di Giovanni Tropea
Era il 1970, avevo circa12 anni e già lavoravo in una segheria: Assemblavamo imballaggi in legno per prodotti ortofrutticoli.
La mia famiglia era molto numerosa; siamo arrivati a contarci in dodici tra fratelli e sorelle: I miei genitori si sono fermati soltanto quando hanno comprato il televisore!
Mio padre, di mestiere, faceva il carrettiere. Allora, il trasporto delle merci, soprattutto nell’ambito della stessa città, si faceva con carretto e cavallo da tiro. Anche i rari traslochi da un’abitazione ad un’altra erano effettuati allo stesso modo.
Noi ne avevamo quattro di cavalli da tiro. erano enormi. Ciascuno di essi, da solo, era capace di tirare un carretto carico di merce dal peso di tre tonnellate. Si trasportavano agrumi, dai magazzini alla stazione ferroviaria da dove, in seguito, partivano per il nord. Oppure, al porto, dalle navi si scaricavano grossi tronchi di legname della Romania e si trasportavano fino ai depositi o alle segherie di Catania.
Un cavallo, col relativo carretto, era usualmente condotto da Nuccio, il mio fratello maggiore. Il giorno, però, che Nuccio venne ricoverato d’urgenza in ospedale per una peritonite, mio padre mi fece sedere sul carretto, mi mise le redini in mano e mi disse:
“Gianni, devi sostituire Nuccio fino a quando non guarirà. Ce la farai. Ormai sei grande!”
Credo sia del tutto inutile descrivere la mia miopia. Ero eccitato per quell’inaspettato giocattolo ( è in tal modo, almeno, che io consideravo, allora, cavallo e carretto!) che avevo ricevuto, ma ero in special modo felice per il fatto che mio padre mi ritenesse più grande e meritevole della sua fiducia!
Il cavallo era un pacifico, imponente roano molto in là con gli anni. Ai carrettieri piaceva molto questo tipo di cavalli, vuoi per il loro mite carattere, vuoi anche perché imparavano in fretta: Anche a lasciarli senza conducente, avrebbero ugualmente compiuto lo stesso tragitto fino a destinazione.
Al nostro passare, si soffermavano tutti a guardarci: Certo doveva essere molto curioso vedere un ragazzino così esile e mingherlino condurre un tale mastodontico animale1 Nei pressi della stazione ferroviaria, i turisti americani, inglesi e tedeschi, si affrettavano a scattarmi alcune fotografie.
[Vi chiederete come facevo io a sapere che erano americani, inglesi e tedeschi? Ebbene, la mia città è cullata dal mare e accarezzata dal sole, e non catanesi, di conseguenza, , siamo tutti ( o, almeno in gran parte ) abbruniti. A quelli, invece, il sole faceva uno strano effetto: Tingeva la loro carnagione dello stesso colore dei pomodori maturi della nostra piana!]
Il lavoro del carrettiere era molto faticoso. Alle due di notte, mio padre col suo carretto ed io col mio, eravamo già al porto o davanti alla stazione, in fila con gli altri carrettieri, ad aspettare il nostro turno di carico. Poi, davanti alle segherie o ai magazzini, altra fila per scaricare. Si andavaavanti così fino a mezzogiorno, quando, senza nemmeno scendere dal carretto, facevamo una breve pausa per mangiare il cibo che, con cura e dedizione, mia madre aveva preparato la sera precedente. Subito dopo si riprendeva il lavoro. Però tutto questo non mi pesava per nulla anzi, appena stringevatra le mani le redini del cavallo, venivo istantaneamente catapultato nel film “Ombre rosse” ed io mi trasformavo in quel Ringo che, alla guida della diligenza, veniva attaccato da un’orda di spietati pellirosse. La cruente battaglia terminava con me vincitore, è ovvio soltanto alle cinque del pomeriggio quando, sterminati tutti gli indiani, la voce di mio padre mi riportava alla realtà , nella nostra stalla:
“Gianni, sbrigati, governa il cavallo, ripuliscilo da tutto quel sudore, dagli una bella spazzolata e poi dell’acqua e anche un po’ di biada, poi lascialo a riposare, se l’è meritato! Andiamo pure noi a casa, facciamo un bagno, ceniamo e subito a letto. Domani ci aspetta una buona giornata di duro lavoro.”
Una volta a letto, per pochi minuti soltanto fantasticavo sugli inseguimenti e sugli indiani che avrei dovuto affrontare il giorno dopo, poi sprofondavo in un sonno ininterrotto, anch’esso popolato da pellirossa e cowboy.
Dimesso dall’ospedale, mio fratello Nuccio ritornò a casa e riprese a lavorare col suo cavallo, col suo carretto. Mio padre, comunque, non mi mandò più a lavorare in segheria:
“Bada alle stalle!” Mi disse “ Prenditi soprattutto cura di Polly che è malato.”
Polly era un cavallo Baio che soffriva di flebite: Aveva aveva un’infiammazione alle vene delle spalle. Poiché il sole, la sabbia e l’acqua marina sono curativi per questa patologia, tutti i giorni conducevo Polly alla Plaia, l’esteso e luminoso litorale che abbraccia Catania, gli montavo in groppa e facevamo il bagno insieme ( stavolta mi trasformavo in Lancillotto in una delle sue eroiche imprese ) oppure, a volte, mi attaccavo alla sua coda e puntando i piedi sulla sabbia mi lasciavo trainare…
Credo che sia nato così la mia viva passione per i cavalli.
Il progresso, però, avanzava e sempre più diffusamente le motoape, i furgoni e i camions rubarono il lavoro ai cavalli. I carrettieri si trasformarono, dunque, in autotrasportatori e nacquero così le prime agenzie di trasporti e traslochi e di spedizioni e viaggi. Tuttavia, mio padre volle sempre rimanere carrettiere: Si rifiutava di tradire i suoi cavalli e non riusciva anzi, a spiegarsi come gli altri, ormai ex carrettieri, avevano potuto affezionarsi a degli impersonali motori.
Rimase senza lavoro!
Per contribuire al bilancio famigliare, io andai a lavorare in una polleria. Ma la passione per i cavalli rimase.
Quando a ventitre anni, dopo una forzata assenza da casa durata sette anni ( vogliamo dire che avevo preso le ferie?) riuscii ad avere una discreta somma di denaro tutta per me, mi recai a Roma, alle Capannelle, e comprai Sonny, un purosangue irlandese, un sauro di cinque anni, dal fisico asciutto e dal carattere sensibile e nervoso, che non si sarebbe mai abituato ai rumori assordanti e al traffico cittadino. Così, per alcuni mesi, Sonny ed io facemmo solo delle lunghe vagabondate notturne per le strade allora deserte di Catania. quando lo spronavo al galoppo, il clangore del ferro degli zoccoli che batteva sul selciato provocava mille scintille e rimbalzava da un edificio all’altro. La città era tutta e soltanto nostra, in quei momenti, anche se non l’avrei mai ammesso, ridiventavo Ringo.
Spesso, di giorno, io facevo salire su di un furgone che avevo modificato e adibito al trasporto dei cavalli, e lo portavo alla Plaia. Dopo estenuanti cavalcate sulla battigia ( quando mi trasformavo in Lancillotto ), entrambi stanchi e sudati, ci allungavamo a riposare sulla fina sabbia dorata.. Mi sembrava che io e Sonny fossimo diventati una cosa sola: Percepivo i nostri cuori pulsare alla stessa frequenza. Era come se avessimo galoppato sulle nuvole. A volte, rimanevamo sdraiati così fino a quando le ombre si allungavano e il cielo si screziava di arancio e indaco.
Ho imparato molto da Sonny, più di quanto abbia mai imparato da qualsiasi uomo. Ho imparato che nella vita , oltre al prendere, c’è anche il dare.
Poi, un giorno, fui costretto a prendere altre ferie, stavolta durate quattro anni (già, io in ferie non ci vado tutti gli anni, ma quando le prendo è sempre per un periodo molto lungo!).
Comunque, al mio ritorno non trovo più Sonny: Mio padre l’aveva veduto. L’ho cercato dappertutto, ma invano.
Una volta, in un’occasione, qualcuno mi disse che l’avrei trovato in un determinato maneggio di Catania. Ci sono andato col cuore che scoppiava di speranza. Ma il cavallo che mi avevano indicato non era affatto Sonny, ne aveva soltanto ereditato la certificazione. capii, dunque, che Sonny era morto.
Nei tanti anni successivi, ho avuto molti cavalli. Con tutti ho fatto delle lunghe escursioni notturne per le vie, sempre meno deserte della città, ho galoppato sulla sabbia, sempre meno dorata, della Plaia, ma con nessuno di essi mi sono più sentito né Ringo, né tanto meno, Lancillotto.
dal carcere di Spoleto
da www.informacarcere.it