesso il carcere è la soluzione migliore per questi ragazzi”. Nonostante la buona volontà degli operatori, il carcere non è un luogo di presa in carico: si fa il possibile, ma il possibile è troppo poco e le buone intenzioni sono costantemente frenate dalla burocrazia e dalle esigenze di controllo tipiche di ogni situazione carceraria, quel che è accaduto a Yassine ne è la tragica dimostrazione.

Gli operatori della giustizia e i servizi sociali non possono arrendersi a una simile constatazione, che fa ancora più scalpore se pronunciata non caso per caso, ma come massima generale. Noi vorremmo ricordare che, sebbene autori di reato – la maggioranza dei ragazzi ne ha commessi soltanto di lievi -, questi minori hanno diritto a poter costruire il proprio futuro e a vivere un presente conforme alle esigenze proprie di tutti gli adolescenti.

La seconda cosa, urgente, che vorremmo segnalare è che oggi nell’Ipm di Firenze, come negli altri sparsi per l’Italia, restano molti ragazzi e che per loro non solo non viene fatto niente di speciale, ma neppure niente di ordinario. Nell’Istituto fiorentino la scuola non è mai stata organizzata in modo stabile dal Provveditorato. La presenza degli insegnanti dipende dalla buona volontà di chi si fa assegnare una classe in carcere e dall’organizzazione della Scuola città Pestalozzi di Firenze, che si occupa dei corsi di formazione serale per adulti.

Quest’anno non sono riusciti, come altri anni, a incaricarsi anche di questo compito extra, nella situazione già difficile che gli enti preposti alla formazione attraversano, e così la scuola media non è ripartita con l’inizio dell’anno scolastico. Le volontarie e i volontari dell’altro diritto si stanno affannando a collaborare con l’unica insegnante elementare presente per supplire a questa mancanza, e non è la prima volta che questo avviene.

Le istituzioni della giustizia minorile sono state sollecitate dall’istituto stesso, ma invano. Si dà per scontato che in un periodo come questo, dove la scuola è in sofferenza, l’ultimo problema sia quello della scolarizzazione dei minori detenuti. Eppure, la scuola non è per loro solo un diritto, ma è anche una delle poche finestre che essi hanno sull’esterno, un modo per impiegare le mattinate altrimenti vuote, tutte passate – a 15,16,17, 18 anni – entro la cinta di un solo squallido cortile.

Infine, che cosa facciamo per i ragazzi rimasti, come li aiutiamo di fronte al trauma subito? Accettiamo che sia uno dei tanti? Consideriamo sufficiente l’organizzazione ordinaria presente negli Istituti penitenziari? O pensiamo che sia l’ora che la città si prenda cura di questi suoi giovani? Che le carceri minorili diventino davvero luoghi aperti e trasparenti e soprattutto spopolati, in cui sia possibile seguire pochi ragazzi facendo prevalere quelli che Alessandro Margara chiama “gli spiriti della casa” sugli “spiriti del carcere”? L’Ipm Meucci è dietro la stazione centrale. Quanti fiorentini conoscono la sua esistenza?

I ragazzi detenuti nell’Ipm di Firenze, come nel resto d’Italia, appartengono quasi esclusivamente ai seguenti gruppi sociali: sono stranieri, rom, sinti, o minori originari del sud Italia. Se si confrontano i dati relativi alla popolazione detenuta con quelli dei minori autori di reato si scopre facilmente come questi gruppi sociali sono sovra rappresentati in carcere. Il sistema della giustizia penale minorile opera una selezione sociale, individuando come suoi “utenti” privilegiati i minori appartenenti alle categorie più disagiate. Un simile processo di selezione smentisce gli intenti professati dalla riforma del 1988 e dal sistema penitenziario trattamentale nel suo complesso.

Se Yassine fosse stato italiano e avesse avuto alle spalle una “normale famiglia italiana” non sarebbe mai finito in carcere e, certamente, oggi nessuno considererebbe “scaduta” la notizia del suo suicidio. Insieme ai ragazzi reclusi in Ipm, siamo addolorati e indignati. Vorremmo che anche la società nella quale viviamo e lavoriamo continuasse ad esserlo e decidesse di muoversi per evitare che queste tragedie continuino a ripetersi.

da www.ristretti.it