Chi scopa in casa, lo fa di più a letto: questo gioco di parole potrebbe sintetizzare le conclusioni di uno studio pubblicato sull’ultimo numero del Journal of Family Issues. Lo studio ha scoperto che c’é un rapporto direttamente proporzionale tra impegno nei lavori domestici e frequenza nei rapporti di coppia. Un rapporto che non cambia se a impegnarsi in faccende di casa sono gli uomini o le donne. Lavare il pavimento, stirare o mandare la lavatrice non sono certamente afrodisiaci né lo è vedere il partner che passa l’aspirapolvere o lava i piatti, concordano gli autori che hanno interpellato in proposito 6.877 coppie sposate. Ma il presupposto dello studio è che più si spendono energie in un settore della vita, più si hanno energie per altre attività, compresa l’attività sessuale. Lo studio ha trovato anche una correlazione tra ore passate in un lavoro salariato e la frequenza del sesso in una coppia. ‘Anziche’ compromettere la vita sessuale a causa delle esigenze sul lavoro o in casa, questo gruppo di coppie sembra avere il sesso come priorita”, ha spiegato Constance Gager, la sociologa autrice dello studio di cui da oggi notizia il Wall Street Journal. La Gager e i suoi colleghi sono rimasti sorpresi dai risultati dello studio: si aspettavano che sarebbero stati gli uomini a beneficiare più delle donne del rapporto sesso-lavori in casa per una sorta di “effetto ringraziamento” da parte del partner più tradizionalmente impegnato in faccende domestiche: hanno scoperto invece che l’effetto si applica in misura eguale per entrambi i sessi. Un aumento dell’1 per cento nelle ore passate a lavare i panni o a stirare si traduce per una moglie nello 0,11 per cento di aumento nei rapporti sessuali mentre lo stesso aumento percentuale in impegni domestici per i mariti porta allo 0,06 per cento di intimità tra le lenzuole. “Non sembra molto ma è un dettaglio che fa la differenza: una coppia sopra la media in cui la moglie passa 68 ore in faccende di casa e il marito 45 farà sesso 15 volte di più in un anno di una coppia sotto la media dove l’impegno complessivo in casa è di sole 18 ore”. Lo studio rientra in un crescente interesse dei sociologi della famiglia su come i lavori domestici influenzano le dinamiche del matrimonio: un recente sondaggio del Pew Research Center ha scoperto che gli americani adulti mettono la condivisione delle faccende al terzo posto tra i fattori importanti nella vita di coppia dopo la fedeltà e una buona intimità sessuale.
Archivi giornalieri: 21 ottobre 2009
Caffè: tre o più tazze al giorno combattono l’epatite C
Bere tre o più tazze di caffè al giorno aiuta gli individui affetti da cirrosi epatica ad evitare che la malattia progredisca in cirrosi epatica.
Questo è quanto risulta da uno studio del National Cancer Institute, diretto dal dottor Neal Freedman e pubblicato su “Hepatology”.
I ricercatori hanno osservato 776 soggetti colpiti da epatite C cronica, analizzando la progressione della patologia verso l’insufficienza epatica. Essi hanno così potuto notare come un robusto consumo di caffè (2-3 tazze al giorno) era associato a una diminuzione del 53% dei danni epatici nei soggetti dopo un periodo di 4 anni. Moderatamente soddisfatto il dottor Freedman che, pur ritenendo significativo il risultato, ritiene che esso debba venir confermato da studi futuri.
Secondo i dati dell’OMS, l’epatite C ed il suo virus HCV colpiscono 3-4 milioni di persone . Nel 70% dei casi, l’epatite muta in una forma cronica che costituisce un importante fattore di rischio per lo sviluppo di cirrosi epatica o epatocarcinoma (tumore al fegato).
In tal caso, “L’organismo reagisce alla presenza del virus con una risposta infiammatoria che a lungo andare compromette la struttura del fegato, sostituendo progressivamente le cellule epatiche con tessuto fibroso e ciò conduce allo sviluppo della cirrosi, e quindi alla comparsa dei sintomi e dei segni dell’insufficienza epatica”, spiega il professor Massimo Memoli dell’Istituto di Medicina Generale della Fondazione Centro San Raffaele del Monte Tabor di Milano.
Se lo studio del Cancer Institute fosse perciò seguito da altri responsi positivi, la lotta all’epatite C avrebbe segnato perciò un’importante passo avanti.
Roma Film Fest: Coelho presenta ‘LA STREGA DI PORTOBELLO’
Evento speciale al Festival del cinema di Roma: lo scrittore brasiliano Paulo Coelho, uno dei piu’ grandi narratori contemporanei ha presentato al Festival il lungometraggio “La strega di Portobello” tratto dal suo omonimo libro. Ad illustrarlo alla platea dei giornalisti e’ stato l’autore insieme ad Elisabetta Sgarbi, della Bompiani (casa editrice dello scrittore brasiliano in Italia, ndr). Il film nasce da un’idea di Coelho che ha invitato attraverso internet, di cui e’ fan appassionato, i suoi lettori ad adattare per il cinema il libro. Il film nasce quindi da un concorso effettuato fra i suoi affezionati lettori che si sono ispirati al romanzo, realizzando in veste di servizi, corti di grandissima qualita’.
In questo modo, attraverso le immagini, lo spettatore viene proiettato all’interno dell’universo narrativo creato da Coelho in una vera e propria esplorazione visiva dei temi cari all’autore brasiliano. Coelho ha creato un suo sito pirata in cui, addirittura, spiega come scaricare i suoi libri e questo spiega il motivo per cui ha utilizzato internet e quindi il suo blog per farsi aiutare dai lettori nella realizzazione del film. “Sono molto onorato di presentare in anteprima mondiale ‘La strega di Portobello’ qui al Festival del Cinema di Roma che e’ una rassegna molto interessante. Ma soprattutto sono qui per presentare – ha detto Coelho – le persone che hanno partecipato e reso possibile il film. Mettere in pratica questo progetto e’ stato difficile, l’idea pero’ era estremamente semplice. Abbiamo ricevuto seimila progetti ma solo quindici sono stati scelti. Tutti erano lavori di grande qualita’, non e’ stata un’operazione semplice sceglierne solo quindici che comunque provengono da tutto il mondo. Perche’ questo libro? E’ un testo che si presta bene al tipo di lavoro che abbiamo realizzato”.
fonte AGI
Violenza: se la città difende gli stupratori di Benedetta Verrini
Montalto di Castro si schiera con il branco. La Casa delle donne: «La vittima paga sempre il prezzo più alto»
«È terribile ma è uno schema che conosciamo: la vittima ha turbato l’ordine di una comunità, per questo paga un prezzo altissimo, la condanna sociale e la distruzione della sua credibilità». Alla Casa delle Donne di Bologna, associazione impegnata nell’assistenza sociale e legale delle donne che subiscono violenza, leggono con rassegnato sconforto gli sviluppi, non solo processuali, della vicenda di Montalto di Castro.
La storia è nota: un intero paese si è messo dalla parte del branco, 8 ragazzi (alcuni oggi maggiorenni) che nel 2007 violentarono una ragazzina 15enne al termine di una festa di compleanno. Dopo la decisione del Tribunale di adottare per tutti la misura della messa alla prova, con una sospensione del processo per due anni, la vittima non trova pace. E il branco è già stato riabilitato: dopo che il sindaco si è addirittura occupato di pagare le spese legali, i responsabili trovano lavoro e piena solidarietà da parte della cittadinanza. Un reportage del Corriere della Sera riporta dichiarazioni raggelanti. Il pensionato: «Avrei fatto la fila con loro». Il carabiniere: «Perché ha parlato solo un mese dopo?».
«Gli stupratori sono giovani integrati e figli di famiglie conosciute. Prevale il maschilismo e la vittima soccombe in un rapporto di forza in cui l’opinione pubblica si forma su una conoscenza superficiale e odiosi stereotipi», commenta Elsa Antonioni, operatrice della Casa delle Donne. In un caso di stupro la vittima si trova in una situazione di fragilità drammatica «sia a livello personale, che sociale, che processuale», prosegue la Antonioni. «Nel processo contano molto il lavoro e le impressioni degli investigatori. Se non vengono raccolte prove sufficienti la causa, che può essere istruita entro 6 mesi dall’accadimento, rischia di essere archiviata. Le prove oggettive, d’altra parte, spesso non ci sono e il branco approfitta della situazione per effettuare testimonianze di copertura reciproca. Ma c’è di più: la vittima è anche testimone, per questo suo ruolo ha meno accesso alle indagini e può essere considerata non credibile se nella sua testimonianza emergono incongruenze. Sfido chiunque a essere lucido e coerente riguardo a un evento così choccante e drammatico».
Ma nel fatto di Montalto scatta anche qualcosa di più: gli stupratori «hanno poco a che vedere con lo stereotipo dello stupratore, straniero, sporco, cattivo», nota l’operatrice. «Questo significa che l’opinione pubblica, in un paese così piccolo, si fonda su una conoscenza superficiale dell’accaduto, su un atteggiamento maschilista in cui la “colpa” ricade necessariamente sulla donna e sul turbamento della quiete sociale. Chi destabilizza l’equilibrio, cioè la ragazza che ha denunciato il fatto, viene condannata anziché ricevere una doverosa solidarietà».
È vergognoso, ma è così. La Antonioni ricorda, oltre alla fatica della vittima di ritornare sul fatto e di essere parte in un percorso giudiziario così lungo e scivoloso, «anche i pesanti costi. Le vittime devono pagarsi le spese legali e le perizie. Ricordo che Veltroni, da sindaco di Roma, aveva proposto di pagare gli avvocati alle vittime di violenza, perché era consapevole della lotta impari che queste persone devono compiere».
La strada è ancora lunga. La Casa delle Donne (www.casadonne.it) ha appena pubblicato un opuscolo informativo ad uso degli avvocati per tutelare nel modo giusto le vittime di violenza, aiutarle a rivelare un segreto ancora troppo spesso inconfessato e accompagnarle in un cammino purtroppo gravoso. L’obiettivo è far sì che la vittima sia davvero tutelata in ogni aspetto e soprattutto costruire una nuova cultura in difesa della donna. A Montalto di Castro questa strada, evidentemente, non è ancora stata spianata.
Quanto ti ho amato di Roberto Benigni
Se tu mi avessi chiesto: “Come stai?”
se tu mi avessi chiesto dove andiamo
t’avrei risposto “bene, certo sai”
ti parlo però senza fiato
mi perdo nel tuo sguardo colossale,
la stella polare sei tu mi sfiori e ridi no, cosi non vale
non parlo e se non parlo poi sto male
Quanto t’ho amato e quanto t’amo non lo sai
e non lo sai perchè non te l’ho detto mai
anche se resto in silenzio, tu lo capisci da te
Quanto t’ho amato e quanto t’amo non lo sai
non l’ho mai detto e non te lo dirò mai
nell’amor le parole non contano conta la musica.
Se tu mi avessi chiesto: “Che si fa?”
se tu mi avessi chiesto dove andiamo
t’avrei risposto dove il vento va
le nuvole fanno un ricamo
mi piove sulla testa un temporale
il cielo nascosto sei tu ma poi svanisce in mezzo alle parole
per questo io non parlo e poi sto male
Quanto t’ho amato e quanto t’amo non lo sai
e non lo sai perchè non te l’ho detto mai
anche se resto in silenzio, tu lo capisci da te
Quanto t’ho amato e quanto t’amo non lo sai
non l’ho mai detto e non te lo dirò mai
nell’amor le parole non contano conta la musica.
Quanto t’ho amato e quanto t’amo non lo sai
non l’ho mai detto ma un giorno capirai
nell’amor le parole non contano conta la musica
Valzer o tango contro la depressione
Un valzer o un tango da ballare in ospedale come antidoto alla depressione e alla noia. Ma anche uno stimolo per le persone anziane a non abbandonare quell’attività fisica regolare che nella terza e quarta età può portare a miglioramenti fisiologici non indifferenti. “Migliora vita e salute ballando”, si intitola non a caso il progetto messo in piedi dal dipartimento di Scienze Gerontologiche e dall’Unità di Medicina dello Sport del Gemelli e dalla Federazione italiana Danza sportiva (Fids), presentato questa mattina a Roma con una performance danzante dall’autore televisivo Gianni Ippoliti e dalla ballerina Natalia Titova, che da novembre porterà un corso di danza sportiva tra le attività ordinarie dell’ospedale romano. “Abbiamo deciso di utilizzare la danza per persone anziane sane ma anche per pazienti che con la musica possono trovare lo stimolo per fare quell’esercizio fisico fondamentale per l’invecchiamento, visto che, con i dovuti accorgimenti, si può ballare fino ad un’età avanzata”, spiega Paolo Zeppilli, professore di Medicina dello Sport e tra gli ideatori del progetto insieme con Roberto Bernabei, professore di Gerontologia della Cattolica di Milano. Inoltre, aggiunge Zeppilli, “la musica di gruppo può rappresentare anche sul piano psicologico un ottimo antidoto alla depressione”. Soddisfatto dell’iniziativa anche il presidente del Coni Gianni Petrucci, il quale parla di “un boom recente della danza, con 120 mila iscritti, e di un’attività giovane che non é importante solo per la televisione”, e sottolinea l’originalità di “un progetto geniale che certamente porterà risultati positivi”. Ma questa attività, conclude Bernabei, “ha un ruolo importante nell’aumento dell’autostima, e grazie alla sua componente di socializzazione è una scelta ottimale anche per categorie ‘delicate’ di pazienti oncologici o con problemi del tono dell’umore
fonte ANSA
Alla Kremlin Cup di tennis Pennetta out Schiavone avanti
Si sono appena conclusi i due incontri al torneo di Mosca in cui erano protagoniste le nostre due atlete rimaste in gara dopo il ritiro della Errani ieri.
Purtroppo Flavia Pennetta è stata costretta al ritiro al secondo set, dopo aver vinto il primo per 6-4, per il riacutizzarsi di fastidi al ginocchio che era già fasciato quando è entrata in campo e nonostante l’intervento del fisioterapista al primo set; speriamo che non sia niente di grave per la nostra numero uno.
Buone notizie invece per Francesca Schiavone che dopo aver perso il primo set al tie break per 7 a 6 si è aggiudicata gli altri due coi punteggi parziali di 6-4, 6-3 in due ore e 30 minuti di gioco contro la spagnola LLagostera e passa quindi al secondo turno.
Legge 104: Brunetta attacca ancora i disabili di Gabriella Meroni
«Metà di chi ricorre alla legge sui permessi nel settore pubblico si fa i cavoli propri»
La metà dei dipendenti pubblici che utilizzano la legge 104, che sono circa il 9% con punte fino al 16%, «abusa di questa legge». A denunciarlo è il ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta che, oggi in una conferenza stampa, ha reso noto i risultati di un monitoraggio sull’uso della norma che consente ai lavoratori pubblici e privati di usufruire di tre giorni al mese di permesso retribuito per chi ha un grave handicap oppure presta assistenza a parenti o affini in simili condizioni, fino al 3° grado di parentela.
«Il 30% dei dipendenti pubblici, in base a stime prudenziali, ma il 50% secondo le mie stime che sono più forzate, abusano della legge 104», ha affermato Brunetta. Il monitoraggio, effettuato dal Formez, su un campione rappresentativo di circa la metà dei dipendenti del pubblico impiego, oltre 1.700.000, in relazione a 9.400 amministrazioni ha evidenziato che nel 2008 sono state 2.439.985 le giornate di permesso fruite e il settore in cui maggiormente si concentrano i permessi è la scuola. Se la media nel pubblico è dell’uso della legge 104 è 9% con punte del 16% in alcune regioni e del 18% in Umbria, la media nel settore privato è dell’1,5%. A questo propiosto il ministro ha sottolineato: «Nel privato l’uso della legge è sottodimensionato rispetto alle richieste, probabilmente per la riluttanza dei datori di alvoro a concedderlo, ma nel pubblico è sovradimensionato rispetto ai bisogni, se ne fa un uso opportunistico», ha precisato.
Brunetta ha quindi affermato che, laddove ci sono abusi, «se eliminassimo tutti i comportamenti opportunistici, libereremmo centinaia di di millioni di euro, da 100 a 300 per l’assistenza a chi ne ha veramente bisogno con buona pace dei fannulloni». «Voglio fare chiarezza sugli usi e gli abusi della 104 non per risparmiare – ha precisato – ma per chi ne ha veramente bisogno, anche in altri modi, magari con i trasferimenti diretti alle famiglie e con l’uso di badanti». Il monitoraggio, ha poi detto il ministro, che «rappresenta la prima analisi dettagliata per tipologia e per amministrazioni», è stato consegnato alle commissioni competenti di Camera e Senato e potrà contribuire alla discussione parlamentare per le modifiche al ddl 1167. «Una legge benemerita, importante, che consente a persone con gravi handicap di essere assistite dai congiunti, ma che troppo spesso si è prestata a una serie di abusi, un atteggiamento insopportabile» ha aggiunto Brunetta. «Noi vogliamo colpire gli approfittatori che si nascondono dietro la legge 104 per fare i cavoli propri».
da www.vita.it
Streghe, vino e banchetti…con il diavolo da www.newsfood.com
Una causa che oggettivamente, può aver dato forma a visioni disperate: appare quindi è “indiscutibile il rapporto tra stregoneria, sottoalimentazione e fame, già intuito da quel grande medico che era Cardano, il quale riferiva di donne miserabili che vivacchiavano nelle valli prealpine mangiando castagne, erbe e verdure selvatiche e perciò erano malcilente, pallide, deformi e maniacalmente fissate in allucinazioni, taciturne e fuori di senno, per cui, egli scriveva, poco differivano da quelle che si crede siano in preda al demonio” (G. Bonomo, Nuove ricerche sulla stregoneria, in M. Cuccu e P.A. Rossi, a cura, La strega, il teologo, lo scienziato, Genova 1986, pag. 37).
E poi non dimentichiamo che la fame è forse uno tra gli allucinogeni più potenti! La sottocultura prodotta dalla povertà, era spesso considerata la principale artefice delle visioni, del volo, dei contatti con l’universo soprannaturale.
Questa interpretazione era solo parzialmente accettata dagli inquisitori, che continuarono ad ascrivere ai nefasti rapporti col demonio, l’origine di una vasta serie di fenomenologie.
La fame endemica mai saziata certo fu una delle motivazioni poste alla base di un malessere interiore, che naturalmente produceva un forte disagio nelle classi socialmente emarginate, per le quali mangiare regolarmente di fatto era una notevole conquista.
Ma al sabba si mangiava e si beveva, si consumavano grosse quantità di cibo e di bevande, spesso ottenute rubando le scorte nei magazzini delle vittime dei malefici.
Vie è la possibilità che le streghe fossero vittime delle visoni o dei sogni prodotti dalla scarsa alimentazione e da una fama che mai trovava soddisfazione? Accettare in toto una simile ipotesi risulta obiettivamente difficile, se pure è innegabile che i grandi banchetti descritti dalle accusate avevano tutte le caratteristiche per essere situati nell’ambito della visione, ben lontani dalla verità.
Secondo il Tartarotti era proprio la fame mai spenta e la mancanza di nutrimenti e calorie, a produrre nelle streghe immagini inesistenti, “non vivono (le donne accusate di stregoneria, n.d.a.) quasi d’altro che di latte, erbe, castagne, legumi ed altri cibi somiglianti, i quali generano sangue rosso, lento, producendo sogni orribili e spaventosi” (G. Tartarotti, Del congresso notturno delle Lammie, Rovereto-Venezia 1749).
Anche nelle fantasie di molti interpreti, il banchetto sabbatico divenne una sorta di eden pagano, dominato dai piaceri materiali. Una visione che di certo non aveva più nulla della dimensione orrida, infiammata dalla demonizzazione cristiana, ma appartenente al materiale immaginario di una cultura che faceva costante ricorso al simbolo: “là vi sono mense imbandite, vi prendono posto e incominciano a mangiare i cibi che il Demonio fornisce o quelli che ciascuno ha portato.
È certo che quei banchetti sono così laidi che, sia che si guardi il loro apparato o se ne percepisca l’odore, facilmente possono procurare nausea anche a uno stomaco affamato” (F. M. Guazzo, Compendium maleficarum, Milano 1608).
Quindi non sempre il banchetto del sabba era figlio dell’utopia di un improbabile Paese di Cuccagna, ma spesso, nella rilettura demonizzante di giudici e inquisitori, finiva per essere espressione ulteriore di una sordida e lurida riunione, consacrata al male e al peccato.
Da alcuni frammenti di un processo celebrato nel 1520 contro tre streghe di Cassano d’Adda, apprendiamo che le accusate recatesi al sabba avevano ucciso dei bambini succhiandone il sangue, quindi si erano concesse ogni libertà intorno ad una tavola imbandita con cani, oche e polli. Al banchetto potevano anche intervenire i demoni. Partendo dalle fonti, possiamo isolare tre blocchi in cui una certa pratica alimentare aveva una funzione precisa nelle credenze sulla stregoneria: cibopozione; banchetto sabbatico che prevedeva una quantità di cibo superiore alla media per il contesto socio-economico di riferimento e/o una composizione fortemente anomala e trasgressiva del banchetto; antropofagia.
Come è noto, nel contesto della stregoneria l’antropofagia svolgeva un ruolo non secondario che aveva il compito di esaltare ulteriormente, agli occhi degli accusatori, l’aspetto demoniaco degli incontri sabbatici. Mangiare i propri simili era una delle manifestazioni non considerabili un errore interpretativo, ma una chiara espressione della magia nera praticata al sabba.
Le streghe cercavano le loro vittime tra quanti non erano protetti dal simbolo del cristianesimo, per poterli sottrarre liberamente al controllo dei genitori e di Dio.
Ecco, a questo proposito, la testimonianza di una strega che nel territorio di Berna divorò tredici bambini, così come ci è giunta attraverso la memoria del Nider: “insidiamo i bambini non ancora battezzati o anche battezzati, soprattutto se non sono protetti dal segno di croce o dalle preghiere.
Con le nostre cerimonie li uccidiamo nelle culle o quando giacciono a fianco dei genitori, e , il seguito, quando si reputa che siano stati soffocati o siano morti per altro motivo, li sottraiamo di nascosto dalla tomba, li cuociamo in acqua calda fino a quando, tolte le ossa, quasi tutta la carne viene resa mangiabile e bevibile.
Dalla sostanza più solida di ciò, fabbrichiamo un unguento adatto alle nostre volontà, alle nostre arti e trasformazioni; con l’elemento più liquido, invece, riempiamo il fiasco e l’otre, dal quale, chi beve, con l’aggiunta di poche cerimonie, immediatamente viene reso complice e fautore della nostra setta” (J. Nider, Formicarius, Colonia 1475).
Il paradosso più grande era raggiunto quando le streghe confermavano che l’antropofagia era praticata con diretti scopi alimentari, e senza alcuna mascherata rituale: “la carne de christiano et maxime de li puttini è più giotta e dolze de mangiar, che non la carne de bestie” (A. Panizza, I processi contro le streghe nel Trentino, in “Archivio trentino”, 7,1888, pag. 205).
Di contro però, si hanno anche notizie di tradizioni popolari dominate dalla superstizione, che proponevano di mangiare carne di strega per entrare in possesso di poteri magici straordinari (Capitulario de partibus Saxoniae, anno 775). A questo punto possiamo dire che anche nella stregoneria il cibo risultava un significante molto preciso, un importante indicatore socio-antropologico.
Il cibo delle streghe, alimento normale o orrido, ma soprattutto anomalo, era un contenitore di credenze, di tradizioni simboliche, che con le sue apparenze manifestava un particolare status a cui apparteneva chi praticava una ben precisa scelta alimentare. Il cibo del sabba era un ulteriore emblema dell’anomalia delle pratiche perseguite dalle streghe: ogni momento dell’incontro corrispondeva all’infrazione di un tabù: la danza, l’itinerario rituale e il pasto si univano in simbiosi, dando vita ad una ricostruzione contrassegnata, nella coscienza del potere antropocentrico, con toni malefici e diabolici.
Quindi il cibo delle streghe è comunque un simbolo che dice molte cose sul loro stato, ma sopratutto offre molte indicazioni per esasperare l’interpretazione negativa del loro operato in occasione del sabba. In esso dove la pratica alimentare era spesso risultato di azioni magiche, ma sempre espressione di pratiche diaboliche, in contrasto con la semplicità dei costumi cristiani: le streghe rubavano animali e bevande; dopo il banchetto, in alcuni casi, gli animali mangiati erano fatti resuscitare e ricondotti nelle stalle; nelle botti in cui avevano sottratto vino o birra, ponevano orina o altri prodotti non commestibili; i corpi dei bambini erano cotti, alcune parti venivano mangiate, mentre altre servivano per la realizzazione di prodotti magici. In pratica si osserva che il banchetto sabbatico, visto attraverso l’ottica condizionante degli accusatori, diventava un chiaro indicatore della totale negatività dei rituali delle streghe.
Il loro pasto, grasso e sfrenato, o orrido da cannibale, era ormai del tutto spogliato da eventuali tracce di culti tradizionali collegati alle culture più antiche.
Su quella mensa perversa in cui si divoravano i neonati e si invocava Satana, ormai pesavano preconcetti demonizzanti maturati in secoli di accese lotte contro la diversità, contro chi non aveva voluto seguire la strada maestra per continuare a percorrere gli antichi sentieri, contro chi aveva fatto del diavolo il proprio dio
Scoperto un tempio romano in un parco della Maremma
Un tempio romano all’interno del Parco Naturale della Maremma, lungo la strada che porta a Marina di Alberese: e’ questa la scoperta di un gruppo di archeologi che hanno riportato alla luce i resti monumentali di un tempio databile intorno al IV secolo d.C.. Si tratta di una struttura rettangolare di circa 11,5m per 6,5m, costruito in opus testaceum (tecnica edilizia romana, costituita da un muro in mattoni che riveste un vespaio in pietra) e successivamente rivestito da lastre marmoree. E’ stato rinvenuto in localita’ Scoglietto, all’interno del Parco Naturale dell’Uccellina a circa tre km dalla spiaggia di Marina d’Alberese. Insieme ai resti del tempio, che testimoniano un importante insediamento romano, sono state rinvenute oltre 50 monete e una ingente quantita’ di reperti ceramici provenienti dall’intero bacino del Mediterraneo, in particolar modo dall’area africana tunisina.
La scoperta, avvenuta dopo una campagna di scavi durata tre mesi, testimonia come, con molta probabilita’, l’Uccellina e la foce dell’Ombrone, in epoca romana, fossero un importante porto di scambio merci provenienti dall’Africa e da tutto il Mediterraneo e dirette: a nord verso Roselle e Siena e a sud verso Heba e l’ager Cosanus. Il progetto archeologico prevede ulteriori campagne di scavi (il team di archeologi e’ convinto che, sempre in localita’ Scoglietto, sia presente un altro tempio eretto in onore di Diana Umbronensis) finalizzate a studiare le dinamiche insediative nell’area della foce dell’Ombrne tra il II secolo a.C e il VI secolo. d.C..
fonte AGI