Oggi è la giornata del gatto nero; voglio pubblicare questo racconto scritto da una persona detenuta nel carcere di Spoleto in cui il gatto del titolo è un metafora…leggetelo con attenzione
Agli inizi degli anni ’70, in un quartiere popolare di una ridente cittadina del Sud, sul tetto di una bella palazzina a tre piani, viveva beato un piccolo gatto grigio screziato di bianco. Da lassù, il suo sguardo abbracciava l’intero rione.
La mattina, ancora col buio, scrutava il proprietario del bar all’angolo aprire bottega e preparare i primi caffè: subito dopo, infatti, sarebbero arrivati i fruttaioli per fare una breve sosta prima di recarsi al mercato generale a rifornirsi di frutta e verdura: Tra di loro, due o tre, i ricchi, giungevano a bordo delle loro scintillanti motoape (le prime in circolazione!); tutti gli altri, i poveri, arrivavano su degli sgangherati carretti tirati da stanchi asini o muli.
Poi, quando cominciava ad albeggiare, al bar giungeva il muratore e, quindi, il calzolaio del quartiere.
Il gattino, (che in realtà non possedeva nome alcuno ma che, per comodità narrativa, d’ora in avanti chiamerò Gatto) aveva imparato a conoscere, ad uno ad uno, tutti quegli uomini e le loro pacate, regolari, abitudini!
Dopo poche ore, Gatto poteva scorgere le donnine mentre, coi secchi in mano e parlottando vivacemente tra di loro, si recavano a prendere l’acqua alla fontanella della piazza (è già! Allora, in quel rione, l’acqua diretta in casa era un lusso che soltanto pochissimi privilegiati potevano permettersi!).
Soltanto poco più tardi, quando fronte di bambini in grembiule blu, colletto bianco e fiocco azzurro (per i maschietti) o rosa (per le femminucce), rallegravano il quartiere col loro vociare squillante, Gatto, non prima di qualche stiracchiamento e alcuni sbadigli, finalmente si decideva a balzare giù dal suo tetto e li seguiva: era sempre (e ne può ben intuire il motivo!) fortemente attratto da quei cestini che i bambini roteavano in aria e che contenevano le loro merendine!
Davanti al portone della scuola, immancabilmente Gatto s’immalinconiva nel vedere, attraverso le finestre, che la metà dei banchi delle aule rimanevano tristemente vuoti. A quei tempi, le famiglie avevano molti figli e, fra questi, molti, anche se ancora bambini, venivano mandati a lavorare a bottega per contribuire al magro bilancio familiare. Alcuni ragazzini, addirittura, erano costretti a rubare, magari anche soltanto qualche frutto dal carretto del venditore ambulante.
Contrariato, Gatto se ne ritornava, sul suo tetto e guardava il mare. Trascorreva delle ore a contemplarlo: solo così gli passava l’arrabbiatura. Immaginava, quindi, paesi lontani, al di là di tutto quel blu. Fantasticava su città in cui tutte le abitudini avevano l’acqua corrente, in cui tutti i banchi delle aule di scuola erano occupati e in cui, soprattutto, i ragazzini non erano costretti a rubare.
Alle prime ore pomeridiane, quando, di solito, per le strade del quartiere non c’era molta gente, spesso Gatto sorprendeva una coppia di giovani fidanzatini che dietro un angolo deserto si davano un casto bacio e si scambiavano, con aria furtiva, dei fogli di carta, minutamente ripiegati, coi quali, reciprocamente, si giuravano amore eterno.
(Negli anni ’70 un bacio rubato esprimeva più amore che non dieci di oggi e un’ innocente carezza riscaldava più di cento abbracci di oggi! Negli anni ’70 una lettera racchiudeva più sentimento che non mille sms odierni! Negli anni ’70 ogni cosa aveva un suo profumo caratteristico e un significato speciale! Negli anni ’70, insomma, era tutto più magico!)
Ma ecco che un malaugurato giorno, Gatto, senza nemmeno rendersene conto, cadde giù dal tetto. Venne immediatamente catturato e rinchiuso, insieme ad altri, in una gabbia fatta di cemento e di ferro, e anche intrisa di tanta, troppa, ignorante prepotenza. Com’erano grandi, grossi e malvagi gli altri prigionieri, avrebbero potuto benissimo annientarlo anche con un’unghia soltanto del piede! Era a questo che Gatto pensava quando una notte, all’improvviso, gli apparve l’inquietante figura di un uomo che al posto delle gambe aveva come un fuoco divorante.
“Che cosa vuoi da me?” Gli chiese Gatto.
“Voglio la tua anima! … In cambio ti farò diventare fortissimo… Io ti trasformerò in un orso, in tal modo potrai lottare e vincere contro chiunque voglia sopprimerti!”
“Accetto!” Rispose Gatto con timore e qualche perplessità. Istantaneamente si trasformò in orso.
(Ma Dio dov’era negli anni ’70?)
Cominciò così la storia di Orso. Ora non aveva più timore degli altri. In quelle gabbie di cemento e ferro, più che sui tetti e le strade del quartiere, vigeva la legge della giungla, la legge del più forte. (Ma Dio dov’era negli anni ’70?) Solo che adesso Orso era tra i forti, nessuno avrebbe sperato di potersela cavare se soltanto avesse osato pensare di fargli del male.
Certo, fu una continua lotta. Feroce. (Ma Dio dov’era negli anni ’70?). In inverno, Orso non andò nemmeno in letargo: Era costretto a stare sempre vigile se voleva sopravvivere.
Col passare degli anni, nella gabbia ferro-cemento l’esistenza divenne meno brutale.
A volte Orso aveva persino il tempo di riflettere su quella che era stata la sua trascorsa esistenza. Così gli riaffiorarono alla mente i tempi in cui era un piccolo, libero, gatto grigio screziato di bianco. Con nostalgica amarezza ricordava soprattutto i banchi vuoti delle aule scolastiche.
Ma ecco che un bel giorno Orso scoprì che anche lì, nella gabbia dove viveva, vi erano delle aule con dei banchi vuoti.
“E se ne occupassi uno io? Tanto sono quasi tutti vuoti…” Pensò.
Prese il coraggio a due mani (Pardon, intendevo dire: “a due zampe”!) e senza starci a pensare troppo su, si sedette.
Incominciò così, piano piano, ad imparare a leggere e anche a scrivere. (Vuoi vedere che lì c’era Dio?!)
Col tempo Orso imparò anche qualche nozione di Storia, di Geografia e di Matematica.
Più passava il tempo e più conosceva però, maggiore diveniva il desiderio di riavere la sua anima. avrebbe voluto essere ancora Gatto. Desiderava ritornare su quel tetto della palazzina a tre piani di quel quartiere popolare della ridente città del Sud.
Non avrebbe avuto, per lui, nemmeno più importanza se alti palazzi avevano ormai del tutto ostruito la visuale del mare, se il bar all’angolo non c’era più, se i bambini si recavano a scuola senza grembiule ma con T-shirt e jeans firmati. Non importava neppure se freddi Ipermercati avevano sostituito le accoglienti botteghe del fruttivendolo, del calzolaio, del macellaio, del panettiere, ecc…
(Però che tristezza non vedere più due giovani innamorati scambiarsi una lettera d’amore!)
Orso percepiva di possedere un’anima nuova. Un’anima donatagli dall’altissimo.
Aveva scoperto che dio è in tutto il Creato. E che il Suo Amore è in tutti gli uomini: Anche se in tanti uccidono tale amore perché, erroneamente, ritengono sia più facile e vantaggioso coltivare odio e egoismo.
Aveva soprattutto intuito che per Dio lui era ritornato ad essere Gatto! (O forse, non aveva mai cessato di esserlo?!)
Giovanni Tropea
Carcere di Spoleto